DALL’ABRUZZO ULTERIORE ALL'ABRUZZO CITERIORE
Giro dall'Adriatico al Gran Sasso e alla Maiella in mountain bike
E' stato mio nipote Marco che mi ha detto: "a settembre ho 5 giorni disponibili, possiamo fare un giro in bici insieme?" A questa richiesta così esplicita non potevo deludere le aspettative di Marco. Mi sono subito messo al lavoro per organizzare un itinerario che avesse due caratteristiche: che fosse interessante dal punto di vista paesaggistico e che non fosse troppo impegnativo, anche se avevamo deciso di effettuare un giro "turistico" con bici a pedalata assistita. Per Marco sarebbe stata la sua prima esperienza ciclistica anche se lui, da buon vigile del fuoco, è fisicamente molto allenato. Non avevamo nessuna intenzione di fare un'impresa sportiva, ma solo una bella esperienza in sella a una bici.
Organizzare un’escursione ciclistica in 5 giorni con l’obiettivo di soddisfare un giovane volenteroso non era facile. Bisognava scegliere un percorso vicino per partire direttamente da casa, evitando spostamenti in auto, utilizzando i 5 giorni esclusivamente per il cammino in bici. Ho pensato di portare Marco alla scoperta di angoli d’Abruzzo, passando dal mare ai monti con brevi percorsi. Bisognava anche considerare le difficoltà che presenta l’aspro territorio abruzzese. A risolvere molti dei problemi logistici ci è venuta incontro Gilda: “io vi accompagno con l’auto per trasportare i bagagli”. La proposta di Gilda ancora una volta ha facilitato i miei progetti. Senza l'ingombro dei bagagli tutto diventava più facile.
Pur conoscendo molto bene l’Abruzzo, come sempre per programmare il percorso ho utilizzato le mie planimetrie stradali con l’aggiunta di Google Maps. Dovevo calcolare esattamente la distanza delle tappe, senza trascurare la difficoltà degli itinerari. Dovevo stabilire, inoltre, le località di tappa in funzione degli alloggi disponibili. Marco si era preso l’incarico di fare le prenotazioni. Appena definito il progetto di viaggio lo invio a Marco che lo accetta incondizionatamente, aveva espresso come unica condizione quella di passare per Rocca Calascio. Ho ideato un percorso che, partendo dalla costa, unisse il Gran Sasso alla Maiella: "dall'Abruzzo Ulteriore all'Abruzzo Citeriore".
Anche questa volta ho predisposto uno schema che comprendesse il chilometraggio, la tabella di marcia, la lunghezza delle salite più impegnative e, naturalmente, le località più importanti.
Essendo un ciclista neofita Marco non possiede una bicicletta e tanto meno una bici elettrica. Bisognava, quindi, trovare una bici con una batteria sufficiente per tappe da 60 – 80 km con diverse salite impegnative che avrebbero messo a dura prova le batterie. Con l’aiuto del mio amico Gianni Alcini del gruppo “Ciclo Escursionismo Abruzzo”, esperto organizzatore di passeggiate ciclistiche e noleggiatore di e-bike, ho potuto provare le sue bici e scegliere quella adatta. Tra i problemi da risolvere c'era anche quello del trasporto delle bici in auto, nel caso si rendesse necessario. Occorreva, cioè, attrezzare la nostra Opel Meriva con un buon portabici per auto. Trasportare due e-bike con un’autovettura berlina non è semplice a causa dell’ingombro e del peso che non doveva superare i 40 chili, pertanto mi sono preoccupato di effettuare alcune prove per fare esperienza e accertarmi della necessaria sicurezza su strade trafficate. Era importante soprattutto la sicurezza di Gilda che avrebbe dovuto fare l’intero percorso in auto da sola, con l'ingombro del porta-bici.
Completata tutta l’organizzazione non rimaneva che partire.
La mattina di giovedì 15 settembre, attrezzata la Meriva con il portabiciclette nuovo fiammante (che non c'è stato bisogno di utilizzare) abbiamo caricati tutti i bagagli. Eravamo d'accordo con Gilda che durante le varie tappe ci saremmo incontrati per la sosta di mezza giornata e all'arrivo, l'avrei chiamata solo nel caso che avessimo bisogno di aiuto. Per traportare comodamente i due caricabatteria e tutto ciò che poteva servire per le eventuali riparazioni ho montato due borse laterali sulla mia "Husquarna". Naturalmente non ho trascurato di installare tutti gli apparecchi per la registrazione GPS e le riprese video-fotografiche. Sul manubrio c’erano due supporti dove hanno preso posto il Bryton “Rider 530” e il "Go-Pro", mentre con il cellulare erano in funzione le app: “Wikiloc” e "Komoot”. Insomma c’era tutto il necessario per la documentazione del viaggio cicloturistico. Ma perché portarsi appresso per un viaggio ciclistico il fastidio e il peso di diverse attrezzature? Perché attraverso le foto e i video è possibile ripercorrere le tappe, soffermarsi e riflettere su alcuni particolari che possono sfuggire durante il percorso.
LE TAPPE
1° Tappa - Roseto degli Abruzzi – Farindola – km. 78
salita verso Città S. Angelo km. 5 (m. 317)
salita verso Penne km. 10 (m. 424)
salita verso Farindola km. 5 + 4 (m. 562)
2° Tappa – Farindola – S. Stefano di Sessanio - km. 56
Riusciamo a partire poco dopo le 9.00, pochi minuti dopo l’orario previsto e, scendendo da Piana Grande, ci dirigiamo verso il lungomare di Roseto dove prendiamo la ciclabile fino a Silvi Marina percorrendo circa 20 km sul litorale Adriatico.
Al termine della ciclabile di Roseto dobbiamo deviare per qualche centinaia di metri sulla Nazionale a causa del ponte ciclopedonale sul fiume Vomano ancora non aperto alla viabilità. Riprendiamo la ciclabile sulla costa di Scerne fino a Pineto con la meravigliosa pineta sul mare. Costeggiamo la Torre di Cerrano che rappresenta una delle torri di avvistamento meglio conservate, realizzate nel medioevo,che faceva parte di un sistema difensivo della costa abruzzese dalle incursioni sarcene e piratesche. Troveremo anche lungo la dorsale appennninica, dal Gran sasso alla Maiella, lo stesso sistema di avvistamento perchè le scorrerie banditesche dalla costa penetravano fin sui monti. Superata la torre proseguiamo per la pineta di Silvi fino al termine della ciclabile.
Questo primo tratto interamente pianeggiante è servito per rodare le nostre gambe.
All’uscita di Silvi Marina abbandoniamo la costa per addentrarci verso l’interno “dall’Adriatico selvaggio verso i pascoli dei monti”, con un percorso inverso di quello compiuto storicamente dai pastori “.....i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare..... e vanno pel tratturo antico al mare" . Oggi non è più tempo di tratturi, le greggi delle pecore al pascolo vengono trasportate con autocarri appositamente attrezzati.
La prima meta di giornata è Città S. Angelo che raggiungiamo affrontando cinque chilometri di leggera salita. Anche questa salita è servita per prepararci agli impegni che avremmo trovato in seguito. Arrivati a Città S. Angelo ci fermiamo nella terrazza del borgo da dove si gode uno dei tanti panorami della costa abruzzese con una vista meravigliosa sul mare, una sosta fatta anche per apprezzare il primo ristoro della mattina.
Città S. Angelo è un toponimo che ricorda il culto di S. Michele Arcangelo. Culto particolarmente curato dai Longobardi che, nella loro conversione al cristianesimo, ne fecero il loro patrono assimilando le sue virtù guerriere a quelle di Odino. C’è, però, chi fa risalire il nome all’antica città preromana di “Angolum”. Dopo la distruzione di un primo insediamento, avvenuta nell’alto medioevo, i Longobardi avrebbero ricostruito il paese ex novo nell'odierna ubicazione, lasciando, come traccia della loro presenza, il culto dell'Angelo.
Il monumento principale del borgo pescarese è la Collegiata di San Michele Arcangelo che oltre ad un pregevole porticato quattrocentesco si caratterizza per la presenza di una imponente torre campanaria che si innalza per 47 metri. La costruzione è attribuita ad Antonio da Lodi che realizzò altri campanili simili a Teramo, Campli, Corropoli e Chieti. La grande torre campanaria rappresentava il simbolo del primato della chiesa sul civile durante le dispute tra l’imperatore e il papato. I campanili e le torri sono stati sempre un simbolo di prestigio, venivano eretti da coloro che prevalevano nelle lotte di potere, che non disdegnavano di abbattere quelle degli avversari.
La collegiata di S. Michele l’ho potuta conoscere in occasione del matrimonio di Marta con Enrico, era doveroso inserirla nel nostro percorso ciclistico.
Città S. Angelo fa parte dei Borghi più belli d’Italia ed è anche città del vino, dell’olio, città slow e città verde. Non potevamo scegliere meglio per la nostra prima sosta ristoratrice. Prima di lasciare il borgo faccio un giro lungo il corso per ammirare da vicino il portale della cattedrale e le “rue” del centro storico. Ho potuto notare che anche Città S. Angelo porta i segni degli ultimi terremoti che hanno colpito l’Abruzzo e le regioni vicine, infatti la torre campanaria è circondata da una struttura in ferro in attesa del suo consolidamento.
Percorrendo una piacevole discesa di circa 5 chilometri, lasciamo la città angolana e ci dirigiamo verso la Valle del Fino in prossimità della confluenza con il Tavo. I due fiumi danno origine al Saline che dopo circa 10 km. sfocia nel mar Adriatico nei pressi di Silvi Marina. Costeggiando il Fino arriviamo al bivio delle Quattro Strade dove prendiamo la statale 81 che, con 9 chilometri di leggera salita, ci porta ai 424 metri di Penne, un altro dei borghi più belli d’Italia.
La città prende il nome dalla sua posizione geografica posta alla sommità di una collina (Pinna Vestinorum). Anche Penne è di origine pre-romana, con una popolazione italica. Era capitale dei Vestini e aderì alla Lega Italica che si formò a “Corfinium” durante la guerra sociale contro Roma. Dopo aver fatto un accordo con i romani Penne divenne Municipio e fu inquadrata nella Regione Picena.
Conquistata dai Longobardi ha fatto parte del ducato di Spoleto e ha seguito tutte le vicende storiche che si sono avvicendate nella penisola. Come tutto il territorio abruzzese è diventata normanna, sveva e, successivamente, fece parte del regno di Carlo d’Angiò, per essere poi governata dagli aragonesi, appartenendo sempre al Regno di Napoli, fino all'impresa garibaldina dei mille.
Penne durante l’occupazione napoleonica ebbe la giurisdizione sul distretto dell'Abruzzo Ulteriore I, che perdette nel 1860 con la formazione del Regno d’Italia.
I bombardamenti della seconda Guerra Mondiale colpirono anche Penne che subì la distruzione di diversi edifici ricostruiti nel dopoguerra con criteri moderni andando ad impattare con l’architettura storica fatta prevalentemente di laterizio. Il suo centro urbano è infatti vestito col cotto, il mattone rosso “a vista” che dalla pavimentazione delle strade sale fino alla cima delle costruzioni civili e religiose. Penne, infatti viene chiamata la “città del mattone”.
La cittadina di Penne si può a ragione definire “città d’arte” con un notevole patrimonio storico e artistico. E’ caratterizzato dalla presenza di venti edifici religiosi di origine medievale, oltre a numerosi palazzi nobiliari e diversi musei. La città è circondata dalle mura quattrocentesche dalle quali si aprono tre antiche porte di accesso: Porta S. Francesco, Porta Santa Croce e Porta Ringa.
L’intitolazione della Porta S. Francesco con la lapide posta sul portale ricorda la visita del santo che, su incarico di Federico II, arrivò in città nel 1216 per conciliare le fazioni rivali in lotta tra loro.
La città di Penne fu teatro di moti risorgimentali da parte di ex murattiani e liberali che sfruttarono la disperazione popolare suscitata dall’epidemia di colera che si diffuse in Italia tra il 1835 e il 1837. La rivolta fu duramente repressa da Ferdinando di Borbone, otto dei promotori vennero fucilati e altri subirono pesanti condanne. La vicenda verrà ricordata anni dopo con il nome di "Martiri pennesi".
Siamo entrati dalla Porta Ringa e ci siamo messi subito alla ricerca di un posto per mangiare. Abbiamo attraversato tutto il centro cittadino e siamo riusciti dalla Porta S. Francesco senza trovare nessun locale aperto. Abbiamo potuto mangiare un panino nel bar D’Angelo nella piazza centrale di Penne. Vicino ai tavolini del bar c’erano delle cassette di frutta in bella vista, alcune pesche dorate avevano attirato la mia attenzione. Il negozio di frutta era chiuso e, pertanto, entro nel bar per chiedere alla titolare se potevo prendere una pesca pagandola a lei. Avendo avuto il consenso termino il suntuoso pasto con una succosa pesca. Dopo il rituale caffè ripartiamo prendendo la discesa verso la diga del Lago di Penne.
