LA VIA FRANCIGENA 2023

LUCCA - SIENA - VITERBO - ROMA

“Che ti move, o omo, ad abbandonare le proprie abitazioni delle città e lasciare li parenti e amici ed andare in lochi campestri per monti e valli, se non la naturale bellezza del mondo?” (Leonardo Da Vinci)

Parlando della Via Francigena innanzi tutto occorre dire che una strada chiamata “via francigena” non è mai esistita. Dicendo ciò mi rendo conto di aver dato una delusione a molti. Per chiarire questa affermazione si deve fare riferimento ai fatti storici.
L’Impero Romano aveva costruito i suoi successi militari ed economici con la realizzazione delle strade consolari. L’immenso complesso viario rappresentava un’opera di straordinaria ingegneria che ha portato la civiltà romana ad essere all’avanguardia nel mondo allora conosciuto.
A partire dal III secolo a.C. fu realizzato l’asse portante di quello che ancora oggi sono le strade che “portano a Roma”: Aurelia, Cassia, Flaminia, Salaria, Tiburtina, Casilina, Appia, Nomentana e Prenestina, oltre a diverse altre strade minori. Queste infrastrutture erano essenziali per lo sviluppo dell'Impero, in quanto consentivano di muovere rapidamente l'esercito, ma oltre agli scopi militari esse avevano una grande importanza politica e commerciale. L’aspetto che avevano le strade romane all’epoca è molto diverso da come lo vediamo oggi. Esse erano all’epoca notevolmente lisce, perfettamente levigate, resistenti alla pioggia, al gelo, alle inondazioni, in quanto erano oggetto di accurate manutenzioni.
I romani diffusero il diritto e la giurisprudenza a tutto il mondo occidentale, ma era l'esercito il loro punto di forza. Difesero il loro Impero governando con il pugno di ferro e con l’oppressione. La grande rete di comunicazione era al servizio del potere imperiale. Con il disfacimento dell’Impero Romano e la suddivisione del territorio in tanti piccoli potentati, venne meno il ruolo delle consolari e del loro mantenimento. Con il tempo non solo le grandi arterie che si ramificavano da Roma andarono in disuso, ma subirono addirittura ruberie e spoliazioni. Durante il Medioevo l’interesse per i lunghi viaggi andò diminuendo. Viaggiare diventò sempre più difficoltoso per numerosi motivi. Le strade erano impercorribili, spostarsi da un luogo all’altro era molto disagevole e costoso. I territori erano infestati da briganti e bande organizzate che dissuadevano i cittadini ad affrontare l'incognita di un viaggio. Senza contare la continua minaccia delle incursioni saracene lungo le coste della penisola. Insomma viaggiare era consentito solo a chi si poteva permettere una buona scorta armata e maestranze da utilizzare per superare tutte le difficoltà logistiche del percorso. Un viaggiatore a piedi percorreva circa 20 miglia al giorno, con notevoli rischi, con scarsa assistenza e senza nessuna protezione. I costi da sopportare erano ingenti: vitto, alloggi, pedaggi e dazi di ogni genere.

“Chi siete? Cosa portate? Quanti siete? Dove andate? …..Un fiorino!"

L'instabilità politica e le continue variazioni dei percorsi rendevano sporadici ed incerti gli interventi per la manutenzione delle strade, onere che, durante il medioevo, in mancanza di un’autorità centrale competeva alle diocesi o alle pievi, che non avevano disponibilità sufficienti o interesse per la loro sistemazione. Le strade erano diventate delle vere e proprie mulattiere, praticabili solo a piedi, a cavallo (privilegio destinato a pochi), o a dorso di un mulo. Con il Medioevo difatti, si era quasi del tutto abbandonato il trasporto tramite veicoli a ruote e, d'altro canto, le esigue dimensioni delle sedi stradali non avrebbero consentito, in diversi punti, il transito di carri.
Parlare di pellegrini che si avventuravano in lunghi viaggi è in gran parte romanzato.
Nel Medioevo, chi viaggiava lo faceva perché era costretto oppure viaggiava per guadagnarsi da vivere. Sulle strade circolavano, oltre a qualche raro pellegrino, vagabondi, giocolieri e commercianti ambulanti. Sono questi che hanno forgiato l’immagine tipica del viaggiatore. C'erano, però, anche viaggiatori occasionali che si dovevano spostare solo per determinati motivi e in alcune particolari circostanze come il clero, gli studenti, i letterati e gli artisti. Con lo sviluppo dei commerci i viaggiatori per eccellenza sono diventati i mercanti. Chi viaggiava lo faceva, comunque, in condizioni precarie e con diversi imprevisti da affrontare. Bisogna, inoltre, considerare che per viaggiare c'era bisogno di una sufficiente quantità di denaro per coprire tutte le spese e, siccome nel varcare le frontiere poteva cambiare anche la moneta, il viaggiatore non organizzato aveva inevitabili difficoltà nel dover affrontare viaggi di lunga percorrenza. Solo i nobili e la classe alto-borghese avevano la facoltà di possedere "lettere di credito" riconosciute nei diversi stati. In ogni caso il viaggio effettuato dai ceti altolocati era ben diverso da quello della gente comune. Un'altra categoria di viaggiatori favoriti erano i prelati e i religiosi che potevano usufruire delle agevolazioni offerte dai monasteri e dai conventi che, naturalmente, era ben diversa da quella offerta ai semplici viandanti.
Nel Medioevo si parlava della Via Francigena, ma non come viene intesa oggi. La Francigena non era propriamente una via ma piuttosto un fascio di vie, un sistema vario con diverse alternative. Non bisogna immaginare la via Francigena come un’unica arteria che attraversa l’Europa medievale da nord a sud, ma qualcosa di molto meno definito e assai più complesso. Le fonti documentarie rivelano come molte in età medievale fossero le vie “francigene”, e non si trattava di varianti di percorso di una stessa via, ma di percorsi diversi con pari dignità.
Dal disgregamento dell'Impero si erano formati numerosi piccoli regni con una suddivisione sempre più frammentata e con la difficoltà dell'autorità centrale ad assistere i propri feudi e garantirne l'ordine. Un'efficiente rete viaria veniva considerata una minaccia per eventuali incursioni di bande di briganti e di nemici.
Dante Alighieri nella “Vita Nova” parla di tre grandi vie di pellegrinaggio:
- una diretta a Santiago de Compostela, vi transitavano i "pellegrini" propriamente detti (il luogo più lontano, più peregrino); il simbolo era rappresentato dalla conchiglia.
- una diretta a Roma, i pellegrini erano detti "romei"; il loro simbolo era la chiave.
- una, passando per S.Michele Arcangelo sul Gargano, era diretta a Gerusalemme; la palma era il simbolo del pellegrinaggio ed i pellegrini erano detti "palmieri".
La via Francigena rappresentava proprio il punto di incontro dei tre percorsi: dal nord Europa scavalcava le Alpi e attraverso la Pianura Padana e gli Appennini raggiungeva Roma per proseguire verso Gerusalemme; da sud veniva utilizzata dai fedeli che dall’Italia si recavano a Santiago de Compostela.
Fu il monaco Sigerico, nominato Vescovo di Canterbury che, intraprendendo il viaggio per ricevere il “pallio” dal papa, nel ritorno lo descrisse annotandolo in un diario, con le sue 80 tappe da Roma a Canterbury.
Più che una strada la "Francigena" era una convenzione, una direzione che indicava un percorso appena abbozzato che collegava il nord Europa con Roma. Difatti in epoca medievale il concetto di strada era molto differente da quello contemporaneo. Venivano indicati dei tracciati marcati da punti di riferimento fissi, tra i quali però il percorso poteva subire diverse variazioni causate da ragioni climatiche, stagionali, di sicurezza e così via.
Il nome "Francigena", ma veniva chiamata anche “Romea”, deriva dal fatto che dalla terra dei Franchi portava a Roma. Bisogna precisare che i Franchi erano un popolo germanico, con capitale Aquisgrana (Aachen) e che solo successivamente invasero la Gallia romana dandole il nome di Francia. E', quindi, errato considerare la francigena come una strada che collegava la Francia con Roma.
Il percorso fatto dal monaco Sigerico, nel tratto italiano, ricalca quello ideato dai Longobardi per scopi politico-militari quando contendevano il territorio sia ai Bizantini che ai Franchi. A quel tempo vi era l’esigenza di collegare il Regno di Pavia con i ducati longobardi meridionali tramite una via sicura. Si scelse quindi un itinerario, allora considerato minore, che valicava l’Appennino in corrispondenza dell’attuale Passo della Cisa, tenendosi lontano dalla Liguria in mano ai Bizantini. Dopo la Valle del Magra il percorso si allontanava di nuovo dalla costa in direzione di Lucca, per proseguire verso sud all'interno della penisola perché il litorale tirrenico era controllato dalle flotte bizantine.
A partire dal 1300, con la promulgazione del Giubileo da parte di papa Bonifacio VIII i pellegrinaggi verso Roma si diffusero per ricevere l’ambìto riconoscimento delle indulgenze, ma anche grazie ad una situazione socio-politica più stabile. Le Vie Francigene si confusero con le Vie Romee percorse dai pellegrini per il Giubileo. Per il ripristino delle vecchie consolari romane, però, si dovrà attendere oltre 700 anni, fino l’unità d’Italia.
Molto più recentemente dopo la riscoperta del Cammino di Santiago, avvenuta circa 50 anni fa, e sulla scia di questo successo, l’Associazione Europea delle vie Francigene con sede a Fidenza ha cercato di ricostruire il percorso medievale descritto da Sigerico soprattutto nel tratto italiano a partire dal Gran S. Bernardo, per una lunghezza complessiva di 945 km suddiviso in 51 tappe percorribili a piedi. E’ stata realizzata una vasta segnaletica e, con il contributo degli enti locali, sono stati approntati alloggi per i turisti dislocati mediamente lungo il percorso. Soprattutto nel tratto toscano e laziale sono state realizzate strutture ricettive da parte di amministrazioni comunali e associazioni private, oltre a diversi alloggi gestiti da congregazioni religiose.
Sono tornato alla Francigena dopo 7 anni e posso affermare che ho trovato il percorso e la segnaletica migliorata, anche se c’è ancora molto da fare per avvicinarsi al più famoso Cammino di Santiago. Si nota la mancanza di un coordinamento tra i diversi organismi e le amministrazioni locali. Sembra che ognuno voglia fare un “suo” percorso a conferma che di Francigena non ce n'é una sola, lasciando dubbi nella scelta degli itinerari.
La Via Francigena è ormai diventata un richiamo escursionistico e culturale che attira molti appassionati del "turismo lento", ma deve adeguarsi alle richieste sempre più sofisticate dei viaggiatori moderni che non sono certo i pellegrini medievali di cui tanto si favoleggia. In alcuni tratti, lontano dai centri abitati, scarsi sono i punti di ristoro. In alcune località è difficile trovare alloggio soprattutto per i camminatori a piedi che non possono percorrere più di 20 - 30 chilometri al giorno. Per attirare la massa dei giovani, inoltre, si dovrebbero incrementare le strutture di accoglienza di livello economico perché, sia ben chiaro, che percorrere la Francigena, a piedi o in bicicletta, non è pericoloso e disagevole come nel Medioevo, ma è comunque abbastanza costoso.
Il cammino italiano, dal Gran San Bernardo a Roma, è molto vario ma, secondo me, oltre al Passo della Cisa nell'Appenino tosco-emiliano, il tratto più interessante è quello toscano e laziale. Scegliere Lucca come luogo di partenza significa scegliere una delle più belle città che, insieme a Siena, Viterbo e Roma rappresentano un itinerario storico e artistico unico, che si completa con i meravigliosi borghi, gli splendidi panorami e con i numerosi boschi che si incontrano.
Settembre 2023

LE TAPPE

Prima parte: Lucca - Siena

1° Tappa - Lucca - S. Miniato Alta – km. 52

dislivello positivo m. 347 - dislivello negativo m. 211
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Lucca è certamente una delle più belle città della Toscana, non potevo mancare di fare l’intero percorso scelto da “Viaggiareinbici” di nove giorni a Lucca a Roma.
L’appuntamento per i cicloturisti era fissato alla stazione di Lucca per le 10.30, ma alcune difficoltà riscontrate per prelevare denaro in banca mi hanno fatto arrivare con un certo ritardo. Il classico inconveniente di quando si arriva all’ultimo momento per fare i preparativi o quando si vogliono fare troppe cose insieme. Nei prossimi giorni mi succederà altre volte, costringendomi a rincorrere il gruppo con la …..disperazione delle nostre guide.
Dopo essermi scusato per il ritardo, saluto Paolo, Danilo e Marcello. Appena ritirata la mia e-bike, faccio in tempo a montare l’indispensabile telecamera sul manubrio, prima che le nostre guide danno l’ordine di partenza. Con grande piacere incontro ancora una volta Angela, con la quale ho già compiuto diversi altri cammini. E’ una donna tenace, appassionata di escursioni e brava ciclista, sempre fedele alla sua MTB muscolare.
Siamo 21 partecipanti di cui circa la metà con bici assistite. Una decina di temerari hanno deciso di utilizzare le proprie forze in un percorso che non è eccessivamente duro, ma che presenta numerose asperità su sentieri sconnessi. C’è anche una nutrita rappresentanza femminile.
Oggi Lucca si presenta come una città prevalentemente medievale e rinascimentale, ma le sue origini sono etrusche, diventando poi dominio romano di cui conserva ancora l'antico piano urbanistico. La più interessante testimonianza romana è rappresentata dalla Piazza Anfiteatro dalla caratteristica forma ellittica che segue il disegno di un antico manufatto di epoca romana, i cui resti si possono ammirare percorrendo la strada esterna alla piazza. Divenne un centro strategico per l’impero romano a difesa delle incursioni barbariche provenienti dal nord.

alt Gli amici di “Viaggiareinbici” non potevano scegliere un luogo di partenza migliore. Dalla stazione di Lucca saliamo sull’ampia passeggiata girando intorno alle mura della città da dove si ammira l’intero panorama con i numerosi campanili e le sue “cento torri” che rappresentavano le più potenti famiglie lucchesi. La cinta muraria di Lucca è uno dei maggiori esempi in Europa di mura conservati integri in una grande città. Quelle attuali rappresentano la terza e ultima cinta muraria nella storia di Lucca. Sono state ricostruite in epoca rinascimentale con lo scopo di difendere la città, ma non sono mai servite perché la città non ha mai subìto invasioni o assedi veri e propri. I 124 cannoni istallati lungo le mura non hanno mai sparato un colpo. Pur non essendo mai servite come difesa militare, i lucchesi ci tengono a ricordare che nel 1812 le mura hanno difeso la città dall’alluvione del fiume Serchio. Originariamente c’erano tre porte di accesso, attualmente sono sei le porte esistenti: Porta Santa Maria, Porta Elisa, Porta San Jacopo, Porta San Pietro, Porta Sant’Anna e Porta San Donato. Per realizzare quest’opera monumentale, nella ristrutturazione rinascimentale, ci sono voluti 150 anni, iniziata nel 1500 è terminata nel 1650. La nuova cerchia ha una lunghezza di circa 4 chilometri, è alta 12 metri e alta 30. A partire dalla seconda metà dell'Ottocento fu trasformata in una piacevole passeggiata pedonale, perdendo la loro funzione difensiva e attualmente è inclusa nella lista del “patrimonio dell’umanità dell’Unesco”. La particolarità delle mura è che si può godere di una bella passeggiata lungo i bastioni, ma la maestosità delle mura si può osservare percorrendo la cerchia esterna da dove si possono vedere tutte le sei porte.
Nel fare cicloturismo non è possibile soffermarsi sui dettagli dei territori che si attraversano. Lasciate le mura di Lucca ci dirigiamo senza sosta direttamente alla periferia della città. La maggior parte dei partecipanti hanno potuto ammirare le attrazioni di Lucca la sera precedente.
Tanti sono i monumenti di interesse storico e artistico: oltre alla Piazza Anfiteatro e alla cinta muraria Lucca è famosa per avere cento piazze e cento chiese. Sono tante le torri che si vedono avvicinandoci alla città che molti la identificano in un “boschetto”. In passato, in effetti, molte delle torri erano alberate, ma solo la Torre Giunigi, oggi, è rimasta con i suoi alberi piantati sulla sommità. . Le torri più alte rappresentavano le più potenti famiglie lucchesi.
alt Nominare tutte le chiese sarebbe difficile, ma tra tutte spiccano la Cattedrale di San Martino e la Chiesa di San Michele che testimoniano le dominazioni di epoca bizantina e longobarda, con i due rispettivi santi patroni. Secondo la tradizione la Cattedrale fu fondata da S.Frediano nel VI secolo. Una caratteristica della facciata asimmetrica del Duomo è che sotto l’arcata più piccola, sul pilastro destro aderente al campanile si trova inciso un “Labirinto” con un’iscrizione latina: HIQ QUEM / CRETICUS / EDIT DEDA- / LUS EST / LABERINT / HUS DEQ(U)- / O NULLU- /S VADER- / E QUIVIT / QUI FUIT / INTUS / NI THESE – / US GRAT- / IS ADRIAN- / E STAMI-/ NE IUTUS. (“Questo è il labirinto costruito da Dedalo cretese del quale nessuno che vi entrò vi poté uscire eccetto Teseo aiutato dal filo di Arianna”). alt Il labirinto della Cattedrale di Lucca è diventato anche uno dei simboli della “Via Francigena”. Come nei labirinti esistenti nelle cattedrali francesi di Chartres, Reims e Amiens, l’interpretazione che si dà è che i fedeli, durante la vita devono seguire una condotta rigorosa per ascendere al cielo e a Dio, esattamente come Teseo aveva seguito il filo di lana di Arianna per riuscire a riemergere dall’oscurità del labirinto. Ugualmente la Francigena rappresenta una via spirituale per i pellegrini che la percorrono con fede. Ciò è sempre valido in un epoca dove la maggior parte dei viandanti percorrono la Francigena per motivi completamente diversi.
Uscendo dalle mura, il primo tratto della Via Francigena si sviluppa lungo la Piana di Lucca in un territorio di scarso interesse, costeggiando l’autostrada “Firenze – Mare. E’ un tratto pianeggiante disseminato di capannoni industriali, ogni tanto si incontra qualche centro abitato insignificante, si può dire anonimo, che scontenta molti dei cicloturisti, ma la partenza dalla città di Lucca ripaga di qualunque delusione.
Percorrendo alcune strade secondarie siamo arrivati alla Chiesa Camaldolese di San Pietro presso Badia di Pozzeveri, chiusa come tante altre strutture religiose. Anche questo edificio, che ha avuto un ruolo nella Chiesa del XI secolo, nel 1976 è stata lasciata in abbandono, dopo essere stata spogliata di tutte le opere d’arte, trasferite nella nuova chiesa edificata nella frazione di Badia.
Oltrepassata l’autostrada ed entriamo nel borgo medievale di Altopascio che rappresentava un punto di riferimento lungo la Via Francigena per la presenza dell’Ordine Ospedaliero dei Frati di San Jacopo. Lo Spedale non era solo un ospizio, ma trasformava la semplice accoglienza in un ricovero medico specializzato. Era uno dei luoghi di assistenza dei pellegrini medievali. Il complesso comprende, oltre all'Ospedale, la torre campanaria e la chiesa di San Jacopo. In breve lo Spedale di Altopascio divenne così importante che, per adempiere le funzioni cui era preposto, vennero fondati i “Cavalieri del Tau”, ordine religioso cavalleresco che si diffuse in tutta Europa. Il nome deriva dal lungo mantello nero che i frati indossavano, sul quale era stampata la croce taumata, a forma di lettera tau (T greca). L'Ordine di San Jacopo di Altopascio, o del Tau, fu il primo degli ordini di monaci guerrieri. Matilde di Canosa, che governava questi territori, ebbe un ruolo di primo piano nella fondazione di quest’ordine, insieme a Ugo de Paynes che, successivamente fondò l’ordine dei Templari di Gerusalemme.
alt Lo Spedale di Altopascio era una struttura di assistenza ai pellegrini diretti a Roma. I cavalieri del Tau erano una sorta di polizia religiosa che li proteggeva da rapine e assalti di ogni genere. Circondato da una robusta cinta da mura, ha l'aspetto di un fortilizio; vi si accede dalla Porta degli Ospedalieri con una sovrastante torretta. La Magione di Altopascio era all'inizio un complesso articolato intorno a due ampi cortili, attorno ai quali erano disposti i locali dedicati ai frati e all'accoglienza dei pellegrini. Nel cortile esiste ancora un caratteristico pozzo circolare che attingeva acqua dal circostante lago di Bientina, ora bonificato.
L'alta torre dell'Ospizio, con il fuoco sempre acceso sul terrazzo, e la sua campana, la Smarrita, rappresentavano un importante punto di riferimento nelle zone paludose che la circondavano.
L'Ordine Ospedaliero continuerà a sopravvivere, sostenuto dalle molteplici attività che gli derivano dai possedimenti sparsi in tutta Europa, e dalla rete viaria e di trasporti di cui era al centro. Nell'arco di un secolo subirà però radicali trasformazioni, sia urbanistiche che funzionali.
Ad eccezione delle grandi strutture come Altopascio, gli ospedali medievali, spesso di vita effimera, nella maggior parte dei casi erano istituzioni di piccole, se non piccolissime, dimensioni, capaci solo di accogliere qualche ospite. Non si può pensare che esistesse una rete capillare di ospizi utile ai viandanti che avevano bisogno di alloggi ogni 20 – 30 chilometri.
alt Con il fenomeno dell’urbanesimo ci fu una forte migrazione dalle campagne alle città. Lo spopolamento delle campagne contribuì alla decadenza delle strutture periferiche. Aumentavano i poveri, e per le vie divenute più insicure i rari pellegrini non bastavano più a garantire la prosecuzione della ricettività di Altopascio. Tra il XV e il XVI secolo l’ospedale fu trasformato, dalla famiglia Capponi, prima in fortezza e poi in fattoria.
I soli luoghi di cura che sopravvissero nelle campagne o alle pendici dei monti furono i monasteri. Era un’opera di carità esercitata da monaci e suore. Nutrivano i poveri, accoglievano i bambini abbandonati, si occupavano degli anziani, soccorrevano i pellegrini. Il nome di Ospedale, o “Spedale”, deriva dal latino “hospes”, ospite cioè luogo di accoglienza. Avevano principalmente il ruolo di assistenza più che di cura. Non mancava, in ogni caso il sostegno spirituale e religioso.
Nell’assistenza medica si utilizzavano erbe officinali coltivate nei giardini dei semplici. Si ricavavano oli e balsami, alcune erbe venivano usate per fare decotti e infusi. C’era poco di scientifico, la conoscenza umana derivava essenzialmente dalla tradizione orale o dall'esperienza. La corporazione degli speziali era costituita da una farmacia le cui medicine erano prevalentemente a base di erbe e di unguenti. Purtroppo la realtà fu mescolata ad un alone di mistero e religione, che aleggiava nel corso di quei secoli. Così il sapere delle erbe medicinali fu in parte distorto, fino a quando a partire dal Rinascimento, con l’avvento della la scienza si cominciò a fare i primi progressi. La scienza divenne un sapere intoccabile e nettamente distaccato dalle credenze popolari, segno della nascita di una nuova era.
Con il rifiorire dei commerci e l’intensificarsi dei pellegrinaggi verso i luoghi sacri aumentò la necessità di assistenza all’interno delle città, dove vennero realizzati grandi Ospedali, molti dei quali sopravvissuti fino a oggi. Tali strutture si ampliarono con l’avvento delle Crociate e con l’istituzione dei Giubilei con i pellegrini che effettuavano viaggi disagevoli per recarsi a Roma per ricevere l’indulgenza.
Non sempre gli “Spedali” offrivano assistenza e ospitalità gratuita. Anche nel Medioevo il diritto alle cure si basava sulle disponibilità economiche dei pazienti. Per un malato “povero”, l’unica possibilità di assistenza era quella di rivolgersi alle strutture religiose dove la terapia consisteva molto spesso in una preghiera, in un pellegrinaggio o una processione.
Dopo la sosta per il pranzo lasciamo Altopascio verso Galleno, un borgo diviso in tre provincie: Lucca, Firenze e Pisa. Nell’entrare a Galleno percorriamo circa 800 metri dell'antico selciato. Non è un vero basolato romano, ma è uno di quei tratti di strada medievale rimasto in ottimo stato di conservazione che, percorrerlo in MTB, rappresenta una vera delizia. Dopo Galeno si prende la strada provinciale e ci si immette nel Bosco delle Cerbaie, un sito di interesse comunitario (SIC) immerso in una natura incontaminata. Usciti dalle Cerbaie si arriva a Ponte a Cappiano dove si ammira il ponte mediceo sul canale Usciana.
alt Poco dopo entriamo nell’abitato di Fucecchio con il monumento a Giuseppe Montanelli, patriota risorgimentale, che ha combattuto nella prima guerra di indipendenza con il contingente degli studenti toscani nella famosa battaglia di Curtatone e Montanara. Fucecchio è anche la città di Indro Montanelli, discendente del patriota, uno dei più importanti giornalisti e storici del XX secolo. Dopo Fucecchio si attraversa l’Arno e si inizia la salita verso San Miniato Alta, dove termina la prima tappa della nostra Via Francigena.
San Miniato è una città di origine longobarda. Nel XII secolo Federico II eresse la Rocca, che domina dall’alto la Vallata dell’Arno, insediandovi il suo vicario per la Toscana. La città, di tradizione ghibellina, per tutto il medioevo fu chiamata San Miniato al Tedesco, anche se l'Imperatore Svevo, nato a Jesi, visse gran parte della sua vita in Italia. Napoleone Bonaparte aveva lontane origini di nobiltà samminiatesi. Per dimostrare tali origini dovette chiedere un apposito attestato, senza il quale non poteva essere ammesso all’accademia militare francese. In Via Paolo Maioli, nelle vicinanze di Piazza Bonaparte si può ancora ammirare il Palazzo di famiglia. Arriviamo all’Hotel Miravalle nel primo pomeriggio in tempo per fare un ampio giro per il borgo che avevo già conosciuto nel 2015, nel mio secondo giro della Francigena. Dalla Rocca abbiamo ammirato l’intero panorama del borgo e tutto il Basso Valdarno. Federico II aveva scelto un ottimo punto di osservazione per il controllo del territorio. San Miniato è un buon centro turistico, non solo per la sua posizione, ma anche per i servizi che offre e per l’ordine che si osserva nei vicoli e nelle piazze. La struttura medievale si conserva in tutto il suo splendore.