In prossimità della diga si trova la Riserva Naturale “Lago di Penne”, naturale porta di accesso al Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, il lago artificiale è stato realizzato con la costruzione di una diga sul fiume Tavo. La Riserva è sorta, negli anni '80 del secolo scorso, per iniziativa di alcuni giovani naturalisti. Una serie di stagni didattici guida alla conoscenza delle piante acquatiche, è stato realizzato anche un giardino didattico per la flora officinale, dotato di cartelli per l’identificazione che illustrano le specie caratteristiche dell’area. Un Sentiero natura costeggia il lago e attraversa il torrente Gallero. Il percorso è munito di cartelli per il riconoscimento delle specie vegetali ed è dotato di capanni per l’osservazione della fauna e il birdwatching. La Riserva "Lago di Penne" è un importante luogo di sosta e di riproduzione dell'avifauna ed è gestita da un comitato composto dal Comune di Penne, il Consorzio di Bonifica Centro e il WWF Italia, con la conduzione affidata alla cooperativa COGESTRE.
Attraversata la diga risaliamo la Valle del Tavo verso Farindola con un paesaggio che da collinare pian piano diventa montagnoso. La catena del Gran Sasso è sempre più vicina. E’ una zona che ho percorso tanti anni fa e che ricorso poco, ma so che la strada porta sicuramente a Farindola e proseguo senza guardare il percorso su “Wikiloc”. Improvvisamente ci troviamo dinanzi a un bivio senza nessun segnale, d’istinto mi verrebbe di girare a sinistra, ma questa volta non voglio fidarmi del mio intuito, controllo il GPS e verifico che a sinistra si andrebbe per Montebello di Bertona, per Farindola si deve girare a destra. Penso che posti interessanti come questi dovrebbero attirare molti turisti, ma anche qui c’è carenza di segnalazioni stradali, un difetto comune a molte parti d’Italia. L’ho constatato girando in lungo e largo la penisola. Eppure l’importanza del turismo è alla base dell’economia nazionale e la toponomastica stradale dovrebbe essere considerato un servizio pubblico indispensabile. Le amministrazionni locali hanno forse ben altri problemi da affrontare che pensare a un piccolo cartello stradale, ma sfugge loro che informare il viaggiatore inesperto favorirebbe il flusso turistico e costituirebbe uno di quei "costi" che avrebbe un grande ritorno economco anche, e soprattutto, per i piccoli centri.
Dopo il bivio "anonimo" percorriamo una brve discesa prima di affrontare l’ultima impegnativa salita. Farindola è posizionata a ridosso della montagna, le case sembrano appoggiate una sull’altra, tutt’intorno un mare di vegetazione. In prossimità del cartello “benvenuti a Farindola” inizia il Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga.
Arriviamo al b&b “Altrocanto” intorno alle 17.00 e siamo ricevuti con cordialità da Thomas che con l'amico Marco gestisce la struttura in un ambiente semplice, ma gradevole. La loro è stata una scelta di vita. Stanchi della frenesia e del caos della grande città, hanno deciso di “fuggire in un luogo tranquillo anche per mettere a frutto la loro capacità di accogliere e far star bene le persone”. Abbiamo apprezzato la cura dei particolari e siccome il b&b ha anche il ristorante annesso, abbiamo prenotato la cena per la serata. Thomas ci accompagna nei locali del magazzino dove ci fa introdurre le bici per mettere in carica le batterie. Marco, mio nipote, ha gestito molto bene la sua batteria, è arrivato con ben 3 tacche sul contatore. Mi ha detto che ha proceduto senza motore per tutta la parte pianeggiante della costa e, successivamente, ha spento il motore lungo le discese. La prima tappa è servita per verificare meglio l'autonomia delle e-bike. Gilda arriva poco dopo, fatta una doccia ristoratrice usciamo per una passeggiata nel centro storico di Farindola.
In un angolo del paese è stato eretto un monumento in ricordo delle vittime della miniera di Marcinelle dove nell’agosto 1956 hanno perso la vita diversi emigranti italiani in gran parte abruzzesi, un’opera modesta, ma fatta con buon gusto. Mi ha particolarmente colpito una scultura in pietra bianca che riproduceva la lettera di una moglie al marito minatore. Ricordo molto bene l'evento che ha commosso tutta l'Italia ed è stato ampiamente raccontato dai giornali, dalla radio e dalle prime trasmissioni televisive. Un evento che fece emergere le difficili condizioni di lavoro di alcune categorie tra cui i minatori a cui appartenevano molti emigranti abruzzesi. Nella prima metà del XX secolo, in virtù del terreno montagnoso e per la presenza di numerosi corsi d’acqua, in Abruzzo vennero realizzate diverse dighe per lo sfruttamento dell’energia idroelettrica. In alcune zone della regione, inoltre, furono attivate miniere per l’estrazione di bitume e bauxite. Si venne a creare, quindi, una manodopera specializzata (cavatori, minatori, scalpellini, carpentieri) che trovò facile collocazione sia nelle grandi miniere del nord Europa che nella costruzione delle nuove autostrade del dopoguerra. Si può dire che i lavoratori abruzzesi si siano guadagnato anche con lo spargimento del loro sangue l’appellativo di gente “forte e gentile”.
Durante la passeggiata ha attirato l’attenzione di Marco l’insegna della “Cantina” con la scritta “cucina tradizionale”, tra cui il pecorino di Farindola. Decidiamo di fare un piccolo assaggio perché il pecorino è una specialità del posto conosciuta in tutto il mondo. E’ un formaggio unico che ha la particolarità di essere prodotto con caglio di maiale. Di fronte alla Cantina c’è una parete dipinta di rosa con una scritta che ringrazia il Giro d’Italia per il suo passaggio nel 2018. La prendo come un augurio anche per noi.
La cena presso l’Altrocanto avviene in un locale anch’esso ben curato, il menù è fatto principalmente di prodotti locali e, naturalmente, non manca il pecorino di Farindola. Abbiamo mangiato molto bene e altrettanto buono è stato il riposo notturno in un’atmosfera riposante.
Farindola - Vado di Sole km. 15 (1.621 m.)
Capo La Serra km. 5,00 (1.599 m.)
Rocca Calascio km. 6,00 (1.400 m.)
Venerdi 16 settembre, dopo aver fatto una sontuosa colazione, aver salutato e ringraziato Thomas per l’accoglienza, ci accingiamo a ripartire. Gilda partirà più tardi e approfitta per conoscere meglio il borgo di Farindola.
Oggi sarà una tappa impegnativa che noi, con la pedalata assistita, affronteremo con una certa leggerezza cercando di godere dei panorami che si presenteranno dinanzi ai nostri occhi. La salita che ci porta a Vado di Sole, nella parte meridionale della catena del Gran Sasso, è lunga 15 km con pendenze che arrivano oltre il 15%.
Il percorso scelto per questo nostro giro per l’Abruzzo prevede il passaggio per Rigopiano che nel gennaio 2017 è stato teatro della tragedia provocata dalla valanga discesa dal canalone del Monte Siella con la distruzione dell’Albergo e la morte di 29 persone. Mi ricordo tutte le scene dei soccorsi riprese in diretta dalla televisione e tutte le vicissitudini causate dall’impossibilità di comunicare con l’Albergo. E’ un ricordo triste come tutte le tragedie che sommano la fatalità, agli erroti umani. Nel disastro di Rigopiano, infatti, oltre alla casualità si deve agggiungere l'imperizia delle autorità nell’autorizzare la costruzione di opere inopportune, a disprezzo dei rischi geologici in un territorio fragile come quello dell'Appennino. Come se non bastasse quel pomeriggio una serie di vicissitudini complicarone le comunicazioni che ostacolarono l'arrivo dei soccorsi.
Salendo verso Rigopiano ogni tanto alzo lo sguardo e vedo sempre più vicino la sagoma del Monte Camicia e del vicino Monte Siella con il funesto canalone. Più ci avviciniamo alla montagna, più il panorama diventa incantevole e più il ricordo è triste. Dietro una curva troviamo un’ampia pianura dove c'è una tipica fontana di montagna con un abbeveratorio per gli animali, siamo arrivati nel posto dove fino a cinque anni fa spiccava l’edificio di 3 piani dell’Hotel Rigopiano, ma che adesso si presenta come una landa desolata. Ci guardiamo in giro quasi increduli e il mio sguardo va sempre verso il canalone che sovrasta il luogo dove era stato edificato l’albergo. E’ un posto stupendo, ma qualunque esperto di montagna avrebbe consigliato di spostare l’edificio di alcune centinaia di metri. Ci fermiamo qualche minuto dinanzi alle foto delle vittime, dell’albergo rimangono solo macerie sparse e la recinzione con il nastro di plastica che, dopo cinque anni, ancora delimita la zona posta sotto sequestro dalla magistratura.
Riprendendo a pedalare transitiamo al bivio con Castelli, voltando a sinistra ci arrampichiamo verso i 1621 metri di Vado di Sole. La salita si sviluppa all’interno di una fitta faggeta, ogni tanto gli alberi si diradano e possiamo scorgere la vallata sottostante fino al mare. Oggi è una giornata assolata ma non troppo limpida, intravvediamo, ma con difficoltà, il percorso compiuto ieri lungo la prima tappa.
Giunti a Vado di Sole notiamo un piccolo avvallamento che si estende sotto la strada, scendiamo con la bici e risaliamo a piedi una spalletta che nasconde uno dei più belli spettacoli che si possono godere in montagna. Lo sguardo spazia dalla Riserva del Voltigno-Angri fino alla distesa di Campo Imperatore. Sotto ai nostri occhi si estende un vallone con una fitta vegetazione, è la Val d'Angri che si estende lungo la parte iniziale del fiume Tavo che nasce a pochi meri da qui. Poco più avanti in direzione di Farindola il fiume penetrare turbinosamente nella grotta detta Bocca dell’Inferno e poi sfocia in una cascata alta 28 metri: la Cascata del Vitello d’Oro. Ero incuriosito di vedere la famosa cascata, ma Thomas ci ha riferito che a causa della siccità quest'anno non è visibile. In lontananza si scorge la Valle del Voltigno, un altipiano di origine carsica, che d'inverno è meta preferita dagli sciatori di fondo e dagli appassionati di ciaspole, ma in primavera attira con le sue fioriture multicolorate.
Dopo aver affrontato la salita più lunga del nostro giro dall'Abruzzo Ulteriore all'Abruzzo Citeriore, con i suoi 15 km, proseguiamo scendendo verso l’Altopiano di Campo Imperatore e al bivio con Fonte Vetica giriamo a sinistra, avevo promesso a Gila che avremmo pranzato insieme a Castel del Monte. Sarebbe stato interessante andare verso Fonte Vetica con i due ristori che mettono a disposizione le fornacelle per cuocere gli arrosticini provenienti dalla vicina Villa Celiera che, si dice, siano i più buoni di tutto l'Abruzzo. Marco resta un pò deluso anche perché la deviazione non ci consene di passare in località "lo chiamavano Trinità" dove è stato girato uno dei western all'italiana più conosciuti.
L'altipiano di Campo Imperatore (che è ampio quanto la fama che si è conquistata Federico II) è sovrastato dalla Catena del Gran Sasso: dal corno Grande, al Monte Aquila, al Brancastello, al Prena, al Camicia, fino al Monte Siella per degradare verso Vado di Sole. L'intera catena si estende dal Passo delle Capannelle alle Gole di Popoli per circa 50 km, mentre l'Altopiano di Campo Imperatore ha una lunghezza di 18 km e una larghezza massima di 8 km.
Dal bivio di Campo Imperatore la strada ricomincia a salire verso i 1599 metri di Capo la Serra. Superato il Passo della Serra dopo pochi chilometri troviamo il cartello che indica l’ingresso nella "Riserva Regionale del Voltigno". A metà della discesa troviamo Castel del Monte dove Gilda ci aspetta “da Loredana”, un ristorane da lei scoperto e dove ci assicura che si mangia molto bene. All’interno del ristorante, vicino al nostro tavolo ci sono dei ciclisti, alcuni di loro hanno la divisa con la scritta “L’Eroica”, il nome di una famosa corsa che si corre rigorosamente con bici e divise d’epoca. La manifestazione si effettua in Toscana lungo le “strade bianche” delle crete senesi. La cosa mi incuriosisce molto, ma come al solito non faccio alcuna domanda, lungo la strada troverò la risposta alla mia curiosità.