2° Tappa - S. Miniato alta - Colle val d'Elsa – km. 51

dislivello positivo m.1103 - dislivello negativo m. 760
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Oggi è sabato, partiamo dall’albergo intorno alle nove attraversando le strade del centro storico di San Miniato. All’uscita del borgo transitiamo sulla provinciale che porta verso Castelfiorentino fino ad una strada sterrata ma ben compatta che sale a mezza costa, con un’ampia veduta sulla Val d’Elsa. Superata la Pieve dei Santi Pietro e Paolo a Coiano percorriamo una serie di sentieri collinari in un ambiente campestre tra vigneti, case coloniche e gli immancabili cipressi toscani, un panorama che ci accompagnerà fino a destinazione. Arrivati a Chianni lasciamo provvisoriamente il sentiero sterrato per prendere la strada provinciale Volterrana fino a Gambassi.
Transitiamo per la Pieve di Santa Maria a Chianni con l’annesso Ostello “Sigerico” dove, nel 2016, ho pernottato e mangiato ottimamente nella struttura gestita da alcuni volontari. Oggi trovo l’ostello desolatamente chiuso. Ciò è la conferma che il “turismo lento” in Italia non abbia ancora raggiunto livelli di partecipazione interessanti. Chiedendo informazioni lungo la Francigena ho sentito diverse lamentele da parte degli operatori turistici. In effetti anche noi abbiamo incontrato pochi gruppi di pellegrini a piedi. Rarissimi sono stati i cicloturisti. La maggior parte dei camminatori viene attirata (seguendo la moda) dal più famoso Cammino di Santiago, trascurando le attrazioni paesaggistiche, artistiche e storiche che si trovano lungo la Francigena.
Arrivati a Gambassi non entriamo nel borgo, che avrebbe meritato una breve visita. Ci fermiamo presso il laboratorio di panetteria e pasticceria Burresi per una merenda. Dopo la sosta riprendiamo la strada verso San Giminiano sempre a mezza costa sulla Val d’Elsa. Transitiamo per alcuni bei casolari di campagna, quasi tutti adibiti ad agriturismo di lusso e ci fermiamo per una visita al Santuario di Pancolle con il suo caratteristico presepe. Anche questo santuario, dedicato a Maria Madre della Divina Provvidenza, ha avuto origine da una leggenda miracolosa, che viene rievocata l’8 settembre di ogni anno. Nel 1944 i tedeschi in ritirata minarono il Santuario distruggendolo (come è successo a tanti altri edifici religiosi e civili). Chissà quale sia stato il motivo che ha spinto l’ufficiale tedesco a dare l’ordine di minare un piccolo e innocuo santuario, ma queste sono le inevitabili e meschine conseguenze di ogni guerra. L’odio, la megalomania, l’ignoranza e la strafottenza sono alla base di ogni confitto, giustificata da inganni e superficialità da parte dei governanti, coadiuvati dai loro generali. La leggenda e la fede erano, però, così radicate nella gente del posto che il santuario fu riedificato e riconsacrato nel 1949.
alt Dopo pochi chilometri si arriva a San Giminiano che, già da lontano, si annuncia con le sue caratteristiche torri medievali. Delle 72 tra torri e case-torri, esistenti nel periodo d'oro del Comune, oggi ne restano quattordici. La più alta è la Torre del Podestà, detta anche Torre Grossa, di 54 metri. Un regolamento del 1255 vietò ai privati di erigere torri più alte di quella del Palazzo del Podestà, anche se le due famiglie più importanti, Ardinghelli e Salvucci, fecero costruire le loro torri poco più basse ma, per dimostrare la propria potenza, ognuno di loro fece costruire “torri gemelle”. La torre Grossa fa da sentinella al Palazzo Comunale che rappresenta una riproduzione su scala minore del Palazzo Vecchio di Firenze. La Torre Rognosa, oltre ad essere la più antica, è famosa perché era destinata a ospitare i “rognosi”, cioè coloro che avevano “rogne" con la giustizia.
San Giminiano visse un periodo di splendore durante le lotte tra guelfi e ghibellini che oltre agli inevitabili scontri armati alimentò la gara tra le famiglie più facoltose all’edificazione dei palazzi con torri o case torri sempre più alte. I conflitti e la gara delle torri finirono con una lunga crisi causata dalle numerose epidemie, oltre che dal fenomeno dell’urbanesimo che costrinse la piccola città a mettersi sotto la protezione di Firenze, rinunciando ai sogni di grandezza ed espansione. Una delle caratteristiche di San Giminiano è rappresentata dalla difformità degli stili architettonici che, oggi, le conferisce un fascino particolare a testimonianza della vitalità e la forte rivalità delle famiglie.
San Giminiano è stata dichiarata dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità. Come è successo a tanti altri borghi antichi, anche San Giminiano ha potuto vantare questo riconoscimento grazie a quel lungo periodo di declino e alla marginalità della città nei secoli successivi che permisero il mantenimento del suo aspetto originario. Non tutto il male vien per nuocere. A volte un evento negativo può avere conseguenze positive: la crisi salvò il borgo da rifacimenti e inutili modernismi. Alla fine del XIX secolo si cominciò a riscoprire la particolarità e la bellezza della cittadina che venne sottoposta integralmente a vincolo monumentale. Le sue torri, ma anche la sua architettura tipica vennero apprezzate per la loro bellezza e la loro autenticità storica.
Non è stato possibile entrare all’interno del borgo in sella alle bici. Il traffico pedonale era talmente intenso che era possibile avanzare soltanto a piedi. Abbiamo notato i parcheggi fuori le mura stracolmi di auto e pullman. Questo aspetto potrebbe contrastare con la scarsa affluenza sulla Via Francigena, ma il turismo nei borghi e nelle città storiche è un fenomeno completamente diverso. Nel fine settimana, inoltre, si verifica sempre un incremento del turismo “mordi e fuggi”. E’ un’attività consumistica che non si concilia con quello dei cammini.
Le nostre guide avevano deciso una sosta per il pranzo e per consentire la visita alla città. I locali erano affollati, non è stato facile trovare un punto di ristoro. Nella piazza centrale c’era una famosa gelateria che aveva una fila interminabile dinanzi all’ingresso. Lungo le strade del centro tutti i negozi erano aperti e molto frequentati. Due ore sono state sufficienti per rifocillarci e fare un giro per la città, per poi riprendere il cammino per Colle Val d’Elsa con 5 chilometri di discesa e una salita di 4 chilometri che ci ha portati sulla via Volterrana fino alla Porta Nova. Un’apertura delle antiche mura che sembra l’ingresso di una fortezza con i due torrioni laterali e un fossato che un tempo doveva avere un ponte levatoio.
alt Colle Val d’Elsa appartiene a quelle località minori della Toscana, ma di una grande ricchezza artistica e storica. Una città d’arte lontana dai grandi circuiti turistici, ma che andrebbe maggiormente valorizzata.
La cittadina è divisa in due zone, “Colle Alta” nata su una collina di sabbie gialle, che ha mantenuto l’aspetto tipicamente medievale, con diverse “case-torre” anche se più modeste di quelle di San Giminiano, ma che conservano interamente lo stile dell’epoca. “Colle Bassa” è cresciuta in pianura sulla valle del fiume dove la vita brulica frenetica con i ritmi della città moderna: piazze, monumenti, opere di arte contemporanea, gallerie artistiche, il teatro, ex fabbriche ristrutturate inserite negli spazi urbani e riadattati per la movida.
Siamo stati avvisati che proprio questa sera e per gran parte della notte, la movida sarà particolarmente intensa per l’annuale “Notte Gialla” organizzata dall’Associazione “La Scossa” in collaborazione con il Comune. Ogni strada e ogni piazza si trasforma in spazi con mostre e spettacoli all’aperto con concerti, laboratori e iniziative varie.
Colle Val d’Elsa è anche un importante centro per la lavorazione del cristallo. Si produce il 95% di tutto il cristallo italiano ed il 14% di tutto il cristallo del mondo, con una produzione di grande valore, bellezza e varietà, che ne fanno una risorsa importante per la città. Nella parte bassa è stato realizzato il Museo del Vetro e del Cristallo utilizzando vecchie aree dismesse.
alt E’ la terza volta che mi trovo a Colle Val d’Elsa e conosco bene la parte medievale con il suo fascino di antico borgo. In attesa della cena e della Notte Gialla ci dedichiamo ad una passeggiata nella città. Decidiamo con Angela di andare a vedere il “Sentierelsa” nel Parco Fluviale dell’Alta Val d’Elsa. Un percorso attrezzato di circa 3 chilometri che inizia alla periferia della città bassa. Un’area protetta in un ambiente naturale e suggestivo. Il sentiero costeggia l’Elsa e lo attraversa in tre punti. Non ci sono ponti di legno, si passa da una sponda all’altra attraverso guadi rocciosi. A poca distanza dalla città ci siamo trovai improvvisamente immersi nella natura verdeggiante in un fitto bosco che costeggia il fiume le cui acque sono arricchite da un’antica sorgente termale responsabile dell’odore sulfureo che si sente in vari tratti del Sentierelsa. Delle vecchie terme, di origine etrusca, rimangono solo alcune rovine, ma gli abitanti del posto sono invogliati a fare il bagno utilizzando le diverse pozze naturali. La temperatura tiepida e le riconosciute proprietà terapeutiche sono apprezzate in gran parte dell’anno. Durante la passeggiata abbiano abbiamo visto diversi bagnanti immersi nell’acqua del fiume che si godevano una mite giornata autunnale.
Rientrati in città abbiamo potuto vedere l’inizio della movida che nel dopo cena è diventata frenetica. Tutta la città si è andata riempendo di gente. Il nostro albergo si trovava proprio nella zona più affollata. Il frastuono era, però, attutito da ottimi infissi insonorizzati che ci hanno permesso di riposare tranquillamente. E’ stata una tipica nottata di movida con canti, balli e spettacoli vari di cui ho apprezzato molto l’esibizione della banda dei tamburini. Un gruppo folcloristico formato da uomini e donne guidati da un “capobanda” che dettava i ritmi cadenzati, rispettati all’unisono da tutti i componenti.
Un’esibizione apparentemente semplice durata per l’intera manifestazione fino a notte alta, con i “tamburini” che hanno marciato in continuazione per tutte le strade della città. Mi è sembrata una prestazione molto impegnativa che dimostrava un forte affiatamento dell’intero gruppo, oltre ad una intensa prestazione fisica. Il capobanda e maestro del gruppo ha camminato a ritroso durante l’intera esibizione, rivolto verso il gruppo dei tamburini, un ruolo che richiede una certa destrezza. L'impegno e la maestria che mettevano nella loro prova era pari alla leggerezza e la felicità che si leggeva nei loro volti facendo sembrare il tutto di una facilità disarmante.
Abbiamo capito che anche tutti i cittadini di Colle Val d’Elsa si sentivano coinvolti ed erano orgogliosi di partecipare a questo evento. Si può dire che, in questa occasione la movida della Notte Gialla non è stata fastidiosa, ma ha trascinato anche noi nell'atmosfera che aleggiava nella città.