Dopo aver mangiato molto bene come ci aveva anticipato Gilda, con Marco riprendiamo le nostre bici e proseguiamo per la discesa prima di affrontare l’ultima salita di giornata. Arrivati all’ingresso di Calascio, prima di girare per Rocca Calascio vedo ai lati della strada alcuni cartelli colorati con stampati alcuni numeri con la scritta “la nova eroica Gran Sasso”. Capisco che si tratta della replica abruzzese della famosa manifestazione ciclistica toscana che si correrà domani. Sono contento che anche i toscani abbiano scoperto le suggestioni di questo territorio.
Ci rimane l’ultimo tratto di salita di 3,5 chilometri che ci porta a Rocca Calascio. Come al solito diverse auto sono ferme ai lati della strada, nei pressi del borgo non c'è spazio per un parcheggio, nel periodo estivo con l'arrivo dei turisti è stato istituito un servizio di auto navetta, ma c'è sempre qualcuno che si avventura negli ultimi chilometri si salita in una strada molto stretta. Non è facile salire all'interno del borgo con le biciclette, perché oggi c'è un gran fermento di gente. Mi colpisce vedere molti turisti con i bagagli che, evidentemente, non sono qui per una visita fugace, ma per rimanere a pernottare, cosa impensabile fino a pochi anni fa. Ormai la Rocca è conosciuta dal grande pubblico e molti sono attirati da questo ambiente che ha molto di fiabesco. Risalente all'epoca normanna è uno dei borghi più caratteristici che testimoniano il fenomeno medievale dell'incastellamento. Faceva parte di un sistema difensivo di avvistamento. Sia il castello che il borgo hanno subìto diverse calamità in seguito a numerosi terremoti, ma anche a causa invasioni da parte di pirati e saraceni. Rocca Calascio con i suioi 1460 metri di altitudine è il più alto castello dell'Appennino.
Entriamo nel vecchio borgo, a quota 1400 metri, ormai quasi completamente ristrutturato, ma l'affollamento di gente ci consiglia di scendere dalle nostre bici e dopo averle legate a una ringhiera di ferro proseguiamo a piedi l’arrampicata verso la Rocca percorrendo gli ultimi 60 metri di dislivello in un sentiero scosceso che richiede una certa perizia. Per l'importanza storica e la bellezza del paesaggio raggiungere Rocca Calascio è sempre molto stimolante, sono tante le volte che sono salito qui che questi posti mi sono diventati familiari. Dopo la visita al Castello ci avviamo per la destinazione finale che raggiungiamo prendendo la Val Paretra tramite lo sterrato che passa sotto la Rocca. A Santo Stefano di Sessanio ci aspetta Mirella nel suo b&b “Le bifore e la luna” all'interno del Palazzo Piccolomini.
Nel periodo feudale, Santo Stefano, come Castel del Monte e Rocca Calascio, faceva parte della "Baronia di Carapelle", appartenuta tra l’altro ad alcune illustri famiglie toscane: i Piccolomini prima ed i Medici poi, che sfruttarono il fiorente commercio della lana. Santo Stefano di Sessanio divenne il centro principale di produzione della pregiata lana “carfagna” che, lavorata a Firenze, veniva poi esportata in tutta Europa. La Baronia era un ampio territorio che comprendeva diversi borghi intorno alla Piana di Navelli e la Valle del Tirino, fino a Campo Imperatore. L'area costituiva un bacino pastorale tra i più importanti dell'Italia centrale ed era situata in posizione strategica rispetto ai percorsi dei tratturi. La Via degli Abruzzi rappresentava uno dei traffici commerciali fondamentali per l'economia della penisola. Per la sua importanza fu istituita la "Dogana della mena in Puglia" da dove partivano le strade della transumanza verso il Tavoliere. La denominazione del borgo sembra che derivi da "Sextanio", posto a sei miglia (sextana) da Peltuinum, antica città romana situata nella Piana di Navelli.
Sia i Medici che i Piccolomini utilizzarono la proprietà della Baronia per i loro commerci, ma pur lasciando alcuni segni importanti, la loro presenza fu sporadica. Per le due famiglie il territorio abruzzese rappresentava solo una piccola parte dei loro diversificati interessi, ma la dominazione medicea rappresentò pur sempre il periodo di massimo splendore per questo territorio, a testimonianza della quale sulla porta Urbica resta lo stemma di famiglia rappresentato da sei palle a cui è stata aggiunta la corona del Granducato. Sulla sommità del borgo si innalza la torre impropriamente detta medicea, perché la torre era già stata costruita ben prima dell'avvento dei Medici.
Con l’Unità d’Italia, com’è accaduto per tanti altri luoghi del centro-sud comincia una decadenza economica e sociale. A causa della privatizzazione delle terre del Tavoliere delle Puglie, si avvia una lenta ma profonda crisi della pastorizia in Abruzzo e un graduale periodo di spopolamento dell'ex Baronia. Il periodo della decadenza e dell'abbandono, però, non ha fatto perdere a questi luoghi la loro bellezza. Negli ultimi anni del secolo scorso mi è capitato di visitare alcuni di questi paesi che erano diventati dei veri musei a cielo aperto, ma desolatamente vuoti. Ciò ha consentito di non essere intaccati da quella modernità posticcia che ha deturpato alcuni dei migliori angoli della penisola. La creazione e lo sviluppo del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga ha senz'altro contribuito a far conoscere quese zone al turismo di massa, sperando che non diventi un turismo di solo consumo.
Anche S. Stefano di Sessanio, come tutto il territorio aquilano ha subito danni dal terremoto del 2009. La ferita più consistente è stato il crollo della torre medicea che dominava l'abitato. Alta 20 metri, a pianta cilindrica realizzzata con pietra di montagna, la torre rappresenta il simbolo del paese. I lavori di ricostruzione della torre sono iniziati nel maggio 2017, con una minuziosa attività di recupero e conservazione del materiale lapideo. Per proteggere il monumento da uteriori scosse di terremoto sono state adottate tecniche di avanguardia. La torre è stata riaperta al pubblico e Mirella ci prenota per l'ultima visita di giornata. Accompagnati dalla guida Roberta Ianni possiamo conoscere una sintesi della storia del borgo e alcune informazioni sulle tecniche di ricostruzione. Attraverso una solida scala di legno la guida ci fa salire sulla terrazza da dove si può godere di un ampio panorama su tutto il territorio della Baronia.
Il marito di Mirella è il mio storico amico Marco Manilla di Poggio Picenze. Storico perché con Marco per molto tempo ho condiviso lunghe partite a tennis, escursioni in montagna e pedalate in bicicletta. Ha voluto festeggiare il nostro incontro invitandoci a cenare presso "La locanda sul Lago" dove terminiamo la seconda serata del nostro percorso. Marco ha deciso che ci raggiungerà a Pacentro dove partirà in bici insieme a noi fino a Decontra dove ci sono alcuni suoi amici.
3° Tappa – S. Stefano di Sessanio - Pacentro - km. 78
salita di Pacentro km. 10,00 (690 m.)
Sistemate le bici per la partenza, la mattina dopo con mio nipote Marco lasciamo la casa di Mirella e salutiamo il mio amico Marco. Gilda trascorrerà l’intera mattinata in compagnia di Mirella, prima di raggiungerci a Pacentro. Oggi percorreremo la tappa più lunga dell’intero cammino, ma anche quella meno impegnativa. Nei primi quarantacinque chilometri ci sono lunghi tratti di discesa, incontreremo solo una leggera salita finale per arrivare a Pacentro.
Sabato 17 settembre è ancora una bella giornata assolata. Uscendo da Santo Stefano di Sessanio, in lontananza possiamo apprezzare la sagoma della torre medicea finalmente ricostruita. Per tredici lunghi anni mi si stringeva il cuore vedendo il traliccio di ferro che era stato innalzato al posto della torre. Nell’attesa di rivederla di nuovo svettare sopra i tetti del borgo e per mantenere viva la sua memoria mi sono dilettato a riprodurre la torre con alcuni dipinti ad olio, che non sfigurano di fianco alla mia piccola collezione d'arte.
Lasciando S.Stefano di Sessanio attraversiamo il Sentiero Italia del CAI che, provenendo dal Gran Sasso, prosegue verso Castelvecchio Calvisio. Percorrendo diversi tratti si montagna incontreremo ancora diverse volte il percorso del CAI.
Ci avviamo verso Calascio e proprio al bivio con Castel del Monte mi attira l'attenzione un cartello stradale con alcune freccie che indicano una serie di località che riporta in alto l'intestazione: "Segnale Turistico CALASCIO". Ci sono sette segnalazioni con sei nomi di "santi", oltre all'indicazione di Rocca Calascio, non viene indicata altra località di interesse turistico. E' una singolarità che ho potuto constatare in diverse parti della nostra penisola dove non c'è abbondanza di informazioni stradali e turistiche, ma numerosi sono i cartelli con l'insegna di una cappella, una cripta, un eremo o una qualunque località con la presenza di un santo. Non esagero se dico che lungo le strade italiane ogni cinque o sei chilometri si può incontrare il nome di un santo. Dice Leonardo Tondelli "come il calcio e la pasta, i santi da sempre fanno parte del mio paesaggio" ("Catalogo dei santi ribelli" L.Tondelli ed.UTET 2022). Ciò indica la devozione del popolo verso alcune figure della tradizione cristiana che riscuotono maggiore interesse rispetto a tanti monumenti, reperti sorici e artistici. Essendo la culla della cristianità non ci si può stupire, però nel programmare la viabilità le amministrazioni comunali potrebbero installare qualche indicazione in più, anche perché il turismo è la più importante risorsa economica nazionale. Tante sono le indicazioni dei santi come innumerevoli sono le targhe di marmo sui palazzi sparsi per l’Italia dove avrebbe soggiornato Garibaldi.
Superiamo il bivio di Calascio e proseguiamo per iniziare la prima discesa di giornata. Già sui primi tornanti vediamo alcuni dei partecipanti alla “nova eroica Gran Sasso” che, a differenza della storica "eroica" toscana non viene corsa con equipaggiamento d'epoca. I concorrenti vengono da Castelnuovo Calvisio e salgono verso Calascio. Notiamo la presenza di molte donne che pedalano in salita con determinazione e caparbietà. Il ciclismo è una disciplina che negli ultimi tempi si sta affermando interessando entrambi i sessi, soprattutto nel campo amatoriale. Lo considero un buon segno, anche se io nell'attività sportiva preferisco sempre l’impegno non competitivo.
Superiamo il bivio di Castelnuovo e di Carapelle Calvisio che mi riprometto di tornare a visitare perché rappresentano due esempi di costruzioni medievali che conservano interamente le caratteristiche architettoniche dell'epoca.
La discesa termina a San Pio delle Camere che con il suo castello sembra fare da guardia a tutta la Piana di Navelli. La denominazione “delle camere” deriva dalle grotte di cui è cosparsa la collina rocciosa. Sono cavità chiuse che in passato venivano utilizzate come depositi o ricoveri. Il rudere del castello che sovrasta l’abitato, insieme ad altre torri disseminate lungo le alture costituiva quel sistema difensivo di avvistamento di cui facevano parte anche la Rocca di Calascio e la torre di S. Stefano.
Entriamo nella Piana di Navelli dove storicamente si coltiva uno zafferano famoso per la sua alta qualità, ma non possiamo ignorare che nella parte alta del territorio della Baronia si coltiva anche un'ottima lenticchia. Coltivazioni rese possibile dalla minuziosa manualità dell'uomo che, dissodando terreni rocciosi e infruttuosi, unita all'altitudine oltre i mille metri, consente una produzione con eccellenti caratteristiche.
Percorriamo la nuova pista ciclabile costruita lungo il tratturo che inizia da Peltuinum, antica città italica dei Vestini, di cui vediamo in lontananza il sito archeologico. Lungo la strada del vecchio tratturo che collegava l'Abruzzo al Tavogliere pugliese incontriamo due piccoli edifici religiosi: Santa Maria de’ Centurelli e Madonna del Campo dalla tipica architettura romano-gotico-abruzzese. Il culto della Madonna dell'Incoronata, come quello dell'Arcangelo Michele, è risalito dalla Puglia all'Abruzzo lungo le vie d'erba della transumanza. Percorrendo l'altipiano dall’alto spiccano gli abitati di Civitaretenga, Navelli e Collepietro. Nelle vicinanze ci sarebbe il complesso monastico di Bominaco con l’Oratorio di San Pellegrino e la chiesa di Santa Maria Assunta, ma la tabella di marcia non ci consente di fare deviazioni. Il comlesso monumentale di Bominaco è uno dei tesori nascosti dell'Abruzzo che un turista non dovrebbe trascurare. Qualcuno si ostina a chiamarlo, impropriamente, la Cappella Sistina d'Abruzzo. Sono nettamente contrario a plagire il nome di luoghi famosi. Il vecchio eremo ha una sua importanza e una bellezza artistica che non ha niente da invidiare ad altre opere d'arte, perché ognuna andrebbe valutata e apprezzata per le sue peculiarità.
Al termine della Piana di Navelli ci troviamo improvvisamente di fronte all’immenso panorama della Valle Peligna, il nome deriva dal greco "peline" (pelagus, pelagio) ovvero fangoso, limaccioso. In epoca preistorica la zona era coperta da un vasto lago. Percorriamo le “Svolte di Popoli” in discesa e possiamo vedere sull'asfalto i segni della famosa corsa automobilistica che si svolge in salita. Giunti a Popoli costeggiamo le sorgenti del Pescara che più a valle si unisce con l'Aterno per proseguire fino al mar Adriatico. Le acque che sgorgano dalle sorgenti provengono dal gruppo del Gran Sasso e dal Sirente-Velino con un lungo percorso sotterraneo. Per l'abbondanza delle acque Popoli è chiamata "La città delle acque".
A Popoli troviamo ancora il Sentiero Italia del CAI da dove si arrampica sul versante ovest del Monte Morrone. Attraversato il ponte alla confluenza del Pescara con l'Aterno lasciamo l'Abruzzo Ulteriore ed entriamo nell'Abruzzo Citeriore. Fu Federico II che istituì per primo l'unità amministrativa abruzzese chiamata "Gistizierato". Successivamente Carlo d'Angiò sancì, col diploma di Alife, la suddivisione dell'Abruzzo, considerato un distretto troppo esteso per essere ben amministrato e difeso, trovandosi all'estremo limite settentrionale del regno: l'Aprutium ultra flumen Piscariae e l'Apriutium citra flumen Piscariae. Il corso naturale del fiume Aterno-Pescara divideva le due aree amministrative. Il sistema amministrativo dei Giustizierati venne abbolito nel 1806 da Giuseppe Napoleone che introdusse le Provincie, i Distretti e i Comuni che in gran parte rappresentano l'attuale divisione amministrativa italiana.
Per non percorrere la troppo frequentata Via Tiburtina, deviamo verso Vittorito in una strada assolutamente priva di traffico. Superato l’abitato di Vittorito dove, oltre ad alcune auto parcheggiate non abbiamo visto anima viva, risaliamo il fiume Aterno in un tratto di strada dominata da una roccia a strapiombo fino ad un ponte con un cartello turistico (uno dei pochi che abbiamo trovato lungo il percorso!) che ci informa che siamo in prossimità delle Gole di San Venanzio (l'ennesimo nome di santo!). Le Gole sono solcate dalle acque dell'Aterno proveniente dalla conca aquilana. Lunghe sei chilometri le gole sono completamente scavate nella roccia e racchiudono, come un gioiello, l’Eremo di San Venanzio con una vegetazione rigogliosa e selvaggia che caratterizza questo angolo poco conosciuto all'interno dell'omonima Riserva Naturale protetta. Tra le gole si ritirò nel XIII secolo San Venanzio da Camerino insieme al suo maesro Porfirio. L'eremo edificato in suo onore sovrasta il percorso del fiume ed è tutt'ora in buono stato di conservazione. Dietro all'altare maggiore, protetto da una balaustra, c'è l'accesso alla Scala Santa, la quale, completamente scavata nella roccia, conduce ad una piccola grotta identificabile con la parte più antica della struttura. L'abbondanza di acqua e la presenza di pareti di roccia hanno tramandato alcuni riti pagani al successivo culto cristiano. Secondo alcune credenze antiche attingere l'acqua e srofinanrsi contro la roccia rischiara la vista, guarisce la dermatosi e la sterilità, ma i devoti se ne servono per scopi molteplici. Si racconta che dalla strada che percorre questa gola passò il corteo che scortava il futuro papa Celestino V fino alla Basilica di Santa Maria di Collemaggio a L'Aquila per la sua incoronazione papale.
Proseguendo arriviamo a Raiano che è sopraggiunta l’ora di pranzo, ma non riusciamo a trovare un ristoro. Chiedendo informazioni a un passante ci viene indicata una tavola calda presso un distributore di benzina alcuni chilometri più avanti, ci viene anche detto che a Raiano i locali aprono negli orari serali quando i giovani escono per la movida. Alla tavola calda di Maria abbiamo mangiato abbastanza bene anche se, ordinando una “matriciana”, mi sono convinto per l’ennesima volta che una “vera” amatriciana si può gustare solo ad Amatrice. Dall’ampia vetrata vediamo poco distante il campanile della Cattedrale di San Pelino, nella vicina Corfinio.
Anche “Corfinium” fu città Longobarda con il nome di Valva. In epoca antica fu abitata dai Peligni e, durante la “Guerra Sociale” contro Roma, divenne capitale della “lega Italica”. Una guerra combattuta (nel 91 - 88 a.c.) dai popoli Italici contro Roma per chiedere lo “ius Latii” cioè la piena cittadinanza romana riconosciuta ai Latini. La "Guerra Sociale" fu una delle prime guerre combattute per rivendicare diritti civili che terminò con la vittoria militare di Roma, ma con il raggiungimento degli obiettivi che si erano posti gli Italici: il diritto a pieno titolo di diventare cittadini romani, con tutti i vantaggi derivanti dalla cittadinanza.
I confederati Italici, per contrastare il monopolio della moneta romana e sancire la loro unità politica coniarono una moneta comune con la scritta “Italia” che rappresenta la prima testimonianza storica dell’uso del termine “ITALIA”. Una parola derivante da “Viteliù” di origine osca che con il tempo perdette la lettera “V”. Gli osci erano popoli stanziati nella Magna Grecia, nel sud della penisola, che ebbero contatti con le genti italiche del centro Italia.
A Corfinio ogni anno nel mese di agosto si rievoca la nascita della Lega Italica con un corteo in costume, mentre una lapide è affissa su un vecchio rudere all’ingresso della città con la scritta “In questi luoghi sorgeva l’antica Corfinium cuore della terra Peligna assunta a capitale dei confederati nella guerra sociale del I sec. a.c. e ribattezzata ITALIA sacro nome primieramente qui acclamato auspicio all’unione di tutte le genti della penisola nella Patria comune.” Dopo la distruzione ad opera dei Saraceni e Ungari, l’antica Corfinium fu ricostruita nel medioevo e assunse il nome di Pentima, ma nel 1928 riprese il nome originario in ricordo della gloriosa capitale italica.
Al termine del pranzo ripartiamo attraversando Corfinio e prendendo la direzione per Pratola Peligna, siamo vicini a Sulmona ma la nostra destinazione è Bagnaturo dove c’è la Badia Morronese o Abbazia di S. Spirito al Morrone. Un monumento che mi ha sempre incuriosito tutte le volte che sono transitato per Sulmona, ma che non ho mai avuto occasione di visitare. Era una delle mete obbligatorie che mi ero prefissato nell’organizzare il giro in bici. E’ chiamata anche Abbazia Celestiniana perché fondata da Pietro del Morrone, futuro papa Celestino V, il papa del “gran rifiuto”. Dante aveva i suoi buoni motivi per denigrare il monaco eremita, che a causa della sua abdicazione permise la nomina di Bonifacio VIII, di cui disapprovava le ingerenze in campo politico e che furono determinanti per causare l'esilio del poeta.
“Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto”
(Dante Alighieri – Divina Commedia – inf. III 58 - 60)
Si è discusso molto sulla rinuncia dal pontificato di Celestino V e sul ruolo avuto dal suo successore nel costringere Pietro Angelerio alle dimissioni, ma al contrario di Dante, Francesco Petrarca considera l’operato di papa Celestino come quello di uno “spirito altissimo e libero, che non conosceva imposizioni, di uno spirito veramente divino”. In epoca moderna anche Ignazio Silone ha raccontato la tragica vicenda di Celestino sottolineando la sua esperienza eremitica che dal Molise aveva deciso di viverla nei monti più sperduti e solitari della penisola. Le Voci critiche nei confronti di Pietro-Celestino come quella di Dante rimasero un'eccezione, l’abdicazione in generale non fu considerata né una viltà, né un atto di eroismo, fu il semplice compimento di un uomo semplice che si convince di aver assunto un ufficio sproporzionato alle proprie forze.
La rinuncia all’ufficio di romano pontefice è un istituto giuridico previsto dal codice canonico che regola le modalità di cessazione di un papa dal proprio ufficio per dimissioni volontarie. La formula utilizzata da Celestino è stata:
«Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della Plebe [di questa città], al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all'onere e all'onore che esso comporta, dando sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, di un pastore la Chiesa Universale.»
(Celestino V – Bolla pontificia, Napoli 13 dicembre 1294)
"Liberamente e spontaneamente" dice il vecchio monaco, ma sappiamo che Bonifacio VIII non fu tranquillo fino a quando non riuscì a "proteggerlo" nel suo castello di Fumone, per paura di uno scisma da parte dei seguaci di Celestino. Non molti sanno che nella storia della chiesa sono stati diversi i papi che hanno rinunciato al pontificato: Clemente I, Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI, Celestino V, Gregorio XII, e, per ultimo Josef Ratzinger papa Benedetto XVI, il 28 febbraio 2013.
L’Abbazia, che ancora oggi si presenta mastodontica (ha una superficie di 16.600 mq) ha avuto un ruolo importante nella storia, ma è stata anche oggetto di numerose spoliazioni. Pietro Angelerio si era ritirato in eremitaggio in una grotta sui fianchi del Monte Morrone dove poi sorgerà l’Eremo di Sant’Onofrio. Durante il suo ritiro solitario concepì l’idea di ampliare la chiesetta di Santa Maria ai piedi della montagna avviando poi la costruzione del Monastero. Legato alla regola di San Benedetto divenne sede dei Padri Celestini fino alla dominazione napoleonica durante la quale furono soppressi gli ordini religiosi e fu trasformato in Ospizio. Dopo l’unità d’Italia divenne carcere penale fino al 1993. Il complesso fu acquistato nel 1997 dalla Soprintendenza per i Beni Culturali dell’Abruzzo ed è attualmente adibito a museo e sede del Parco Nazionale della Maiella. Da alcuni anni è iniziata una profonda opera di restaurazione non ancora termianta.
All’interno del cortile principale è situata la chiesa la cui facciata è di stile borromiano, per intenderci sul tipo di San Carlo alle Quattro Fontane a Roma. La somiglianza delle due chiese è, però, limitata alla sola facciata. La chiesa è a navata unica con due altari dedicati a San Benedetto e San Pietro Celestino. Ciò che mi ha più impressionato è stato l’abside con il coro ligneo intagliato in noce con due ordini di stalli. Della sontuosità barocca c’è rimasto poco, nei lavori di restaurazione è prevalsa una tinteggiatura bianca che a me non dispiace, ma che certamente ha coperto numerose opere preesistenti inesorabilmente danneggiate da tutte le vicissitudini succedute nel tempo. Il Monastero è composto da numerosi edifici in gran parte spogli e disadorni i cui locali oggi vengono utilizzati principalmente per convegni, congressi, eventi espositivi e concerti. In seguito ai lavori di restauro, oltre al coro ligneo si possono ammirare in buono stato di conservazione: una tela seicentesca raffigurante "La discesa dello Spirito Santo", una cripta medievale, un refettorio decorato con pitture murali, una scala monumentale con due gradinate. Dei cinque cortili che dispone il complesso monumentale, per il Cortile dei Nobili è stato predisposto il bando per i lavori di ristrutturazione. Tra i lavori di rinnovamento portati a termine recentemente, nella sala del refettorio si possono ammirare le pitture murarie monocromatiche ad opera del frate Joseph Martinez (1719) che raffigurano l'Ultima Cena e le Nozze di Cana, che avevano subito notevoli deterioramenti. Sono previsti anche lavori di rinforzo alle mura di cinta e di recupero dell'ala che ospitava il vecchio carcere.