3° Tappa - Colle val d'Elsa – Siena - km. 39

dislivello positivo m. 673 - dislivello negativo m. 535
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Oggi, domenica 10 settembre, terminerà la prima parte della nostra Via Francigena. La tappa odierna ci porterà a Siena che da sola meriterebbe di dedicare un viaggio. Ma prima della città del Palio visiteremo il magnifico borgo di Monteriggioni. E’ una delle tappe più brevi dell’intero percorso.
Si lascia Colle Val d’Elsa indirizzandoci verso San Marziale dove attraversiamo il fiume Elsa in prossimità delle caldane del “Sentierelsa”. In alternanza tra strade asfaltate e sentieri sterrati si sale per 8 chilometri attraversando le località di Scarna, Strove e Castel Petraio da dove inizia una discesa fino ad Abbadia a Isola, chiamata anche Abazia del lago perché edificata ai margini di terreni paludosi che faceva sembrare la chiesa poggiata su un’isola.
alt Ava, vedova di Ildebrando dei Lambardi, signore di Staggia, aveva fatto costruire “in propriis rebus a fundamentis edificare sanctam aulam in honorem domini et salvatoris nostri Iesu Christi et beate Marie semper virginis et beati Iohannis Evangeliste et beati Benedicti in loco quid dicitur Insula prope Burgo Nova iuxta lacum” Adiacente alla chiesa i Signori di Staggia nel 1001 fondarono il monastero. L’abbazia, dotata di numerosi possedimenti, fu concepita come strumento di consolidamento patrimoniale dalla famiglia fondatrice, realizzando quel connubio, frequente nella società altomedievale, tra monachesimo e nobiltà, tra fede e vita civile Abbadia a Isola è una delle località menzionate da Sigerico nelle sue memorie. La chiesa abbaziale che consiste in una basilica a tre navate è collocata al centro del complesso fortificato di Abbadia a Isola, inserito dai Senesi nel sistema di castelli posti ai confini del contado.
Quando i monaci dell’Abazia iniziarono la bonifica della palude trovarono l’opposizione dei senesi perché l’acquitrino era una protezione naturale contro gli eserciti nemici. La disputa andò avanti fino a quando non si trovò una soluzione che vide la città di Siena acquisire una buona parte della pianura circostante.
Questo piccolo centro abitato è sorto intorno al monastero che da sempre ha svolto un ruolo di accoglienza importante lungo la Via Francigena. Per continuare la sua vocazione storica, dal 2011 è funzionante l’Ospitale dei Santi Cirino e Giacomo gestito da pellegrini-ospitalieri della Confraternita di San Jacopo. Gli ospitalieri, tutti volontari, si specializzano mediante la partecipazione a corsi di accoglienza. Oltre al normale servizio per viaggiatori e turisti è previsto, per i pellegrini che camminano in povertà, un’ospitalità “donativa”, con offerte libere. Il Comune di Monteriggioni, nell’aprile di quest’anno ha inaugurato all’interno dell’Abazia un ostello di 50 posti nell’ala orientale del chiostro.
Ad Abbadia a Isola è funzionante anche un circolo Arci con alcuni locali per il ristoro. Si può dire che la piccola frazione di Abbadia è uno dei luoghi più attrezzati per l’ospitalità lungo la Francigena. Nonostante l’impegno dell’Associazione Europea delle Vie Francigene, l’intero percorso italiano dal Gran San Bernardo a Roma presenta numerose criticità per l’assistenza ai pellegrini, alt specialmente per coloro che lo percorrono a piedi. E’ risaputo, infatti che un normale camminatore non può compiere più di 20 – 25 chilometri giornalieri. Trovare accoglienza e ristoro non è sempre facile. Gli ostelli che offrono un’ospitalità economica sono rari. Difficile, inoltre, è assicurare accoglienza a gruppi di pellegrini senza un’opportuna ricerca e una indispensabile prenotazione. Specialmente nel tratto toscano e laziale la Francigena attraversa località ad alta densità turistica e, in alcuni periodi dell’anno, diventa difficile trovare alloggio anche per un singolo viaggiatore.
Dopo la sosta e la visita all’Abazia prendiamo la Strada di Valmaggiore da dove si scorge in lontananza il profilo di Monteriggioni che, per la sua conformazione, rappresenta uno dei più caratteristici borghi della Toscana. Monteriggioni sorge sul monte Ala in posizione di dominio e sorveglianza della strada che conduce a Siena. Fu edificata ad opera della Repubblica di Siena ed ebbe principalmente scopo difensivo soprattutto nei confronti della città rivale di Firenze. alt Per molto tempo la fortezza è stata oggetto di contese tra i senesi e i fiorentini per il suo possesso, con alterne vicende. Negli ultimi anni Monteriggioni ha assunto una grande rilevanza turistica essendo stata inserita all'interno del percorso della Via Francigena dal Consiglio D'Europa, fa quindi parte degli Itinerari Culturali italiani. Il vecchio borgo è circondato da una muratura circolare dotata di 12 torri difensive. Dopo un lungo periodo di abbandono la struttura muraria è stata ristrutturata negli anni venti del XXI secolo. La porta principale è Porta Franca, ma alcuni di noi hanno scelto di affrontare la ripida salita verso Porta Fiorentina. Anche Monteriggioni meritava una sosta per godere di un tipico ambiente medievale, rimasto inalterato da secoli. Mediante appositi camminamenti aperti al pubblico è stato possibile passeggiare lungo le mura da dove si ammira un ampio panorama con vaste distese di vigneti e oliveti e dove si ha una visione generale del piccolo borgo. Per confermare la vocazione turistica di questo territorio, all’interno delle mura (oltre all’ostello di Abbadia a Isola) il Comune gestiste un ostello con 60 posti. Monteriggioni è una delle poche località che possiede un apposito ufficio al servizio dei camminatori.
Dopo la discesa da Monteriggioni si percorre per circa un chilometro la via Cassia per poi prendere una strada sterrata verso Bracciano. Si prosegue tra boschi e radure panoramiche verso Siena con un percorso ondulatorio. La strada dell’Uccellatorio ci porta ai 330 metri di altezza e dopo alcuni sali-scendi si attraversa la piccola frazione de La Villa. Proseguendo su strade secondarie, in gran parte sterrate, si arriva alla Strada del Pian del Lago che ricorda la presenza di un lago, anch’esso prosciugato.
Siamo in prossimità di Siena, sulla salita di Casciano già si vedono le costruzioni della periferia. La salita di Marciano ci porta ai 367 metri di altitudine, altezza massima di giornata. Al termine della salita inizia il Viale Cavour fino alla Porta Camollia. Noi prendiamo la discesa di Vicobello per arrivare alla Stazione di Siena dove salutiamo i compagni di viaggio che non proseguono per Roma.
Ogni distacco è sempre un po' malinconico, ma la speranza dei cicloturisti è sempre quella di rivedersi in qualche altro cammino. Domani alcuni di noi proseguiranno fino a Roma con altre 6 tappe alla scoperta di nuovi panorami lungo la Val d’Orcia toscana e la Tuscia laziale. Un territorio che ha fatto la storia degli Etruschi e dei Romani. Luoghi con altri panorami e una natura varia che fanno parte della nostra Bell’Italia.
Siamo arrivati a Siena abbastanza presto e, dopo aver preso possesso della stanza di albergo, trascorro il pomeriggio con una visita al centro storico di Siena con destinazione obbligatoria: Piazza del Campo. Durante la passeggiata per il centro di Siena ho incontrato un corteo di sbandieratori della Contrada dell'Aquila che festeggiavano la ricorrenza della loro patrona: il SS. Nome di Maria. Sbandieratori e tamburini seguiti da uno stuolo di contradaioli, tutti con indosso il vessillo della Contrada.
Ho concluso la serata con una buona cena in attesa di ripartire per il secondo tratto della Francigena. Non potevo mancare alla destinazione finale: Roma, la città che mi ha visto trascorrere i miei primi 35 anni.

LE TAPPE della Via Francigena

Seconda parte: Siena - Roma

4° Tappa - Siena - San Quirico d'Orcia - km. 53,5

dislivello positivo m. 728 - dislivello negativo m. 586
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Il ritrovo alla Stazione di Siena era previsto per le ore 10.00. Dopo le inevitabili operazioni di preparazione si parte abbastanza puntuali. Non è possibile attraversare il centro storico di Siena in bicicletta e, pertanto, niente Piazza del Campo! Gli amici di “Viaggiareinbici” hanno scelto un percorso alternativo che costeggia la linea ferroviaria e ci porta alla salita del Linaiolo per imboccare la Strada di Certosa, lasciata la quale ci dirigiamo verso Isola d’Arbia, situata tra i torrenti Arbia e Tressa. Poco dopo transitiamo per Ponte a Tressa e proseguiamo sul crinale delle colline percorrendo sentieri sterrati, passando vicino ad una delle fattorie fortificate del senese: Grancia di Cuna che fu costruita per essere utilizzata come centro di raccolta dei prodotti agricoli per lo Spedale di Santa Maria della Scala di Siena, uno di punti più importanti di accoglienza e assistenza della Via Francigena
alt Dopo la discesa di Quinciano seguiamo la Val d’Arbia lungo una strada sterrata costeggiando la ferrovia Siena-Buonconvento. Si transita ai margini delle “Crete Senesi” rappresentate da dolci colline interrotte da fenomeni erosivi come le “biancane” e i “calanchi”. Il nome “Crete” deriva dall’argilla che affiora dal terreno caratterizzando l’intero paesaggio. Sono colline con casali meravigliosi il più delle volte costeggiati da filari di cipressi che danno vita a panorami ampi e suggestivi. Colline che cambiano colore in funzione della stagione. I campi di grano passano dal verde primaverile al giallo dell’estate. Dopo l’aratura assumono il colore bruno (la famosa “terra di Siena”), nella stagione invernale, con l’umidità della pioggia, si dipingono di grigio chiaro. La rara vegetazione è punteggiata di querce, cipressi e pioppi che, isolati formano piccoli boschetti. La Via Francigena a sud di Siena incrocia in più punti sia il circuito dell’"Eroica”, sia quello delle “Strade Bianche”. Buonconvento rappresenta il punto d’incontro dei due percorsi.
Proseguendo per la Val d’Arbia, superiamo il fiume a Ponte d’Arbia e, sempre seguendo il corso del fiume percorrendo un tratto della Cassia, si arriva a Buonconvento dove ci fermiamo per il pranzo. Buonconvento si trova alla confluenza del torrente Arbia con il fiume Ombrone. Qui il mattone rosso è prevalente: nella solida cinta muraria, nelle chiese, nei palazzi, nelle torri. Il centro storico di Buonconvento è una vera e propria opera d’arte e come tale viene preservato con grande cura. Come molti altre località toscane fa parte dei “Borghi più belli d’Italia”.
alt L'imperatore del Sacro Romano Impero, Enrico VII di Lussemburgo, morì a Buonconvento, ma qualcuno dice che invece fu avvelenato nel vicino castello di Serravalle (ma è più una leggenda, perché non ci sono prove dell’avvelenamento). Enrico VII, conosciuto come Arrigo cercava di mediare tra le fazioni dei guelfi e ghibellini, facendo auspicare a Dante Alighieri una possibilità di pace che consentisse la fine delle dispute intestine tra i piccoli potentati italiani e che avrebbe favorito l’unificazione sotto un’unica bandiera. Una speranza andata già delusa con Federico II di Svevia e che non si sarebbe concretizzata per molti secoli.
Dopo il pranzo e una pedalata all’interno e intorno alle mura di Buonconvento si riprende il cammino per attraversare uno dei punti più panoramici della Val d’Orcia. Si prende la Strada del Brunello e, dopo circa due chilometri inizia una strada sterrata ben compatta (il percorso tipico delle “Strade Bianche”). In un tratto molto ondulato costeggiamo vari Poderi ed aziende Agricole. Incontriamo il Castello di Tricerchi, il Centro Turistico “Altesino” e l’Agriturismo “Caparzo” con un magnifico viale di cipressi. Dopo alcuni chilometri in un panorama stupendo troviamo un cartello con ‘indicazione “L’Eroica”, stiamo pedalando in un tratto in comune con il famoso circuito ciclistico. Si prosegue per Torreneri circondati dai vigneti del Brunello di Montalcino, il cui borgo ci sovrasta in lontananza.
alt All’ingresso di Torreneri troviamo un punto di sosta con una fontana. Alcune targhe ricordano il passaggio del monaco Sigerico che, nel suo diario lo descrive con il nome di “Turreiner” perché all’epoca era presente una torre, chiamata torre nera. Una delle targhe riporta una poesia che parla un po' di questa storia. Ci fermiamo per una breve sosta in un locale vicino all’Antica Posta dei Cavalli e riprendiamo il cammino senza prendere la Cassia, ma percorrendo la strada provinciale. Dopo alcuni chilometri lasciamo l’asfalto per la Strada di Riguardo che porta nel centro storico di San Quirico d’Orcia con un’ultima salita molto impegnativa. Alcuni hanno accorciato il percorso girando per Via Santa Caterina, che porta direttamente all’Hotel Palazzolo. E’ inutile dire che anche San Quirico d’Orcia rappresenta un magnifico borgo simile a tante altre località turistiche toscane. Un borgo medievale con una importante cinta muraria ben conservata e diverse attrazioni storiche e religiose. E’ ricco di strade con finestre e balconi decorati e carichi di fiori. All’interno delle mura Francesco I dei Medici aveva realizzato dei magnifici giardini all’italiana, donati poi a Diomedi Leoni. Gli “Horti Leonini” erano, e lo sono ancora, giardini liberi, cioè chiunque poteva e può entrare, passeggiare, stare all’ombra di un albero per riposare o meditare. In tempi recenti attiguo agli Horti è stato realizzato il “Giardino delle Rose”.
Numerose sono le opere d'arte che si trovano a San Quirico, tra cui la Collegiata con tre magnifici portali d’ingresso. All’interno della collegiata sono custoditi interessanti capolavori di artisti diversi. Nella chiesa della Madonna di Vitaleta, detta anche di San Francesco, si conserva la Madonna Annunciata, terracotta policroma invetriata (specialità della famiglia Della Robbia) attribuita ad Andrea Della Robbia. La terracotta è stata traslata nel 1870 dalla cappella rurale di Vitaleta che si trova in aperta campagna sulle colline della Val d’Orcia, nelle vicinanze di San Quirico.
alt San Quirico d’Orcia è una di quelle località lungo la Francigena che possiede ostelli per un alloggio economico e spartano. Noi cicloturisti di “Viaggiareinbici” pur avendo lo spirito sportivo, abbiamo l’esigenza di ogni turista moderno, preferendo un alloggio più confortevole. Le nostre tappe terminano in un comodo albergo. L’età media dei partecipanti è oltre i cinquant’anni, con diversi che hanno superato la soglia della pensione. Non si ha più l’età per una vacanza austera o avventurosa. Le guide, ci garantiscono la massima assistenza durante il percorso, ma sono attenti anche all’alloggio scegliendo la migliore soluzione nel rapporto prezzo-beneficio. L’Hotel Palazzolo, oltre ad offrire una ottima sistemazione possiede una piscina con vista sulla Val d’Orcia. Per il pomeriggio c’è da scegliere tra una passeggiata nel borgo e una nuotata in piscina. Io approfitto, senz’altro, per una camminata in uno dei più bei borghi della Toscana. La serata si conclude per tutti con un’ottima cena nel ristorante dell’albergo.