Sono tanti i titoli attribuiti agli edifici religiosi: Chiese, Pievi, Cattedrali, Monasteri, Abbazie, Conventi, Santuari, Eremi e, facilmente, si fa confusione tra loro a causa delle molte somiglianze. Occorrerebbe uno studio approfondito per districarsi tra i diversi termini, ma per prima cosa è importante distinguere gli ordini religiosi che vivono in comunità, dagli ordini secolari che vivono nel mondo. Fu San Benedetto da Norcia che nel VI secolo dette vita al monachesimo cristiano istituendo una regola molto rigida basata sul principio “ora et labora”. La clausura non consentiva ai monaci di lasciare il Monastero il cui significato deriva dal greco: “vivere da soli”. Il Monastero è fatto da una piccola comunità di monaci, mentre l’Abbazia è una comunità più grande (almeno 12 religiosi) ed è guidata da un Abate. L’Abbazia, normalmente isolata e protetta, non dipende dalla Diocesi (dal Vescovo) ma ha una organizzazione autonoma. L’Abbazia è un Monastero, ma non tutti i Monasteri sono Abbazie, cioè un Monastero è una versione prematura dell’Abbazia. Nel Convento, invece, vivono gli ordini mendicanti o conventuali, cioè che non fanno vita di clausura, i monaci sono chiamati Frati e Suore. Il termine “convento” deriva dal latino e significa “convocare o riunire” è, quindi, un temine più generico e si può riferire a qualsiasi comunità di religiosi. Con una certa approssimazione si può dire che l’Abbazia è il termine usato per descrivere la dimora del monaco secondo l’ordine benedettino, mentre il Convento si riferisce all’ordine francescano (ad esempio il Sacro Convento di Assisi). Dobbiamo, però, tener conto che nei secoli le “regole” di alcuni ordini hanno subito diverse evoluzioni. Gli ordini secolari che dipendono dalle Diocesi vengono organizzati secondo le disposizioni dei rispettivi Vescovi. Gli eremi (di cui l’Abruzzo ha una pluralità di esempi) non sono dei veri e propri edifici religiosi, ma molto spesso rappresentano i ruderi di luoghi dove alcuni monaci vivevano la loro vita solitaria su cui sono stati edificati nuovi edifici di culto. Gli eremi non sono sempre di facile accesso perché ubicati in zone isolate.
Dopo un’ampia ma rapida visita all'Abbazia, ripartiamo per percorrere gli ultimi quindici chilometri con il Morrone che ci accompagna sulla nostra sinistra, costeggiando la Scuola di Polizia Penitenziaria di Fonte d’Amore che confina con la Badia Morronese. Durante la seconda guerra mondiale accanto al vecchio carcere penale era stato istituito il campo di concentramento n. 78 dove erano internati i prigionieri di guerra. Nei campi di concentramento italiani le condizioni di vita erano dure, ma molto diverse dai lager nazisti. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 le porte erano state aperte ed era stata restituita a tremila detenuti un’inattesa libertà. Gli accordi stipulati prevedevano che i prigionieri fossero rimessi in libertà e che fossero anche tutelati dai tedeschi. Alcuni dei prigionieri seguirono le infauste raccomandazioni del comando britannico di non abbandonare i campi e attendere l’arrivo degli alleati. Solo quelli che uscirono subito si salvarono perché i tedeschi arrivarono presto. Con l’ignobile fuga il governo italiano, d’accordo con la corona, pensò solo a difendere sé stesso, lasciando allo sbando l’intera popolazione, compresi gli apparati militari e gli organi dello Stato, senza dare ordini e formulare piani precisi.
Mentre l'esercito vagava smarrito senza istruzioni il Re e la sua famiglia si metteva in salvo e, soprattutto, stava per lasciare nelle mani del nemico il più famoso prigioniero di stato, impartendo disposizioni ai custodi del Gran Sasso di non opporsi alla sua eventuale liberazione gettando, così, le basi della futura "guerra civile".
L'8 settembre 1943 prese tutti alla sprovvista, si creò una gran confusione e chi voleva fare qualcosa si trovò allo sbaraglio, senza punti di riferimento. Indossare la divisa o, peggio ancora, portare un'arma era pericoloso. I più volentersosi procedettero per tentativi, c'era tutto da inventare. Mancava un'organizzazione unitaria, mancavano i collegamenti, si parla di movimento partigiano, ma ogni gruppo era isolato.
Dal campo 78 di “Fonte dell’Amore” fuggirono in molti che trovarono rifugio sui monti del Morrone, ma soprattutto trovarono ospitalità nelle famiglie abruzzesi che non esitarono a mettere in pericolo la loro vita per aiutare i profughi. Molti prigionieri alleati si unirono ai soldati italiani erranti andando a costituire spontaneaamente i primi nuclei partigiani. Tra coloro che trovarono assistenza tra queste montagne ci fu anche il sottotenente Carlo Azeglio Ciampi che, quando diventò Presidente della Repubblica fece visita a queste terre e ringraziò la generosità degli abruzzesi.
Proprio su queste montagne si ebbe uno degli esempi più fulgidi di tutta la lotta partigiana. Ettore Troilo che faceva parte del Partito d’Azione clandestino, dopo aver partecipato alla infruttuosa difesa di Roma, si rifugiò nella sua città natale, Torricella Peligna, iniziando a organizzare un gruppo di sbandati e mettendosi a disposizione del comando inglese di stanza a Casoli, che stava risalendola penisola lungo il versante adriatico. C’era da ripristinare la strada che da Casoli porta a Torricella Peligna che i tedeschi avevano interrotto e minato. Terminati i lavori Troilo tornò al Comando militare inglese per proporre di organizzare i volontari con lo scopo di mettere in atto azioni militari e promuovere la liberazione delle Valli dell’Aventino e del Sangro, ma non trovò una favorevole accoglienza. La diffidenza del comando alleato verso gli italiani era forte, ma non conoscevano la tenacia di quel gruppo di persone che, partecipando ad un’azione contro un plotone tedesco, si impadronirono delle loro armi suscitando l’ammirazione dei comandanti inglesi. Quel manipolo di uomini era determinato e si ritrovarono tutti concordi in un giuramento d’onore:
“I sottoscritti volontari italiani dichiarano di essere disposti a partecipare alle azioni ed operazioni militari per la liberazione dei paesi della Majella, obbligandosi a sottostare a tutte le leggi del Supremo Comando Alleato”. (da “I Banditi della Libertà” M.Patricelli – ed. Utet 2005)
“Un istinto individuale, non una coscienza collettiva, una tutela economica e della dignità personale, non un ideale, un gesto estemporaneo, non un’organizzazione con precise finalità” scrive Marco Patricelli. Insomma la loro determinazione era legata alla difesa del territorio, dei loro beni e a protezione della gente lasciata alla mercé dell'invasore.
Il 28 febbraio 1944 la “Brigata Maiella” fu riconosciuta dal Comando alleato e inquadrato ufficialmente nel V Corpo d’Armata britannico, unico caso tra tutti i gruppi partigiani italiani. Il comandante Ettore Troilo ci tenne, però, a precisare agli inglesi che non avrebbe mai accettato le stellette sul bavero della divisa, in aperta contestazione con il comportamento del governo e della monarchia. Come mostrina ai patrioti fu applicato un nastrino tricolore. Il riconoscimento avvenne con la denominazione di “Banda Patrioti della Maiella”. Con l’inquadramento all’interno delle forze alleate i combattenti della Maiella vengono a trovarsi in situazione nettamente differente dalle altre formazioni partigiane. Innanzi tutto hanno lo stesso trattamento, o quasi, delle truppe regolari, sia in termini di rifornimenti che per il trattamento economico. Non sono costretti a nascondersi e spostarsi continuamente in territori impervi come tutti i reparti irregolari (che trovano il terreno favorevole in montagna e nelle vallate) ma seguono l’andamento della guerra coordinando le loro strategie con le forze alleate. Svolgono le operazioni belliche al fronte, non nelle retrovie circondati dalle forze nemiche e non coinvolge quasi mai la popolazione. Le azioni dei Banditi della Maiella non provocano rappresaglie da parte dei nazifascisti. Rappresaglie che di solito sono la risposta ai sabotaggi o alle imboscate (tipiche dei partigiani) suscitando paure e diffidenze con reazioni di disapprovazione che possono alienare le simpatie della gente. Se fanno prigionieri i “maiellini” non debbono occuparsi della loro custodia perché a ciò sono preposti appositi reparti di retroguardia. Per i partigiani, invece un prigioniero diventa un intralciato insostenibile, costretti a prendere decisioni drastiche, a volte sciagurate assumendone le responsabilità. Il ruolo delle formazioni irregolari, nella loro “guerra asimmetrica” è senz’altro più scomodo e complicato. La Resistenza è un fenomeno in cui la maggioranza della popolazione non prende parte direttamente, ma senza l’appoggio della popolazione i partigiani non possono sopravvivere.
Non è stato facile per l’avvocato Troilo ottenere la fiducia del comando alleato e accettare le sue proposte di collaborazione, ma per la perfetta organizzazione di stampo militare e la disciplina dimostrata furono accolti nei loro ranchi. Gli angloamericani si servivano delle formazioni partigiane, ma nutrivano un certo scetticismo nei loro confronti. Alle bande dei volontari imputavano una certa superficialità e la mancanza di organizzazione, ma soprattutto le gerarchie militari alleate non gradivano l'attivismo politico all'interno di quelle formazioni. Accettavano l'azione di disturbo verso le linee tedesche, ma perlopiù veniva loro richiesta un’attività di retrovia, di sabotaggio e di guerriglia e quando ritenevano necessario arrivavano anche a chiedere il disarmo di alcune di quelle formazioni più …esuberanti. La diffidenza, che peraltro era reciproca, derivava soprattutto dal fatto che gli obiettivi della Resistenza italiana e quelli degli eserciti alleati non sempre coincidevano. Il movimento partigiano, almeno inizialmente, non si è dimostrato unito ma ogni gruppo di lotta aveva diverse motivazioni e diversi progetti per il futuro dell’Italia. La rivalità tra le varie fazioni e le loro divergenze politiche porta alla “concordia discorde” almeno fino al marzo 1944 quando, con il ritorno di Togliatti, i militanti comunisti ricevettero disposizioni di operare in accordo con le altre forze antifasciste. Un atteggiamento proficuo che favorì anche la formazione di un governo di coalizione.
Era così alta la stima guadagnata che la Brigata maiella più volte ebbero l’ordine di coordinare l’azione di altri gruppi partigiani, ma dopo il verificarsi di alcuni disguidi Domenico Troilo non volle più fare pattuglie miste con bande locali che furono accettate solo con la funzione di guide, utilizzate per la conoscenza del territorio.
Per sei mesi i volontari del comandante Troilo affiancarono in numerose azioni di guerra l’esercito inglese, attestato lungo il versante adriatico, mentre la 5° Armata americana trovava difficoltà nell'avanzare sul Tirreno in direzione di Roma. Parteciparono alla liberazione di diverse città abruzzesi: Roccacaramanico, Caramanico, Sant’Eufemia, Popoli, Bussi, Pacentro, Pratola Peligna, e infine Sulmona. Con la liberazione dell'intera regione sarebbe terminata la missione dei patriotti abruzzesi che, però, ritennero opportuno proseguire l’esperienza fatta chidsendo di prolungare il loro impegno a fianco degli alleati che furono ben contenti di accettare la proposta di Troilo e dei suoi uomini ma, per il proseguimento delle operazioni belliche, passarono dalle dipendenze degli inglesi a quelle del II Corpo d’Armata polacco. Il loro obiettivo che in un primo tempo puntava alla liberazione del proprio territorio, si trasformò in qualcosa di più nobile, proseguendo la loro azione per quattordici lunghi mesi di fianco all'8° Armata con serietà e professionalità come un esercito regolare, conquistandosi la stima degli alleati. I Brigati della Maiella proseguirono la loro azione al fianco dell'Armata Polacca entrando nel territorio marchigiano, fino alle porte di Cingoli.
A quel tempo avevo pochi mesi di vita e non posso certo testimoniare per averlo constatato di persona, ma mi è stato raccontato e mi sono successivamente documentato che il 12 luglio 1944 i tedeschi, pressati dai partigiani abruzzesi, sono stati costretti a lasciare Cingoli che avevano occupato nei primi giorni di novembre, poco prima della mia nascita. Il mio contatto con la terra d’Abruzzo è cominciato già dai primi giorni di vita e posso vantare con orgoglio di essere stato “liberato” dai banditi della Maiella, dopo otto mesi di invasione straniera.
In terra marchigiana, nell'alto maceratese, gli abruzzesi svolgono su ordine del comando alleato un'azione del tutto particolare: disarmare una formazione costituita da sfollati di varia provenienza, partigiani italiani, ex prigionieri alleati, jugoslavi, sovietici, ebrei e da un gruppo di somali ed etiopici: un esempio di formazione partigiana internazionale. Era il "Battaglione Mario", guidato dal comandante Mario Depangher, che fu radunato in una chiesa e dopo un pacato discorso da parte di Troilo, ma con i mitra ben puntati, si videro privati delle loro armi senza colpo ferire.
La Brigata Maiella terminò il proprio compito nel maggio 1945 ad Asiago, contribuendo alla liberazione delle Marche, della Romagna, dell’Emilia e del Veneto, con un piccolo diversivo a Laterina in provincia di Arezzo. La loro attività fu talmente apprezzata che ebbero il riconoscimento di entrare per primi nella Bologna liberata, insieme ai fratelli d'arme polacchi. Dopo Bologna i patrioti abruzzesi, lasciata l'8° Armata britannica e gli amici polacchi, proseguono l’avanzata di fianco alla 5° Armata americana. In mancanza di adeguate dotazioni, con alcuni automezzi rimediati lungo il percorso, superati di slancio gli alleati, il 1° maggio entrano ad Asiago con lo stupore della popolazione che si vedono liberati da italiani provenienti dal lontano Abruzzo. La Brigata verrà sciolta il 15 luglio 1945 a Brisighella. Circa 20 anni dopo, il 14 novembre 1963 il governo della Repubblica Italiana conferisce alla "Banda Patrioti della Maiella" quella Medaglia d’Oro al Valor Militare che il 10 marzo 1945 era stata “promessa” dal principe Umberto di Savoia, ma di cui in molti si erano dimenticati. La Brigata Maiella è l'unica formazione partigiana a cui è stata riconosciuta la Medaglia d'oro al valor militare.
Terminata la visita al monastero riprendiamo a pedalare verso la nostra destinazione, ma non si può lasciare questo posto senza citare gli scavi archeologici realizzati tra l'Abbazia e l'Eremo di Sant'Onofrio, portati a termine nel 1957 con il ritrovamento di un santuario italico dedicato a Ercole, i cui resti, fino ad allora, furono erronamente considerati appartenenti alla "Villa di Ovidio". Equivoco sorto in seguito al ritrovamento della scritta "Nasonis" che era il cognome del poeta latino nato a Sulmona. In epoca romana, al termine della "guerra sociale" tra Romani e Italici, il santuario prese il nome di "Ercole Curino" con l'aggiunta di "Curinus" o "Quirinus" legato a Romolo divinizzato. Si viene così a suggellare l'unione e la completa integrazione nella Res Publica dei Peligni. In seguito agli scavi furono recuperate due piccole statue di culto di Ercole, oggi esposte al Museo archeologico di Chieti. Il santuario pagano fu costruito su terrazzamenti artificiali su più livelli.
Una frana nella metà del II secolo d.c. seppellì il tempio, ma il diffondersi del cristianesimo conservò la sacraità del luogo con la costruzione di una piccola chiesa ampliata successivamente per volere di Pietro Celestino. La fama del dio Ercole nel mondo antico, per le sue caratteristiche di forza e tenacia furono trasferite in ambito cristiano nella figura di San Michele Arcangelo, particolarmente venerato nel centro-sud lungo le vie della transumanza.
Per arrivare a Pacentro c’è una salita di dieci chilometri che affrontiamo con molta calma. Già dalle prime costruzioni notiamo che il borgo si presenta interessante, ben tenuto e molto vivace. Ben diverso dalle località incontrate nella mattinata. Entriamo nel centro storico e vediamo da lontano la sagoma bianca della Meriva con Gilda che era arrivata da poco. A Pacentro abbiamo pernottato presso il "b&b ""In Centro a Pacentro" gestito da Alberto figlio della nostra amica Fiorita. Alberto appartiene a quella schiera di giovani, in continuo aumento, che accantonando la laurea brillantemente conseguita, hanno deciso di preferire un’attività lavorativa che non corrisponde agli studi effettuati. Infatti nonostante i dissensi dei suoi genitori, Alberto è voluto tornare nella casa di origine della famiglia, alle pendici del Monte Morrone, per aprire il bed and breakfast che sta curando con molto impegno e professionalità raggiungendo lusinghieri risultati. Nei miei percorsi in bici ho avuto l’occasione di conoscere altri giovani che hanno preso una simile decisione. Mi viene in mente Mirella la locandiera di S. Stefano di Sessanio; Thomas e Marco che fanno lo stesso mestiere a Farindola. Mi ricordo l’incontro fatto a Mascioni con Francesca alla guida di un gregge di Caprette, oltre ad Assunta e Valeria le tessitrici di Campotosto e di Castel del Monte. Tutti giovani che usciti dalle aule universitarie hanno scelto un’attività completamente alternativa ai loro studi.
Abbiamo preso possesso delle camere del b&b che Alberto ha ricavato nella vecchia abitazione dei nonni, sistemandola con molto buon gusto, prelevando tra l’altro suppellettili e utensili abbandonati in soffitta e messi in buona mostra dopo averli restaurati. Un piccolo museo casalingo nella sala delle colazioni. Sistemati i bagagli e fatta una doccia, ci avviamo per una passeggiata per i vicoli del paese. La camminata fatta ci conferma la prima impressione, Pacentro è un borgo ben conservato e senza opere posticce, dove vengono messo in risalto le antiche memorie. Abbiamo visitato la Casa di Marlurita - dove e come si viveva una volta. E' stato deciso di mantenere allo stato originale l'abitazione di Maria Loreta Pacella composta da due locali. L'ingresso fungeva da soggiorno, cucina e sala da pranzo ed ai ganci delle pareti sono appesi gli attrezzi agricoli, il vasellame ed i coperchi per le faccende domestiche. L’unico rimedio contro gli inverni rigidi era un caminetto, una lampada ad olio illuminava la casa e non c'erano servizi igienici. Nella camera da letto c'è un angolo per l'asino che costituiva la risorsa più importante per la famiglia. Appese alla parete ci sono le immancabili immagini sacre, un arredamento scarno con un letto di pagliericcio, il "prete" con lo scaldino, una cassapanca con una valigia di cartone. Il pavimento era fatto in terra battuta con qualche acciottolato, mattonelle e piastrelle cosavano troppo per gli scarsi mezzi a disposizione. La cosa più sorprendente è la bara sistemata sotto il letto che Maria Loreta aveva comperato per il suo funerale (come era in uso nei tempi andati) che non fu utilizzata perche i paesani gli fecere una nuova cassa con borchie di ottone dorato.
Anche a Pacentro vediamo molti turisti e da quanto ci viene raccontato non ci sorprende l'interesse per questo piccolo paese aggrappato alla montagna. Numerose sono le iniziative e gli eventi che durante l'anno i "pacentrani" organizzano per animare la vita del borgo, nonostante che anche Pacentro ha visto nel corso degli anni un leggero, ma continuo spopolamento. Dal presepe vivente nelle feste natalizie, alla corsa degli zingari a piedi nudi per le ripide discese del paese, il tutto contornato da diversi percorsi culturali e folkloristici delle tradizioni popolari medievali. I vicoli, gli archi, i palazzi, gli edifici religiosi, tutto sembra incastrato con armonia e sono vigilati dall'alto dalle torri del Castello Caldora. Debbo confessare che mi ha favorevolmente sorpreso la mancanza di ogni riferimento ad uno dei suoi famosi concittadini: la cantante italo-americana Madonna.
Molti sono stati gli emigranti che hanno preso latitudini diverse: dall'America del Nord all'Argentina, fino all'Australia. Oggi i pacentrini assistono al ritorno di molti di essi con il desiderio di rivedere il paese di origine. Mi dice Andrea che rappresentano una importante quota di tutti i turisti che arrivano a fare le vacanze in questo angolo di Abruzzo.
Per la cena ci suggeriscono di mangiare alla "Taverna dei Caldora" che si trova in un antico palazzo nobiliare del cinquecento nel centro storico di Pacentro. Abbiamo mangiato abbastanza bene, come avevamo mangiato alla Tavola Calda di Raiano, ma io non sono un buongustaio e non posso dare giudizi culinari. Credo, però, di essere stato condizionato da una foto appesa all'ingresso che ricordava un evento del "ventennio". La serata a Pacentro è stata molto stimolante e beneaugurante per la tappa di domani che si presenta molto impegnativa e avvincente.
4° Tappa – Pacentro - Manoppello - km. 67
Passo S. Leonardo km. 14,00 (1.282 m.)
Roccacaramanico km. 2,50 (878 m.)
Valle Giumentina - Roccamorice km. 18,50 (520 m.)
La mattina della domenica ripartiamo, salutando Fiorita e Andrea per la squisita accoglienza. Ci allontaniamo da Pacentro con una buona sensazione, abbiamo scoperto un'altro dei borghi più belli dell'Abruzzo montano. Ci avviamo in attesa che arrivi Marco con la sua autovettura. Superati gli ultimi edifici inizia la lunga salita verso Passo S. Leonardo, appena fatte le prime curve vediamo la panda rossa fiammante che ci oltrepassa e parcheggia poco più avanti. Noi approfittiamo per scattare le ultime foto del vecchio borgo, non possiamo sottrarci di fare una panoramica con le torri del Castello Caldora che rappresenta lo skylin di Pacentro.
Salito in sella alla sua "Gravel", Marco ci raggiunge in un attimo. Fin dai primi tornanti affrontiamo la salita con molta calma, arriviamo a Passo S. Leonardo dopo 14 km. con un'ascesa che non supera il 10% di pendenza massima. Lungo la salita di S. Leonardo, ai nostri fianchi, si snoda il Sentiero Italia del CAI che scende a Pacentro per proseguire verso Campo di Giove. Stiamo entrando verso l'interno del massiccio della Maiella, la mantagna "madre" degli abruzzesi. E' inutile dire che il paesaggio è stupendo, di un verde intenso e impenetrabile . Dopo 12 km raggiungiamo il bivio con Campo di Giove, la presenza di una tipica fonte di montagna ci invita a una bevuta ristoratrice e dopo altri 2 km arriviamo al valico di S. Leonardo. Purtroppo dobbiamo subire una cocente delusione simile a quella di altre località dell'Appennino che, senza un'adeguata promozione, soffrono della crisi del turismo. L'albergo pur presentandosi ancora in buono stato è inesorabilmente chiuso. Dopo la morte del suo titolare nessuno ha più riaperto l'attività. Anche qui la scarsità della neve ha lasciato solo i ruderi di un vecchio impianto di rialita. Nonostante le difficoltà dovute alla pandemia e alle vicende della guerra, un posto incantevole come questo dovrebbe pur sempre attirare molte persone. Infatti oltre a noi troviamo altri viaggiatori sorpresi dello stato di abbandono della zona. Troppo spesso il turista italiano preferisce località straniere alle bellezze nostrane e troppo spesso i luoghi di villeggiatura italiani non vengono fatti conoscere ai turisti stranieri che, quando li scoprono, dimostrano di apprezzarli meglio di noi.
Lasciamo il piazzale di fronte all'albergo e ci tuffiamo nella lunga discesa che porta a Caramanico Terme. Dopo circa 6 km arriviamo al bivio per Roccacamanico il paese fantasma, era una di quelle località che durante la scelta del percorso mi ero prefissato di visitare. Finché è stata viva quell'economia basata sulla pastorizia e sull'agricoltura montana i paesi interni dell'Abruzzo sono sopravvissuti, ma con la distruzione delle riserve boschive, dovuta ad una maggiore estensione dei pascoli e, successivamente, dei mutamenti politici e sociali, non utimo il fenomeno del brigantaggio, questi territori hanno subìto una grave crisi. La storia di questo borgo si intreccia con quella di Caramanico. Nel 1806, abolita la feudalità, Caramanico e il Castello della Rocchetta furono dichiarati comuni liberi, con amministrazioni indipendenti. Quindi dal 1806, anno in cui diventò comune con una propria amministrazione diventò ufficiale il nome di Roccaramanico, ma uccessivamente con l'abolizione dei piccoli comuni, stabilito da una legge del 1929, fu declassato e accorpato al comune di S. Eufemia a Maiella. Con l'avvento della società industriale è iniziato un graduale ma inesorabile spopolamento, con una forte emigrazione verso l'estero. Si racconta che alla fine degli anni '80 del secolo scorso era rimasta a vivere a Roccacaramanico solo Angiolina. Un fatto che attirò l'attenzione dell'opinione pubblica che venne ampliato da un servizio televisivo di Raffaella Carrà che intervistò l'anziane signora rimasta sola che dichiarò di "non voler abbandonare, per nulla al mondo, questi posti". L'eco avuto dalla trasmissione della Raffaella nazionale, mettendo in risalto la bellezza dei luoghi, ha favorito l'interessamento di alcuni vacanzieri che hanno cominciato a frequentare il borgo con piccoli affitti stagionali. Ora il "paese fantasma" anche se lentamente è tornato a vivere. Negli ultimi anni del secolo si è innescato un fenomeno di turismo episodico di "gente amante di questo angolo incontaminato, in cui si torna ad essere realisti, ad osservare con il giusto distacco tutto ciò che a valle appare arrogante, vitale ed essenziale, a riconquistare antiche saggezze, a respirare l’equilibrio fra uomo e natura, tra passato e presente." (dal blog del Comune di S. Eufemia a Maiella) L'apertura di un ristoro nella piazzetta centrale del paese, proprio di fronte all'imponenza del Monte Amaro, favorisce l'afflusso di gitanti alla ricerca della buona cucina abruzzese.