5° Tappa - San Quirico d'Orcia - Abbadia San Salvatore - km. 40

dislivello positivo m. 1103 - dislivello negativo m. 670
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Oggi, martedì 12 settembre, come quelle precedenti è una bella giornata assolata. Quest’anno l’estate è particolarmente afosa, ci accompagna una temperatura calda che in bicicletta non percepisco. Il piacere di pedalare e il panorama che ci circonda non mi fanno avvertire il fastidio del caldo eccessivo.
San Quirico si trova al centro della Val d’Orcia che oggi continueremo a percorrere in un tratto caratterizzato dalla scarsità di centri abitati. La quarta tappa mantiene le caratteristiche di quella precedente con un ampio panorama che va dal picco di Radicofani al Monte Amiata. Le poche località che incontreremo saranno, però, delle vere “chicche”.
Lasciato l’albergo prendiamo la strada sterrata per Ripa d’Orcia che dopo circa 3 chilometri abbandoniamo per dirigerci verso uno dei più bei borghi toscani: Vignoni. Il vecchio borgo, completamente ristrutturato, sembra disabitato, ma proprio per questo ha un maggior fascino. La mancanza di modernità (con la totale assenza di auto parcheggiate) porta il visitatore a immergersi in un ambiente da favola. Un piccolo villaggio che lascia soddisfatti, consentendo di vivere in un’atmosfera d’altri tempi, come se si stesse in un set cinematografico.
alt All’ingresso dell’abitato ci accoglie una torre mozzata con un ampio piano inclinato e un redondone (o cordolo) un bell’esempio di architettura turrita. La torre faceva parte dell’antico castello del XI° secolo. E’ perfettamente intatta anche una delle antiche porte di accesso di ciò che resta del muro di cinta, accanto alla chiesa di San Biagio. Oltre alla perfetta conservazione del borgo, la caratteristica principale di Vignoni sono le sue dimensioni minime, una piccola bomboniera. Un esempio di medioevo in epoca moderna. Dopo la meraviglia di Vignoni riprendiamo il percorso in discesa per 4 chilometri per arrivare ad un’altra bellezza della Val d’Orcia, però molto più conosciuta.
Bagno Vignoni ci accoglie con la sua “Piazza delle sorgenti”, un altro angolo esclusivo di questo territorio. Attorno alla vasca si affacciano gli edifici rinascimentali ed il bel loggiato di Santa Caterina da Siena, che conferiscono alla piazza una grande eleganza. Nell’ampia vasca rettangolare, di origine cinquecentesca, sgorga una sorgente di acqua termale. Le acque della vasca si dirigono verso la scarpata del “Parco naturale dei Mulini” dove un tempo erano attivi quattro mulini scavati nella roccia che funzionavano tutto l’anno con le acque perenni della sorgente. Un'opera di ingegneria idraulica molto complessa ed unica nel suo genere. Si ritiene che siano stati realizzati nel XII secolo e restarono in attività fino alla metà degli anni '50 del secolo XX, quando iniziò l’abbandono e il successivo degrado, fino all'acquisizione nel 1999 da parte del Comune di San Quirico d'Orcia, che sulle antiche rovine ha realizzato il “Parco dei Mulini” con un percorso che si inoltra in un'isola di macchia mediterranea.
alt Bagno Vignoni è, oggi, un importante e frequentato centro turistico conosciuto nel mondo. I numerosi alberghi esistenti sono tutti dotati di centro termale che regalano momenti di relax e benessere, dove è anche possibile effettuare bagni di fango, idromassaggi, inalazioni, nebulizzazioni, aerosol ed altre cure termali. Il borgo è di origine medievale, ma le acque termali furono usate già in epoca romana, come testimoniano diversi reperti archeologici.
La bellezza del posto ci ha indotto ad una sosta prolungata, dopo la quale ci tuffiamo in discesa verso il greto del fiume Orcia che attraversiamo percorrendo un breve tratto della via Cassia che lasciamo subito per salire verso Castiglione d’Orcia, che già in lontananza svetta con la sua Rocca Aldobrandesca edificata per il controllo della valle, ormai fortemente diroccata. Prima dell’abitato di Castiglione deviamo sulla Strada del Pozzo, una carrozzabile sterrata ma ben compatta, dove in 8 chilometri incontriamo rare case coloniche isolate e una fontana per il rifornimento di acqua presso l’agriturismo “Antonio”. ”. Lungo la Strada del Pozzo il panorama spazia su l'intero corso del fiume Orcia, da lontano vediamo le sagome di Radicofani e del Monte Amiata, che ci accompagnano per l’intera tappa odierna. alt Arrivati alla frazione di Gallina si riprende ancora una volta la Via Cassia per circa 2 chilometri poi per deviare sulla Cassia bis, del tutto priva di traffico. Le guide di “Vaggiareinbici” hanno dovuto trovare un percorso alternativo per l’indisponibilità di alloggi, sia a Radicofani sia a Proceno. Si è scelto di deviare verso Abbadia San Salvatore, una località turistica alle falde del Monte Amiata.
Dalla Cassia bis inizia una lunga salita che da 300 metri di altitudine in 7 km ci porta agli 810 metri di Campiglia d’Orcia dove ci fermiamo per il pranzo. Campiglia, come tutto il territorio del Monte Amiata è conosciuta per i castagneti che la circonda e per la “Festa del Marrone” che si tiene ogni anno ad ottobre. Una targa apposta su un muretto di Campiglia ci ricorda che la Val d'Orcia è stata inserita il 2 luglio 2004 nel "Patrimonio Mondiale dell'UNESCO".
Dopo Campiglia d’Orcia la Strada Provinciale del Monte Amiata prosegue in salita per altri 5 km fino ai 952 metri di Montieri da dove si scende leggermente agli 860 metri di Abbadia San Salvatore. Il paese prende il nome dall'abbazia benedettina, fondata nel 743 dal re longobardo Rachis, di cui oggi rimangono solo la chiesa e la cripta ora officiata dai cistercensi. I monaci del San Salvatore ebbero un ruolo fondamentale per tutta la Val d’Orcia che, dopo il regno dei Longobardi, fu inquadrata nel sacro Romano Impero. Successivamente passò sotto il controllo della Repubblica di Siena che, non esercitò un controllo convinto sul territorio che divenne area di brigantaggio e rifugio di fuorilegge. Famose furono le gesta del brigante Ghino di Tacco, decretando il declino definitivo della via Francigena nella Val d’Orcia e nella vicina valle del Paglia.
Per un lungo periodo il borgo visse di un’economia agricola molto stentata. Una notevole svolta si ebbe solo agli inizi del XX secolo quando cominciò in tutta l'area lo sfruttamento minerario del cinabro e della raffinazione dello stesso in mercurio. Abbadia San Salvatore divenne rapidamente un ricco centro minerario e industriale, vedendo un repentino miglioramento della qualità della vita dei suoi abitanti che a partire dal 1900 disponevano già di energia elettrica, telefono e servizio idrico.
Negli anni settanta le miniere di mercurio videro un inesorabile lento declino, in parte causato dalla concorrenza internazionale e in parte dovuto alla sempre più scarsa e ridotta applicazione del minerale a livello industriale, rendendone così sempre meno conveniente l'estrazione. Questo ha portato la società mineraria alla chiusura definitiva, ponendo così fine alla parentesi industriale di Abbadia San Salvatore, che da allora vive un lento e costante decremento demografico. Del passato minerario dell'Amiata, rimane oggi ad Abbadia San Salvatore il “Parco del Museo Minerario”, oltre ai ruderi delle vecchie miniere.
alt Con la chiusura delle miniere è iniziato per il comune un lento ma continuo sviluppo del turismo, trasformandosi in uno dei centri maggiormente ricettivi del Monte Amiata. Sono stati realizzati impianti sciistici alle pendici del monte, ma la drastica carenza di neve degli ultimi anni provocherà, inevitabilmente, il passaggio dall’archeologia industriale del mercurio, all’archeologia sportiva degli impianti da sci.
Arriviamo all’Hotel Giardino abbastanza presto e Paolo ci fa una proposta inaspettata: “per chi lo desidera fra un’ora si parte per il Monte Amiata”. Molte volte ho attraversato queste zone ed ho sempre visto da lontano il caratteristico profilo dell'Amiata, il cui ricordo mi è rimasto impresso nella mente fin dai banchi di scuola durante le lezioni di geografia. E’ una montagna visibile dalla Maremma alla Tuscia, anche a grande distanza. Lasciando la città di Roma verso nord appare subito la sagoma di questa montagna isolata. Ho sempre desiderato di salire, prima o poi, su questo mitico monte, oggi non posso farmi sfuggire questa occasione. Prendo possesso della camera, sistemo i bagagli e mi preparo per affrontare il Monte Amiata.