Roccacaramanico è stata sempre una delle località più nevose dell'Appennino. L'ubicazione del paese, nel versante orientale del Monte Morrone e prospicente al massiccio della Maiella, lo espone alle correnti fredde generando il fenomeno chiamato "stau". L'aria proveniente dai balcani risalendo la parete del Morrone si raffredda e si condenza, dando origine a formazioni di nubi molto spesso nevose.
La sosta nell'ex paese fantasma, anche se breve, è stata molto interessante. Si gode un panorama che spazia dalla catena del Gran Sasso a quello della Maiella, una visuale che sintetizza un pò tutto l'Abruzzo. A questo punto è doveroso un riferimento mitologico che avvicina Maja, la più bella delle pleiadi, e suo figlio Ermes alle due montagne simbolo di queste terre. Il dio Ermes nacque dall’unione della dea con Zeus. Maja per salvare il figlio colpito mortalmente in battaglia giunge sul Gran Sasso, custode di erbe miracolose, ma essendo inverno quindi ricoperto di neve, non riuscì a trovare le erbe e a salvare la vita del figlio. Così, Maja lo seppellì su quella montagna che, da allora, assunse l’aspetto di un viso dormiente; poi, distrutta dal dolore, errò per le montagne, fino a che, straziata, giacque sul Monte Amaro, che da allora prese le sembianze di una donna riversa su se stessa, che guarda verso il mare, ossia da dove giunse partendo dall'Olimpo. E' una vecchia e fantasiosa leggenda che, però, resta nell'immaginario di tutti gli abruzzesi. Si raccontano, però, altre leggende che riguardano Maja ed Ermes, ognuno può credere a quella che preferisce, ma è indubbio che la Maiella (o Majella) è la Madre e il Gran Sasso, il Figlio. A proposito della sua toponomastica, proprio in funzione della leggenda della dea Maja era entrato in uso la denominazione di Majella, ma alcuni studiosi hanno contestato l'origine del nome che, invece, dovrebbe derivare da "Magella". Infatti nel "Chronicon Casauriense" (Cronaca dell'abbazia di San Clemente a Casauria) è riportato un docuento dell'anno 874 in cui si legge "de pedemontis Magelle" che nello stesso Chronicon viene rietuto più volte. Si ipotizza che "nelle carte de’ mezzi tempi trovasi Magella, ed essendo così, per iscambiamento della lettera "g"in "i" fatta dagli amanuensi, detta si fosse dipoi Maiella; e non credo affatto che per altra cagione avesse potuto ciò avvenire" (Lorenzo Giustiniani 1816). Secondo un altro studioso, Lucio Taraborelli, non è vero che la Maiella derivi dal nome della dea Maja.
"Quella della dea Maja e del figlio morente arrivati in Abruzzo non è una leggenda: è una favoletta iniziata a circolare alla fine dell'Ottocento a beneficio degli spiriti romantici. La Maja della mitologia greco/romana era una dea (immortale), madre di un dio (Hermes/Mercurio), anch’egli immortale, che avevano altro da fare che venire a morire sui monti d'Abruzzo". Questo equivoco dimostra che le cosiddette "Fake news" sono fenomeni che originano ben prima dell'avvento dei social.
Dopo la deviazione per il paese fantasma riprendiamo la discesa verso Caramanico, passando prima per S. Eufemia a Maiella. Scendiamo lungo la valle del fiume Orta che nasce dal Monte Amaro e dopo diversi tornanti arriviamo all'ingresso del paese dove è stata costruita una nuova galleria che facilita la viabilità, ma l'impatto dell'intervento umano modifica la suggestione di questi luoghi. Con le nostre bici ci indirizziamo verso il centro di Caramanico Terme. La denominazione ha una duplice derivazione: "cara" è un termine di origine longobarda che significa "roccia" e, dopo l'apertura di uno stabilimento termale nella metà del XX secolo, che ha sfruttato la presenza delle acque solfuree, è stata aggiunta la denominazione Terme. L'apertura delle terme ha avviato un flusso turistico impensabile che ha favorito la conoscenza dell'intero comprensorio della Maiella. Nonostante l'importanza socio-economica delle terme, negli ultimi tempi si sono registrati momenti di crisi che hanno portato a chiusure temporanee e non si conosce ancora se l'attività riesca a proseguire o si arrivi a una chiusura definitiva, con un grave danno per tutto il territorio. Gilda, che ci ha sorpassato nella discesa di San Leonardo, dovrebbe essere in attesa a Caramanico. Ci sono venuto una sola volta tanto tempo fa e non ricordo bene la conformazione del paese, ma all'inizio di un viale alberato vediamo la Meriva bianca parcheggiata con Gilda che ci aspetta e che ci avverte subito che sulla salita di San Leonardo ha subìto, come al solito, una forte crisi a causa delle sue vertigini e che non avrebbe potuto guidare su altre salite dove ci sono precipizi. Marco che si è aggregato a noi per raggiungere i suoi amici di Decontra fa una telefonata per comunicare che non sarebbe stato possibile andare a mangiare presso il loro agriturismo. Dall'altra parte del telefono c'è Marisa che non ne vuol sapere, ha tanto insistito che avrebbe mandato il marito Camillo a prendere Gilda e chiede quante persone siamo, lei avrebbe preparato il pranzo per tutti. Da questo episodio abbiamo cominciato a conoscere il carattere deciso di Marisa.
Prendendo la direzione per Decontra, poco più a valle di Caramanico attraversiamo il ponte sull'Orfento dove c'è la confluienza con il fiume Orta, proprio in questo punto parte una strada secondaria che risale la riserva della Valle dell'Orfento. Dopo aver pedalato tutta la mattinata all'interno del Parco Nazionale della Maiella ci addentriamo, forse, nel suo angolo più suggestivo. Lo scenario davanti ai nostri occhi è fantastico, possiamo ammirare il Morrone da una parte e dall'altra vediamo l'intero versante occidentale della Maiella: dal Passo S. Leonardo lungo tutta la Valle dell'Orta, fin giù all'abitato di Caramanico. Percorriamo un tratto di strada tra l'azzurro del cielo e il verde dei boschi, intervallati con avvallamenti di un verde più chiaro dove ancora oggi continuano a pascolare rari greggi alpestri. La vista è talmente allettante che non sentiamo l'impegno della salita, più avanziamo e più ci aviciniamo verso la gola dell'Orfento, un vero e proprio canyon, che circa quarant'anni fa abbiamo affrontato con l'amico Marco, scortati dalle guardie forestali perché la valle era una riserva "integrale" con accesso limitato e controllato. Abbiamo percorso l'intera valle scavata dalle acque dell'Orfento in discesa, dai 2100 metri del Blockhaus fino ai 450 metri del ponte di Caramanico. Il sentiero è talmente impervio che pur avendolo percorso in discesa è risultato molto faticoso. Sembra una foresta vergine con una vegetazione molto diversificata e la presenza di una numerosa fauna. Ho avuto l'opportunità di avvistare una salamandra "giglioli" con le sue pezzature nere e gialle che si riscaldava ai raggi del sole, mimetizzata tra la vegetazione. Ci siamo guardati per alcuni secondi, ma poi ho proseguito nel mio cammino lasciandola al suo riposo.
Nella Valle dell'Orfento sono situati la maggior parte degli eremi celestiniani: S. Bartolomeo in Legio, S.Spirito a Maiella, S. Giovanni, S. Onofrio, S. Benedetto, Santa Maria e S. Antonio. Per la visita alla Valle dell'Orfento, oggi, è obbligatoria la registrazione gratuita presso il centro visite "Paolo Barrasso". Nel comprensorio della Maiella e del Morrone, tra eremi e monasteri benedettini, vi è la maggiore concentrazione di luoghi dello spirito a livello nazionale. Gli eremi situati nella Riserva sono tutti visitabili liberamente, anche se per raggiungerne alcuni si rende necessaria una buona preparazione fisica oltre ad informarsi sullo stato dei sentieri, non sempre agevoli.
Decontra è una piccola gemma incastonata nella Valle Giumentina, tra l'Orfento e il Vallone di S. Spirito. Anche questo è un luogo preservato dalla modernità, ma non per questo si può considerare sottosviluppato e tanto meno anacronistico. Per i suoi pochi abitanti rappresenta un modo diverso di concepire la vita. Se si volesse avere informazioni di Decontra con una ricerca su internet si potrebbe sapere che in questa frazione di Caramanico vi risiedono settanta abitanti: trentasette maschi e trentatrè femmine. Questo di per sé da già un'idea su che tipo di paese sia Decontra. Ha vissuto per secoli di un'economia autoctona, nei mesi invernali sopportava lunghi periodi di isolamento a causa delle forti nevicate. Fino a qualche tempo fa era una zona inaccessibile, è stato il turismo che ha consentito di risollevarsi dalle conseguenze della crisi della pastorizia e dell'agricoltura, attività che comunque resistono con modalità più sostenibili, nella ricerca di un'integrazione tra la tradizione e le necessità di una vita dignitosa per chi ha deciso di vivere ancora in queste zone impervie.
Un esempio concreto ci è dato dalla famiglia di Marisa che gestisce l'agriturismo "Pietrantica", il cui nome è uno dei più appropriati in questi paesi dove la pietra è prevalente e ricorda l'asprezza della natura e il duro lavoro dell'uomo. L'attaccamento alle tradizioni mantiene ancora legati a questi luoghi il nucleo familiare che, nella stagione invernale, si trasferisce a Roccaraso dove il marito Camillo fa il maestro di sci mentre lei si dedica a insegnare lo sci di fondo ai bambini e alle donne .....di una certa età (come lei ci tiene a precisare). Marisa, di spirito giovanile, è molto ironica con se stessa sottolineando la sua conformazione fisica non più atletica. Ma il suo senso materno credo che sia senz'altro utile per fare lezione ai bambini e alle donne meno dotate. Il figlio Paolino, che porta orgogliosamente il nome di suo nonno, calca già le loro orme all'interno del gruppo giovanile di Roccaraso. Abbiamo potuto apprezzare l'arte culinaria di Marisa che è riuscita ad improvvisare un lauto pranzo per nove persone, tutto con ingredienti in gan parte di produzione locale.
Marco Manilla che, facendo il consulente agricolo è per lavoro a stretto contatto con molti coltivatori, conosce e apprezza l'ambiente rurale abruzzese. Più che consulente è un amico dei suoi agricoltori tra cui ha raccolto qualche tempo fa le memorie di nonno Paolino in un volume "Paolo Sanelli - I miei sogni sono tutti sulla Maiella".(ed. Menabò, 2001) Invito alla lettura di queste memorie per meglio comprendere la civiltà dei campi e quella di queste montagne, oltre a quanta poesia ci sia nella vita di un contadino.
La Valle Giumentina è un fertile altopiano dove alcuni agricoltori, grazie alla terra e a un clima favorevole sono tornati a produrre cereali antichissimi, capostipiti dei moderni grani. Vecchi ecotipi locali di grani teneri come: solina, frasinese, casorella, gentilrosso e poi farro, miglio, orzo, saragolla. Coltivazioni biologiche, rinate grazie ad agricoltori come Paolino, e i suoi familiari, che hanno voluto proseguire le tradizioni tipiche della zona.
La prima parte della giornata è stata particolarmente avvincente, ma ci aspetta una seconda parte che non ci deluderà. Ho scoperto la Valle Giumentina solo recentemente, quando sono venuto a perlustrare la zona con Gianni Alcini e provare le sue bici. Ripartiamo da Pietrantica salutando gli amici anche se sarebbe stato interessante rimanere a soggiornare a Decontra, ma mio nipote Marco domani deve ritornare a casa perché termina il suo permesso dal lavoro. Usciti dal paese prendiamo la strada sterrata dove inizia l'Anello della Valle Giumentina fino ad un bivio dove riconosco il percorso fatto poche settimane prima. Da qui si domina il versante nord-ovest della Maiella, si vedono molto bene la Maielletta, il Blockhous e il Monte Amaro. Voltando lo sguardo ad occidente ammiriamo il massiccio del Morrone e in lontananza si avvista il Monte Sirente.