5 bis - Abbadia San Salvatore - Monte Amiata - km. 13

dislivello positivo m. 840 - dislivello negativo m. 23
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Un’ora di tempo è stata sufficiente per ricaricare le batterie delle e-bike. Un piccolo gruppo si presenta per la salita al Monte Amiata. Uscendo dalla cittadina passiamo di fronte all’ingresso del Parco Museo Minerario, poco dopo incontriamo i resti degli impianti della miniera che rappresentano una vera archeologia industriale che, si spera vengano lasciati ai posteri quale testimonianza di un passato recente. Non tutti gli stabilimenti dismessi sono degni di conservazione ma alcuni, come queste miniere di mercurio, hanno un’importanza storica da valorizzare. Sarebbe bene che simili esempi rimangano come documentazione della società industriale del XIX e XX secolo. Un giorno avranno lo stesso richiamo delle antichità romane. In 13 chilometri di salita si passa dagli 848 metri di altitudine di Abbadia ai 1670 di Pianello, il piccolo centro turistico alla cima dell’Amiata. L'origine del toponimo Amiata deriverebbe dal latino “ad meata”, ossia «alle sorgenti». La presenza dei Longobardi farebbe propendere per il riferimento alla parola “heimet”: Piccola patria. Vi si trovano le sorgenti ricchissime di acque da cui nascono i fiumi: Fiora, Vivo, Albegna e Paglia. L'Amiata era la terra sacra per gli Etruschi, dove dimorava la loro divinità più importante: Tinia (Giove per i romani). E’ un rilievo isolato, al centro della Tuscia, circondato da vaste pianure che, in condizioni ambientali favorevoli è visibile da grandi distanze. Si dice che sarebbe visibile anche dalla lontana Sardegna e dal massiccio del Gran Sasso.
Tra queste contrade anche oggi si ricorda l'avventura mistica e rivoluzionaria di David Lazzaretti, chiamato il “profeta dell'Amiata”, che si immolò nel 1878 per il riscatto religioso e sociale della propria gente, avversando le ingiustizie del mondo e il declino del clero romano. Fondò un vero e proprio movimento religioso, il “Giurisdavidismo”, che conta ancora oggi un limitato gruppo di adepti. La saga di David lazzaretti è stata raccontata dal cantautore, attore e regista Simone Cristicchi che, dopo aver dedicato la sua prima storia teatrale ai minatori dell’Amiata, ha portato in giro per l’Italia la sua seconda rappresentazione “Il secondo figlio di Dio. Vita, morte miracoli di Davide Lazzaretti” facendo conoscere quella comunità basata sull’uguaglianza, la solidarietà e la giustizia, fermamene contrastata dalle autorità ecclesiastiche. “Una storia che se non te la raccontano, non la sai. La storia di un’idea, la storia di un sogno” dice Cristicchi. Un’utopia inseguita dal predicatore eretico che terminò con una tragedia durante una processione verso i santuari di Arcidosso e Castelpiano che fu interrotta dalla forza pubblica che sparando sulla folla colpì a morte quattro persone tra cui il profeta dell’Amiata. alt
Nella stagione invernale anche sul Monte Amiata sono funzionanti impianti di sci che, come succede in quasi tutte le zone dell’Appennino, negli ultimi tempi sta risentendo della sempre più scarsa presenza delle nevicate. Subito dopo l’abitato di Abbadia San Salvatore inizia un fitto bosco. Pedaliamo fino alla cima sotto l’ombra della vegetazione compatta che (non conoscendo le diverse specie) ho letto che si tratta prevalentemente di Castagni nella parte più bassa della montagna e di Faggi, dai 1000 ai 1700 metri di altitudine. Oltre al faggio e al castagno, sono presenti anche popolamenti di origine artificiale di Abete Bianco e Pino nero. La produzione della castagna del Monte Amiata è stata riconosciuta con l’Indicazione Geografica Protetta (I.G.P.).
Prima di arrivare alla vetta dell’Amiata transitiamo vicino la stazione a valle degli impianti sciistici che tra non molto, inevitabilmente, diventeranno ferrivecchi arrugginiti. Dopo alcuni tornanti raggiungiamo il piazzale di Pianello a 1670 metri di altitudine. A questa altezza l’aria si è fatta frizzante, per il grande interesse e la fretta di salire sulla vetta non mi sono vestito adeguatamente e comincio a sentirmi un po' a disagio. Intorno alla rotonda del piazzale ci sono diversi alberghi e luoghi di ristoro, in attesa che arrivino gli altri compagni di scalata ne approfitto per prendere qualcosa di caldo. Anche il piazzale di Pianello è circondato da alberi che impediscono la vista del panorama. Passeggio nel piazzale in maniera un po' distratta e non mi accorgo dei cartelli che segnalano ben chiaramente che la vetta si trova a 1730 metri a circa 300 metri di distanza. Sarebbe stata una breve e piacevole passeggiata che mi avrebbe consentito di vedere, oltre a un magnifico panorama, anche la grandiosa croce del Monte Amiata.
Fu realizzata in occasione del giubileo del 1900 su indicazione del Papa Leone XII che suggerì di innalzare, sulle cime di alcune montagne sparse per l’Italia, venti croci che celebrassero la Redenzione, una per ogni secolo. La croce in ferro battuto, alta 22 metri rispecchiava la tendenza Belle Époque, con vari elementi di stile fiorito. Per le difficoltà di costruzione, di trasporto e montaggio, la croce fu terminata nel 1910. Durante la seconda guerra mondiale la croce dell’Amiata subì lo stesso triste destino di altri monumenti. Fu distrutta da un bombardamento dei tedeschi in ritirata, ma successivamente ricostruita per iniziativa di un apposito comitato formato da cittadini della zona, dai sindaci e dal clero e fu inaugurata il 24 agosto del 1946 da Papa Pio XII, attraverso un impulso radio che accese alcune lampadine collocate sulla croce.
La distrazione e la superficialità mi hanno impedito di apprezzare una delle bellezze del territorio, ma questo significa che dovrò ritornare sul Monte Amiata che mi ha sempre incuriosito, ma adesso sono rimasto con il rimpianto di non aver visto né il panorama, né la croce in ferro che dalle foto sembra un magnifico monumento.
alt Per non correre il rischio che la temperatura si rinfreschi ancor di più, decido di riprendere senza indugio la discesa, prima che il sole tramonti, percorrendola senza forzare non tanto per prudenza, ma per non raffreddarmi ulteriormente. Prendere una bronchite a tre giorni dalla conclusione del cammino sarebbe una disdetta. Per tenere in caldo almeno le gambe durante la discesa pedalo il più velocemente possibile, ma pedalo in senso contrario. Riesco a compiere i 13 chilometri di discesa senza subire infreddature, ma con tanta voglia di fare una lunga doccia calda.
Dopo l’escursione sull’Amiata non c’è tempo, né voglia di passeggiare per il paese. La serata termina con una buona cena al ristorante dell’albergo.

6° Tappa - Abbadia San Salvatore - Bolsena- km. 61

dislivello positivo m. 703 - dislivello negativo m. 1242
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Con la sorpresa fattaci da Paolo e l’inaspettata salita al Monte Amiata ci siamo ripresi dalla delusione di non aver affrontato la salita di Radicofani.
Alla solita ora la mattina del 13 settembre siamo tutti pronti nel garage dell’albergo per riprendere le nostre bici e partire per la nuova tappa. Dopo aver attraversata la Toscana da nord a sud, con cinque tappe meravigliose e tutte interessanti, oggi lasciamo la regione di Dante, Giotto, Michelangelo, Macchiavelli, Leonardo, Galileo (e mi fermo qui…) per entrare nella terra che ha visto l’origine dell’Impero Romano a cui ha fatto seguito la Roma dei Papi. Per me già solo questo aspetto storico dà il significato alla “nostra” Via Francigena, considero questo tratto della Via Francigena come il simbolo di tutti i cammini d'Italia. Ci vorrebbero pagine e pagine per descrivere quello che rappresenta l’ultimo (ma può essere considerato anche il primo) segmento della Via Francigena di Sigerico. Storia, arte, cultura: gran parte dell’Italia è concentrata in queste due regioni.
alt Attraversiamo l’abitato di Abbadia S. Salvatore e prendiamo la Strada del Monte Amiata verso Piancastagnaio. La strada è circondata da boschi di castagno, che danno nome al paese, la cui Sagra, chiamata il “Crastatone”, si tiene ogni anno il 31 ottobre. Lasciamo alle nostre spalle la sagoma del Monte Amiata che ci accompagnerà a distanza per quasi l’intera tappa. Passiamo dagli 842 metri di Abbadia ai 780 metri di Piancastagnaio fermandoci di fronte alla porta principale della Rocca Aldobrandesca. Le nostre guide ci concedono un po' di tempo per fare un rapido giro all’interno del centro storico. Varcata la porta ci inoltriamo negli stretti vicoli del borgo che portano nella parte bassa del paese. Le strade del centro storico sono ancora imbandierate con gli stendardi del Palio che si tiene ogni anno il 18 agosto con la partecipazione delle quattro Contrade: Borgo, Stretto, Voltaia e Castello che si contengono il “cencio”. Dopo la sfilata dei rappresentanti delle Contrade nei costumi medievali, il Palio di si svolge allo stadio comunale con i fantini che corrono “a pelo” su cavalli senza sella. Anche Piancastagnaio è terra di minatori dove era in funzione quella che fu la prima miniera di cinabro dell’Amiata, la Miniera del Siele, ubicata all’interno della Riserva Naturale del Pigelletto. A testimonianza di ciò oggi è stato ricostruito un Villaggio Minerario aperto al pubblico, mentre di fronte alla Rocca è stato realizzato un monumento al minatore con i suoi strumenti di lavoro.
Dopo la sosta e il giro per i vicoli del borgo, riprendiamo il nostro percorso. All’uscita di Piancastagnaio inizia una lunga e ripida discesa da dove si spazia per tutta la Valle del fiume Paglia. Da lontano si può ammirare l’inconfondibile profilo di Radicofani e del suo castello. Al termine della discesa attraversiamo il confine tra la Toscana e il Lazio per arrivare a Proceno dominato dal Castello medievale, che svetta tra i tetti delle case costruite con i tipici mattoni di tufo. Altre volte con “Viaggiareinbici” abbiamo fatto tappa a Proceno e alloggiato nell’albergo diffuso del Castello di proprietà della famiglia Cecchini, all’interno del quale è stato realizzato un museo visitabile su prenotazione. E’ stato ricostruito un tipico ambiente castellano con gli attrezzi e gli strumenti dell’epoca per il lavoro quotidiano e per il passatempo. Non mancano le armi antiche: pistole, moschetti e balestre. Il ceppo del boia con l’ascia testimonia il potere che il “signore” aveva sul territorio. La torre centrale, il Mastio, è protetto da un ponte levatoio perché all’interno del castello tutto era finalizzato alla tutela e difesa degli abitanti.
L’indisponibilità dell’albergo ha costretto gli organizzatori a modificare il percorso deviando per Abbadia S. Salvatore. Proceno è un tipico borgo medievale, ma ha origini etrusche e si racconta che sia stata fondata da re Porsenna nel VI secolo a.c. Sulla piazza principale di fronte al Comune di Proceno, c’è il cinquecentesco Palazzo Sforza costruito dal cardinale Guido Ascanio Sforza. Numerosi sono gli edifici medievali che offrono al visitatore il fascino particolare del borgo antico.
alt Si racconta che Galileo Galilei, ormai vecchio e malato, nel 1633 trovò ospitalità presso la Rocca quando dovette andare a Roma per sottoporsi al processo per le sue teorie copernicane. Durante il viaggio fu costretto ad una sosta per la quarantena imposta dalle autorità a causa di un’epidemia di peste, ma è più probabile che la sua lettiga fu fermata presso la dogana al confine con lo Stato Pontificio. Nella vicina località di Centeno l’edificio della Dogana Pontificia è ancora esistente, mentre l’antica stazione di posta ospita ora un ristorante dove una targa commemorativa ricorda il soggiorno del grande scienziato, nella cui iscrizione si legge: “In Memoria / di Galileo Galilei/ (1564-1642)/ rinnovatore della scienza / che obbligato dalla inquisizione a presentarsi a Roma, / dovette soggiornare in questo umile luogo / “i giorni della sua contumacia e quarantena”/ dal 23 gennaio al 10 febbraio 1633 / a causa della epidemia di peste presente in Toscana”.

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La condanna, l'abiura e la riabilitazione

Durante gli interrogatori di fronte al Sant’Uffizio, Galileo cercò di difendersi dall’accusa di aver avvalorato la teoria eliocentrica copernicana nella sua opera “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”. Nello spiegare le sue teorie, che erano state interpretate in contrasto con la teologia, Galileo ammette che la Sacra Scrittura non può mai mentire o ingannare, ma aggiunge subito che possono essere in errore i suoi interpreti o espositori in vari modi, il più grave dei quali è quando essi si fermano al puro significato letterale di essa. Data la necessità di una interpretazione più autentica della Bibbia, afferma lo scienziato, “mi pare nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie”. Galileo, cioè, formula quel principio dell’autonomia dello studio della natura che diverrà uno dei cardini della ricerca scientifica moderna. E’ universalmente considerato l’inventore del “metodo scientifico” basato sulla sperimentazione.
Galileo fu obbligato a vestire il sanbenito (l’abito di penitenza), è condotto al convento domenicano di S. Maria sopra Minerva dove i cardinali e gli officiali del S. Uffizio sono riuniti in seduta plenaria. Ordinatogli di mettersi in ginocchio, ha inizio la lettura della sentenza di condanna. Il Sant’Uffizio fu irremovibile, gli fu proibita la stampa della sua opera, con la pena del carcere e la recita settimanale per tre anni dei sette salmi penitenziali. A Galileo non resta che obbedire e, sempre in ginocchio, legge la formula di abiura che gli è presentata: “Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel Convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633. Io Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria”.
La condanna le fu alleviata a causa delle sue condizioni fisiche, ma soprattutto per l’intervento dell’Ambasciatore di Toscana Niccolini, che riuscì a convincere il Papa a riservare allo scienziato un trattamento più clemente. A seguito di tale concessione Galileo per alcuni mesi fu agli arresti domiciliari nel Palazzo dell’Ambasciatore a Trinità dei Monti. Successivamente Urbano VIII gli permise di trasferirsi a Siena nella casa dell’Arcivescovo Ascanio Piccolomini. Nonostante che Galileo era ormai famoso in tutta Europa, conosciuto come fisico, matematico, astronomo ed essendo filosofo primario del Granduca di Toscana, godeva pubblicamente la fiducia e l’appoggio dei Medici, ciò nonostante i travagli e gli spostamenti dello scienziato non erano finiti, perché poco tempo dopo il Papa, in seguito ad una lettera anonima, per mettere fine alle dotte discussioni scientifiche che Galileo continuava a tenere con l’Arcivescovo, gli ordinò di ritirarsi nella sua villa di Arcetri vicino Firenze, con l’obbligo di ricevere soltanto le visite autorizzare dei familiari. Tuttavia, la Chiesa ammetteva da tempo che un condannato o un penitente potesse passare la sua pena ad altri, nel caso fossero disposti ad attuarla al suo posto. Fu la figlia Maria Celesta, suora di clausura, che si incaricò di recitare i salmi penitenziali in nome del padre.


«E pur si muove!»

Sono le parole che innumerevoli autori dei secoli successivi, nel ricostruire la vicenda del processo, affermano che Galileo avrebbe esclamato subito dopo la sua forzata abiura dell'eliocentrismo. In realtà non esistono testimonianze dirette che Galileo abbia mai pronunciato questa frase. Non dobbiamo stupirci perché la storia è piena di leggende e di episodi tramandati per “sentito dire”.
Ci sono voluti 350 anni per la riabilitazione di Galileo da parte della Chiesa Cattolica. Il 10 novembre 1979 papa Giovanni Paolo II autorizza la istituzione di un’apposita Commissione di studio (la “Pontificia Accademia delle Scienze”) affinché venga approfondito da “teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, ….. nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano” per rimuovere “le diffidenze che quel caso tuttora frappone, nella mente di molti, alla fruttuosa concordia tra scienza e fede”. Dopo oltre 11 anni dall’inizio dei lavori e 359 anni dopo la condanna di Galileo, nella relazione finale della commissione di studio datata 31 ottobre 1992, il cardinale Poupard scrive che la condanna del 1633 “fu ingiusta”, per un’indebita commistione di teologia e cosmologia pseudo-scientifica, e arretrata, anche se viene giustificata dal fatto che Galileo sosteneva una teoria radicalmente rivoluzionaria senza fornire adeguate prove scientifiche sufficienti a permettere l’approvazione delle sue tesi da parte della Chiesa.
Insomma: assolto, ma con qualche sua colpa..…
Nell’approvare la relazione della Pontificia Accademia, interessante è anche il pensiero di papa Vojtyla quando sostiene che la scienza nuova, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi suppongono, obbligava i teologi a interrogarsi sui loro criteri di interpretazione della Scrittura. La maggior parte non seppe farlo, dice il papa. In avvenire, non si potrà non tener conto delle conclusioni della Commissione. Il pastore deve mostrarsi pronto a un’autentica audacia, evitando il duplice scoglio dell’atteggiamento incerto e del giudizio affrettato, potendo l’uno e l’altro fare molto male. Il pontefice, ricordando che Galileo Galilei è stato il padre della fisica moderna, ha anche affermato che è necessario lo sviluppo armonioso della scienza e della fede, esprimendo che così come la religione esige libertà religiosa, la scienza esige libertà di ricerca. Certuni, preoccupati di difendere la fede, pensarono che si dovessero rigettare conclusioni storiche seriamente fondate. Fu quella una decisione affrettata e infelice. È un dovere per i teologi tenersi regolarmente informati sulle acquisizioni scientifiche per esaminare, all’occorrenza, se è il caso o meno di tenerne conto nella loro riflessione o di operare delle revisioni nel loro insegnamento. Nella condanna alle teorie galileiane la maggioranza dei teologi non percepiva la distinzione formale tra la Sacra Scrittura e la sua interpretazione, il che li condusse a trasporre indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto appartenente alla ricerca scientifica. Giovanni Paolo II afferma, inoltre, che la saggezza e lo stesso rispetto della Parola divina avevano già guidato sant’Agostino a scrivere: “Se a una ragione evidentissima e sicura si cercasse di contrapporre l’autorità delle Sacre Scritture, chi fa questo non comprende e oppone alla verità non il senso genuino delle Scritture, che non è riuscito a penetrare, ma il proprio pensiero, vale a dire non ciò che ha trovato nelle Scritture, ma ciò che ha trovato in sé stesso, come se fosse in esse.” Esistono due campi del sapere, quello che ha la sua fonte nella Rivelazione e quello che la ragione può scoprire con le sole sue forze. A quest’ultimo appartengono le scienze sperimentali e la filosofia. Secondo il papa la distinzione tra i due campi del sapere non deve essere intesa come una opposizione. I due settori non sono del tutto estranei l’uno all’altro, ma hanno punti di incontro. Le metodologie proprie di ciascuno permettono di mettere in evidenza aspetti diversi della realtà. La serietà dell’informazione scientifica sarà così il miglior contributo che l’Accademia potrà apportare all’esatta formulazione e alla soluzione degli assillanti problemi ai quali la Chiesa, in virtù della sua specifica missione, ha il dovere di prestare attenzione: problemi che non concernono più soltanto l’astronomia, la fisica e la matematica, ma ugualmente discipline relativamente nuove come la biologia e la biogenetica. Molte scoperte scientifiche recenti e le loro possibili applicazioni hanno un’incidenza più che mai diretta sull’uomo stesso, sul suo pensiero e la sua azione, al punto da sembrar minacciare i fondamenti stessi dell’umano. Ma si osserva – continua il pontefice - che lo sviluppo non è uniforme e rettilineo, e che il progresso non è sempre armonioso. Ciò rende palese il disordine che segna la condizione umana. L’uomo di scienza, che prende coscienza di questo duplice sviluppo e ne tiene conto, contribuisce al ristabilimento dell’armonia. Chi si impegna nella ricerca scientifica e tecnica ammette come presupposto del suo itinerario che il mondo non è un caos, ma un “cosmos”, ossia che c’è un ordine e ci sono delle leggi naturali, che si lasciano apprendere e pensare, e che hanno pertanto una certa affinità con lo spirito.
Come chiaramente affermato dalla massima autorità della Chiesa: “In avvenire, non si potrà non tener conto delle conclusioni della Commissione ..... La religione esige libertà religiosa, la scienza esige libertà di ricerca ...... La distinzione tra i due campi del sapere non deve essere intesa come una opposizione.” Per quanto riguarda l’abiura fatta dallo scienziato alle sue idee, diverse sono state le interpretazioni nel corso della storia. A prescindere dalle critiche o dall’approvazione per aver rinnegato le sue tesi scientifiche, rimane il fatto che Galilei poteva permettersi di pensare: “io ho firmato il documento, sono salvo e posso proseguire i miei studi, però la verità da me sostenuta continua ad essere vera: la Terra continua a muoversi con o senza di me!

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Dopo una breve sosta nel borgo di Proceno proseguiamo scendendo verso il corso del Paglia e costeggiando il fiume saliamo ad Acquapendente percorrendo un breve tratto della via Cassia. Acquapendente deve il suo nome al fatto di essere situata nei pressi di numerose piccole cascatelle che confluiscono nel fiume. Con la donazione dei beni di Matilde di Canossa al papa, Acquapendente entrò a far parte dello Stato della Chiesa. alt
Ci fermiamo sulla piazza del municipio con al centro una imponente statua che raffigura Girolamo Fabrici, medico, anatomista e fisiologo. Dopo la sosta per il pranzo si prosegue per le strade del centro arrivando alla Cattedrale chiamata del Santo Sepolcro perché vi è conservata quella che viene considerata la più antica copia del Sepolcro di Gerusalemme che risale al X secolo. All’interno è custodita una pietra, che si dice portata fin lì dai crociati e bagnata dal sangue di Cristo. Per questo Acquapendente viene chiamata la “Gerusalemme d’Europa” e ancora oggi è un’importante tappa del pellegrinaggio lungo la via Francigena.
All’interno della chiesa vengono conservati ogni anno i “Pugnaloni” che sono mosaici composti da fiori e foglie. Le diverse associazioni operanti nella città realizzano queste strutture in legno per la Festa dei Pugnaloni che si effettua nella terza domenica di maggio e che rimangono esposte nella chiesa fino all’anno successivo. È una delle più antiche celebrazioni folcloristiche della Tuscia e in origine era anche chiamata festa di Mezzomaggio.
La Tuscia era il territorio abitato dai Tusci (ovvero gli Etruschi). Comprende in gran parte il territorio dell’Etruria e si estende su 3 regioni: Toscana (Tuscia longobarda), Umbria (Tuscia ducale) e Lazio (Tuscia romana. La Tuscia ha una storia millenaria ed è segnata dalla presenza del tufo e del peperino delle rupi sulle quali vennero costruiti castelli, paesi e fortezze. Le colline e i monti che coprono la Tuscia sono formate da vulcani spenti e i loro crateri sono diventati laghi: Trasimeno, Bolsena, Vico, Bracciano, Martignano. La Tuscia Langobardorum venne separata dal cuneo costituito dal “Corridoio Bizantino”, un territorio che consentiva, non sempre agevolmente, il collegamento dell’Esarcato tra Roma e Ravena. Il Corridoio, che si estendeva totalmente all’interno dei ducati longobardi, era difeso da numerose fortezze bizantine come Todi, Amelia ed Orte oltre a diverse “Castra” tra cui Bomarzo, Sutri e Blera. La Tuscia fu teatro delle dispute tra i Longobardi e i Carolingi con il prevalere di questi ultimi che, convertiti al cristianesimo divennero i difensori dello Stato della Chiesa.
La caratteristica principale della Tuscia è data dal suo paesaggio e dal suo aspetto del colore bruno della roccia tufacea, macchiato sesso dal grigio peperino. I centri storici disseminati lungo il territorio hanno conformazioni architettoniche simili, che vanno dal medievale al rinascimentale, conservatesi nei secoli.
Tuscia era il nome latino della terra abitata dagli Etruschi da cui deriva la regione Toscana, che corrisponde geograficamente alla Tuscia Langobardorum, che venne separata dalla Tuscia Ducale (ducato di Spoleto) dal “Corridoio Bizantino”, mentre a sud la Tuscia Romana costituì il primo nucleo del Patrimonio di San Pietro, diventato successivamente lo Stato della Chiesa.
Riprendiamo il nostro cammino e dopo circa un chilometro lungo la via Cassia, deviamo sulla provinciale di Lutinano. Percorrendo strade secondarie si arriva a S. Lorenzo Nuovo, un piccolo centro agricolo attraversato dalla Cassia. Il paese è una vera e propria terrazza sul Lago di Bolsena. Il nome deriva dallo spostamento degli abitanti dal vecchio centro di San Lorenzo alle Grotte situato nei pressi del lago in posizione poco salubre a causa della malaria e delle continue frane del terreno. Anche questo territorio nel XI secolo apparteneva alla Contessa Matilde di Canossa, ma alla sua morte passò direttamente sotto il controllo della Chiesa. Durante il Risorgimento, nel 1867, sul vicino Monte Landro si scontrarono i garibaldini con le truppe pontificie durante il tentativo fatto da Garibaldi di suscitare una rivolta a Roma. Il tentativo dei garibaldini iniziò con un primo successo contro le truppe papaline nella battaglia di Monterotondo, combattuta il 25 ottobre 1867. Successivamente, il 3 novembre, con l’intervento delle truppe francesi di Napoleone III, l’esercito pontifico riportava una definitiva vittoria nella battaglia di Mentana, per merito soprattutto del nuovo fucile Chassepot modello 1866 a retrocarica, mentre l’armamento dei volontari garibaldini era costituito per due terzi da fucili ad avancarica e per un terzo, addirittura, da moschetti a pietra focaia. A dimostrazione che le speranze di Garibaldi di una rivolta nella città di Roma erano molto deboli, basterebbe ricordare che quando i vincitori rientrarono in Roma per la sfilata trionfale, la folla li acclamò al grido di «Viva la Francia».
Mentana sancì l’allontanamento di Napoleone III dalle simpatie del movimento nazionale italiano, ma Garibaldi dimenticò il ruolo avuto dai francesi nella causa di Roma e intervenne con i suoi volontari a loro difesa nel corso della guerra franco-prussiana. Raggiunta la Francia nell'ottobre del 1870, ottenne nella battaglia di Digione uno dei rari successi nella campagna in difesa della neonata Repubblica francese contro i prussiani. L’esito della guerra franco-prussiana vide la fine del regno di Napoleone III e consentì a Vittorio Emanuele II di Savoia di chiudere definitivamente la “questione romana” con la breccia di Porta Pia segnando, dopo 15 secoli, la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale dei papi.
altLasciando San Lorenzo Nuovo percorriamo per circa un chilometro la via Cassia ed entriamo in un sentiero che ci porta in un bosco di roverelle. Il percorso si svolge nel versante sud del Monte Landro e ci porta ad uscire allo scoperto con una magnifica vista sul lago. . Il percorso si svolge nel versante sud del Monte Landro e ci porta ad uscire allo scoperto con una magnifica vista sul lago. Costeggiamo una delle numerose cave di pozzolana dal colore bruno tipico dei territori di origine vulcanica. Mediante un sentiero panoramico arriviamo a Bolsena in prossimità della Rocca Monaldeschi della Cervara. Scendendo per via Guglielmo Marconi arriviamo in Piazza Matteotti e ci indirizziamo verso il nostro albergo, le Naiadi Park, che si trova sul lungolago.
Sistemate le nostre bici e fatta una doccia rigenerante è d’obbligo una passeggiata per ammirare un’altra cittadina importante per la sua storia, per i suoi monumenti e il suo panorama. Le vie del centro storico offrono un’esperienza unica ai visitatori con una suggestiva atmosfera medievale.
Bolsena, di origine etrusca, fu ben presto sottomessa a Roma. Ebbe un grande sviluppo grazie all’apertura della via Cassia da parte dei romani intorno al 170 a.c. Sviluppo che durò anche durante il medioevo e il rinascimento. La famiglia Monaldeschi dominò la città fino al 1451 con la morte del conte Corrado che, non lasciando eredi, consentì il ritorno della città sotto il diretto controllo della Chiesa. Alla fine del XV secolo fu governatore di Bolsena il cardinale Giovanni dei Medici, il futuro Leone X.
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Lo sviluppo di Bolsena (ma il discorso varrebbe per tutte le località dislogate lungo la Via Cassia) è strettamente legato alla strada costruita dai romani che aveva favorito la mobilità e soprattutto i suoi commerci, ma nell’Alto Medioevo fu proprio la consolare a decretarne in un certo senso la rovina, esponendola a varie scorrerie di eserciti barbarici. Infatti le piccole signorie locali, per meglio difendere il proprio territorio trascuravano ogni tipo di manutenzione fino a mandare in disuso le grandi arterie.
Uno dei momenti più significativi nella storia di Bolsena è sicuramente il Miracolo di Bolsena, che avvenne nel 1263. Secondo la leggenda, durante la celebrazione dell’Eucaristia nella chiesa di Santa Cristina, dall’ostia consacrata sgorgò sangue umano. Questo evento miracoloso attirò l’attenzione di papa Urbano IV, che decretò la festa del Corpus Domini in onore del miracolo. Ancora oggi, ogni anno a Bolsena si svolge una processione solenne per celebrare questo incredibile avvenimento. Dopo un'ottima cena al ristorante dell'albergo, la serata termina con un gelato al "Blu Bar."