Le considero le "mie montagne". Pur non essendo abruzzese ho frequenta in lungo e largo l'Abruzzo fin dagli anni giovanili. Ho vissuto tutta la mia vita in grandi e piccole città, ma mi trovo sempre a mio agio tra le rocce e i boschi di questi monti. La Valle Giumentina è un sentiero facile e quasi tutto pianeggiante, lungo circa 6 chilometri e molto ben segnalato. Seguendo i cartelli si arriva senza difficoltà all' "Ecomuseo del Paleolitico" recentemente realizzato a cura del Comune di Abbateggio. Si è voluto ricreare a beneficio dei turisti un villaggio formato di sei capanne a Tholos (in greco: cupole). I Tholos sono la testimonianza dello stile di vita dei contadini abruzzesi che li utilizzavano per la custodia degli attrezzi, ma anche quale abitazione estiva. Abbandonati dai contadini sono diventati rifugi di pastori e dei loro animali fino a tempi relativamente recenti. Esistono ancora diverse costruzioni originali che dopo l’abbandono si sono molto deteriorate e soprattutto sono difficili da rintracciare perché sopraffatte dalla vegetazione. A gestire l’ecomuseo, di proprietà del Comune, è la Cooperativa Maggiociondolo. Adamo con la collaborazione di altri soci cura magnificamente il villaggio e gestisce anche il chiosco, dove racconta tantissime curiosità. Fatevi raccontare le mille e più storie di quei posti, non servirà molto a convincerlo. Sarete incantati dalla sua passione.
Dalla parte di Roccamorice è molto facile arrivare in auto alla Valle Giumentina e all'ecomuseo, mentre è quasi impraticabile utilizzare l'auto dalla parte di Caramanico e Decontra. Suggerirei una passeggiata in bici (possibilmente in mountain bike) parcheggiando l'auto sulla strada Abbateggio-Roccamorice in prossimità del cartello con l'indicazione dell’Ecomuseo. Si percorre una comoda strada sterrata fino ad una edicola con un'immagine mariana (n.b.: dietro l'edicola si possono ammirare due vecchi Tholos, originali, parzialmente nascosti dalla vegetazione) dopo una breve discesa si può scorgere il Villaggio ricostruito con le capanne di pietra. La tecnica utilizzata è quella di realizzare un giro di pietre, ogni giro viene appoggiato su quello inferiore, spostato leggermente verso l’interno di qualche centimetro, in modo che alla fine si crea una struttura a cono. Si formano cerchi concentrici sovrapposti con diametro lievemente decrescente. Non viene utilizzato nessun tipo di malta, il collante viene dalla spinta che ogni pietra esercita sull’altra.
Viene spontaneo accostare i Tholos ad altre costruzioni come i Nuraghi, i Trulli e alle Caciare del Gran Sasso, tutti realizzati con pietre a secco. La similitudine con i trulli pugliesi è senz’altro legata alla transumanza che ha creato nei secoli una stretta relazione tra i pastori dell’Appennino centrale e il Tavoliere delle Puglie.
Noi attraversiamo la Valle Giumentina dalla parte opposta, verso Abbateggio e Roccamorice. Visitato il villaggio delle pietre a secco sarebbe opportuna una visita ai due eremi celestiniani, facilmente raggiungibili: Santo Spirito a Maiella e San Bartolomeo in Legio, che a noi oggi non è consentito per mancanza di tempo sulla nostra tabella di marcia. I due eremi si raggiungono in auto percorrendo la strada che da Roccamorice sale verso la Maielletta. Dopo pochi chilometri sulla destra parte una strada percorribile in auto fino a S.Spirito e un sentiero che porta, con un certo impegno, a S. Bartolomeo.
Dopo aver fatto un'ampia documentazione video-fotografica con le nostre attrezzature ripartiamo per l'ultimo tratto del percorso. Facciamo una sosta ristoratrice a Roccamorice e affrontiamo la lunga e ripida discesa che porta a Lettomanoppello.
Dagli 810 m. di Decontra scendiamo ai 257 m. di Manoppello. Stiamo entrando nel "Bacino minerario della Maiella", una zona che è stata per molto tempo utilizzata per l'estrazione del bitume. Nel XIX secolo ha rappresentato una delle prime forme di industrializzazione moderna, anche se è una lavorazione che risale ai tempi dell'impero romano, quando il bitume veniva utilizzato per impermeabilizzare il fondo delle navi. Il bacino minerario si affacciava sulla Valle del Lavino che stiamo percorrendo e comprendeva tutti i comuni del circondario: Abbateggio, Roccamorice, Lettomanoppello, Manoppello, S.Valentino e Scafa. Anche da questa zona partirono migliaia di emigranti verso le miniere del nord Europa e molti perirono nel disastro della miniera di Marcinelle nel 1956. Per mantenere viva la memoria dei vecchi mestieri e delle vittime sul lavoro, alcuni comuni hanno realizzato testimonianze di archeologia industriale come l'Ecomuseo Valle del Lejo ad Abbateggio che rappresenta un vero e proprio parco geominerario e il Sentiero dei Minatori a Lettomanoppello.
Attraversato il ponte sul fiume Lavinio la strada riprende a salire leggermente verso Lettomanoppello da dove si può vedere un ampio panorama sulla valle del Pescara. Anche qui mi colpisce un monumento in pietra bianca in memoria dei minatori morti.
Dopo 6 km di brevi saliscendi arriviamo a Manoppello dove, nel centro storico, troviamo il nostro alloggio. La sera ci avviamo per i vicoli del paese per trovare un luogo per la cena, durante questa passeggiata ritroviamo la tipica atmosfera degli antichi borghi abruzzesi che all'imbrunire assumono tutti una veste somigliante tra loro che non li fanno distinguere l'uno dagli altri.
Trascorriamo l'ultima notte soddisfatti del cammino fatto e dei luoghi che abbiamo attraversato. Domani torneremo a Roseto con un percorso facile e rilassante. Nei primi quattro giorni di viaggio non ci sono stati inconvenienti, rendendo gradevole anche questa esperienza. Mi dispiace per il fastidio che Gilda ha avuto nel salire al Passo S. Leonardo, ciò purtroppo renderà più difficile eventuali futuri viaggi cicloturistici, dovremo trovare altre modalità organizzative.
5° Tappa – Manoppello - Roseto degli Abruzzi - km. 70,5
Oggi, lunedi 19 settembre, siamo al nostro quinto giorno in giro per l'Abruzzo, dall'Adriatico al Gran Sasso passando per la Maiella. Una sintesi quasi perfetta per conoscere la nostra regione. Cerchiamo anche oggi di partire al consueto orario. Lasciamo l'alloggio verso le 9.00 per dirigerci al Santuario del Volto Santo la cui facciata assomiglia ad un pavimento in maiolica. La parte anteriore, insieme al campanile, è stata ricostruita nel 1965 con una cattiva imitazione della Basilica di Collemaggio. La facciata e il campanile originali erano in mattoni a faccia vista, la ricostruzione posticcia ha fatto perdere tutta la loro originalità. Entriamo con Marco all'interno della chiesa mentre un religioso sta spiegando a un gruppo di pellegrini la storia del Volto Santo.
Durante la nostra visita durata circa un quarto d'ora ho potuto acoltare gran parte del suo racconto. Nel 1506 un pellegrino sarebbe giunto a Manoppello nella piazza della chiesa madre, recando un involucro con quello che sosteneva fosse il ritratto del volto di Cristo, che avrebbe consegnato al fisico Giacomo Antonio Leonelli e sarebbe quindi sparito misteriosamente. Dopo diverse vicissitudini il pannello passò di mano in mano fino a quando non pervenne al convento dei Cappuccini dove fu custodito con degna devozione. Il Volto Santo è un velo tenue e ben visibile da ambedue le parti. In seguito a numerosi studi scientifici non è stato ancora accertato se sia stato dipinto o intessuto con fibre colorate. Qualcuno asserisce che sia un’immagine "acheropita", ovvero non dipinta da mani umane. Naturalmente il religioso oltre a raccontare i fatti storici ha dato diverse interpretazioni sull'origine miracolosa del velo su cui non voglio fare commenti. Certamente la visita è stata fruttuosa anche e soprattutto per aver ascoltato in viva voce la storia del Volto Santo. Dopo aver fatto colazione nel bar contiguo alla basilica riprendiamo le bici, debitamente legate con robuste catene, per discendere verso la Valle del Pescara.
Arrivati sulla Tiburtina proseguiamo per altri due chilometri e voltiamo sulla destra per salire nel piccolo altopiano dove raggiungiamo la Basilica di Santa Maria d'Arabona che sorge sui resti di un tempio pagano romano dedicato al culto della "Bona Dea". Dopo l'abbazia di Santa Maria di Casanova fu la seconda in Abruzzo ad appartenere all'Ordine Cistercense ispirato dalle regole formulate da Bernardo di Chiaravalle, il quale condannò i lussi della chiesa e condusse ad una vera e propria svolta nello stile di vita religioso e nell’architettura del tempo. L'organizzazione delle abbazie, secondo le nuove regole di Bernardo, ritornarono alle origini dove i monaci lavoravano i campi, pregavano, coltivavano la musica e l’arte, ma senza i lussi e gli eccessi ampiamente rimproverati ai rappresentanti della chiesa dell’epoca.
Inizialmente la comunità di religiosi in Manoppello fu sostenuta dalle elemosine, ma essi non riuscirono a trovare le risorse necessarie a terminare la costruzione della chiesa che infatti rimase incompiuta. Costituisce l'unico esempio superstite del passaggio dei Cistercensi in Abruzzo. La configurazione attuale, pur mantenendo una certa armonia, reca segni evidenti dell'interruzione dei lavori a partire dalla facciata e dalla mancanza del chiostro. Oltre ai rosoni gotici, particolarmente pregevoli risultano: un candelabro per il cero pasquale in pietra, un tabernacolo gotico, tre dipinti firmati Antonio Martini da Atri e una Cappella dedicata all'ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme.
Dopo aver percorso la discesa per Manoppello Scalo e per Brecciarola, proseguiamo lungo la Tiburtina verso Chieti Scalo. Oggi la consolare romana non è molto trafficata, ma a Sambuceto giriamo per la secondaria Via Tirino dove è stata tracciata una pista ciclabile molto discontinua. Nei d'intorni dello Stadio troviamo il mercato settimanale affollato che ci costringe a scendere dalla bici e proseguire a piedi fino al lungomare dove ci fermiamo per un ristoro. Da qui iniziamo a percorrere la ciclabile adriatica che ci porterà a Roseto. Attraversiamo il moderno ponte ciclopedonale sul fiume Pescara approfittando per scattare alcune foto panoramiche. Ci sentiamo quasi a casa e gli ultimi chilometri ci sembrano una vera passeggiata rispetto agli impegni dei giorni precedenti. Dopo Montesilvano troviamo l'altro ponte moderno sul fiume Saline e, costretti alla dviazione sulla nazionale per l'interruzione della ciclabile alla Marina di Città S. Angelo, facciamo a ritroso la strada percorsa all'andata verso Silvi, Pineto e Scerne, poi senza passare per il lungomare di Roseto puntiamo diretti verso Piana Grande salendo per Piana degli Olivi. Siamo finalmente ritornati a casa dopo aver pedalato per 350 km. attraversando alcune delle zone caratteristiche degli Abruzzi. Siamo soddisfatti e, miracolo della pedalata assistita, ci siamo divertiti senza doverci sentire affaticati e stanti. In effetti più della stanchezza anche questa volta, a fine tappa, ho provato il disagio di stare cinque giorni lontano dalle comodità della casa. Appena arrivati Gilda, che ci aveva preceduto, ci ha subito fatto sentire il calore di "casanostra" offrendoci un buon pranzo con le cose semplici che piacciono a me, sperando che siano picaiute anche a Marco che, comunque, prima di rietrare a Macerata con la sua mercedes, ha dato la senzazione di gradire.
Come ho detto noi ciclisti ci siamo divertiti, ma anche Gilda non ha mancato di manifestare la sua soddisfazione per aver conosciuto alcuni angoli ignoti d’Abruzzo e, nonostante gli inconvenienti e la monotonia di scortare due cicloturisti, anche lei ha potuto apprezzare il viaggio e mi ha ringraziato. Per la verità un ringraziamento incondizionato lo dobbiamo proprio a lei che ci ha reso più agevole il cammino in sella alle nostre bici.
Questa passeggiata è stata per me molto terapeutica avendomi distratto dagli ultimi avvenimenti che mi hanno profondamente deluso avendo visto sfumare quegli ideali e quei valori custoditi fin dalla giovinezza. Ideali e valori che avrebbero dovuto portare a un mondo migliore e che, invece, lo ha visto peggiorare di gran lunga. Per la prima volta è venuta meno la fiducia nell’essere umano e sono stato sopraffatto da un senso di pessimismo per il futuro della democrazia e del governo dei popoli. Posso ben dire che la bici mi è servita per inebriarmi per alcuni giorni tra le bellezze dell'Abruzzo e lenire alcune amarezze.
Settembre 2022