7° Tappa -Bolsena -Viterbo - km. 33,5

dislivello positivo m. 495 - dislivello negativo m. 541
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Giovedì 14 settembre, lasciamo l’albergo in riva al lago per dirigerci verso la Cassia. Il lago è circondato da colline verdeggianti, con coltivazioni di olivo e vite alternati a piccoli boschi di cerri e roverelle. Il tracciato odierno si svolge interamente all’interno della Tuscia dell’Alto Lazio.
Percorriamo per circa due chilometri la via Cassia per prendere un sentiero sulla sinistra il cui cartello “Via Francigena” si trova a circa 50 metri, nascosto dietro un albero. Il sentiero ci inoltra nel Parco di Turona che prende il nome dal fosso che lo attraversa. Il parco si estende intorno al lago di Bolsena la cui vista appare solo a tratti perché nascosto da una fitta vegetazione. Il bosco è composto di specie arboree diverse che (non essendo esperto) mi limito al piacere di ammirarle senza conoscerne il nome. Numerose sono le pozze d’acqua e le cascatelle sparse nel parco. Attraversiamo il fosso mediante una piccola passerella in legno che ci costringe a scendere dalla bici, ma che rende più suggestivo il guado. Improvvisamente si apre una piccola radura dove c’è un abbeveratoio con una fontana che ci consente di apprezzare una fresca acqua di sorgente. altaltUn cartello ci informa, infatti, che siamo alle sorgenti del Turona da dove parte l’acquedotto di Bolsena. Su un manufatto in muratura, posto di fronte alla fontana, un altro cartello ci rassicura sulla situazione igienica delle acque: “Ipoclorito di sodio –Attenzione corrosivo e irritante” dice il cartello giallo. L’acqua di sorgente è certamente ottima da bere, ma le norme di legge obbligano le aziende che gestiscono gli acquedotti al trattamento delle acque, andando ad intaccare il romanticismo che pervade il viandante di fronte a una sorgente naturale. Durante la sosta riesco a vedere nel sottobosco alcune primule autunnali, approfitto per farne un mazzetto e donarle alle donne che allietano il nostro cammino.
Uscendo dal parco ci troviamo su un pianoro da dove torniamo a vedere il lago di Bolsena con le sue isole. In lontananza vediamo anche la collina di Montefiascone con la cupola della Cattedrale. Al termine del sentiero riprendiamo la Cassia per fare una sosta di fronte alla Chiesa del Corpus Domini, diventata obbligatoria per tutti i camminatori e cicloturisti, dove c’è l’insegna dei 100 Km. Indica la distanza che manca per arrivare alla meta di tutti i “pellegrini”: Roma. Di fianco alla chiesa ritrovo la vecchia custodia con il timbro ed il tampone per tutti coloro che vogliono documentare il percorso, timbrando il loro “testimonium”. La custodia è, però, in cattive condizioni e il suo contenuto è inservibile. Insieme alla scarsa segnaletica stradale, è un altro piccolo particolare che dimostra che la “Via Francigena” è molto lontano dalle peculiarità e dall’organizzazione che offre il “Cammino di Santiago”. E’ un vero peccato che, nonostante l’importanza del turismo in Italia, gli amministratori, gli operatori turistici e tutte le istituzioni preposte non prestino attenzione ad alcune piccole cose che, costando poco, danno una grande immagine del territorio e sono molto apprezzate dai visitatori.
Arriviamo a Montefiascone all’ora di pranzo e, da buoni italiani, non disdegniamo di onorare con un buon piatto di pasta e un sorso di vino. Consumato con tutta calma il nostro pranzo, che termina sempre con una calda tazzina di caffè (in compagnia) ci arrampichiamo sulla collina verso la Cattedrale e la Rocca dei Papi, all’altezza di 640 metri, la massima altezza di giornata. altL’antica cittadina non è diversa da tutti i borghi che stiamo visitando e che visiteremo lungo il nostro percorso. Questo zona è famosa per i suoi vigneti da cui si produce un buon vino. Come quasi tutti i paesi che incontriamo anche Montefiascone ha la sua leggenda che la rende famosa e …..curiosa. Si narra, infatti, che nel 1111 il vescovo Johannes Defuk, che si trovava al seguito di Enrico V di Germania mentre andava a Roma per essere incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero, chiese al suo servo Martino di precederlo lungo il cammino per individuare le taverne con il miglior vino, dandogli la disposizione di segnalarle con la scritta “Est”. Arrivato a Montefiascone, alla prima osteria, trovò il vino talmente buono che gli diede la valutazione massima. Egli ripeté tre volte il segnale stabilito “Est! Est!! Est!!!”, aggiungendo tre punti esclamativi. Il Vescovo apprezzò tanto la bevanda che sulla strada del ritorno decise di fermarsi ancor una volta a Montefiascone. Purtroppo la vicenda non ebbe un esito positivo a causa della bontà del vino che fu consumato in maniera eccessiva dal prelato che si sentì male e morì. Oggi la sua tomba si può ancora vedere presso la chiesa di San Flaviano facilmente riconoscibile dalla seguente iscrizione “Est! Est!! Est!!! Propter nimium est hic Joannes de Fuk dominus meus mortuus est”. Iscrizione voluta al suo fedele servo. Le leggende vanno prese sempre per quelle che sono. Se ci si crede, raccontano anche la verità.
alt Dopo aver goduto di una bella vista dall’alto dei tetti e delle costruzioni all’interno delle mura di cinta, usciamo dalla “Porta del Borgo” percorrendo la Cassia per alcune centinaia di metri e, deviando verso destra, passiamo di fianco al Campo Sportivo e poco dopo affrontiamo una salita con un lungo basolato romano. E’ un tratto della “Cassia Vetus” che si snoda su una collina circondata da piccole ville con oliveti e vigneti. Percorrendo strade sterrate in aperta campagna si transita per le Terme del Bagnaccio. Entriamo a Viterbo dalla Porta Fiorentina per dirigerci verso il nostro albergo “Hotel Tuscia”. Depositate le nostre bike e presi i bagagli, dopo una salutare doccia si esce per una visita alla città Etrusca, Medievale e Rinascimentale.
Il tempo è sempre tiranno, conosco abbastanza bene la città di Viterbo ma sono incuriosito dalla famosa “Macchina di Santa Rosa”, che non ho mai visto. altDi fronte alla Santuario di Santa Rosa si egre una vera e propria macchina. Sopra un baldacchino la statua della Madonna viene portata a spalla da un centinaio di “Facchini di Santa Rosa” per le strade del centro di Viterbo lungo un percorso di oltre un chilometro. La struttura, che appare come una torre, è alta 30 metri e pesa circa 50 quintali. La "macchina" viene rinnovata ogni cinque anni attraverso un pubblico appalto che stabilisce le misure minime. Negli ultimi tempi è stata abbandonata la vecchia cartapesta e vengono impiegati materiali altamente tecnologici: fibre, leghe leggeri, e sorgenti luminose. Il “Trasporto della macchina di Santa Rosa” fa parte del Patrimonio Immateriale dell’UNESCO insieme ad altre “Feste della rete delle Macchine a spalla”: i gigli di Nola, la Varia di Palmi, la Varadda dei Candelieri di Sassari. La manifestazione di Viterbo si tiene ogni anno il 3 settembre. Santa Rosa da Viterbo entrò giovanissima nel terz’ordine francescano e prese una forte posizione in difesa del pontefice nella lotta tra Guelfi e Ghibellini, contro Federico II. In un tempo in cui imperversavano aspre lotte tra le opposte fazioni, fu mandata in esilio dal podestà di Viterbo. Rientrò dopo la morte dell’Imperatore Federico del quale aveva predetto la fine. Rosa, di salute cagionevole, morì giovanissima a soli 18 anni. La casa di famiglia, non lontano dal Santuario, oggi è parte del Monastero delle Clarisse di Santa Rosa, l’ordine in cui lei voleva entrare ma non le fu consentito. E’ meta di pellegrinaggi lungo la Via Francigena e vi è stato realizzato un museo che racconta la vita della santa, diventata patrona di Viterbo.
La sera si va tutti insieme a cenare presso una trattoria del centro storico, la passeggiata ci conferma che Viterbo è proprio una bella cittadina, ogni volta la trovo sempre più interessante.

8° Tappa - Viterbo - Campagnano Romano - km. 66

dislivello positivo m. 806 - dislivello negativo m. 856
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Anche oggi la giornata ci offre un bel cielo sereno e una buona temperatura. Siamo nel pieno della Tuscia laziale di cui Viterbo è la citta principe, con la sua arte e la sua storia. E’ chiamata la città dei Papi perché qui sono accaduti eventi importanti per la Chiesa. Lasciamo l’albergo passando per Piazza Martiri d’Ungheria di fronte alla rupe del quartiere medievale di San Pellegrino e del Palazzo dei Papi. alt Quel palazzo dove si tenne il primo Conclave della storia, un “claus com clave” (chiusi a chiave) che costrinse i cardinali a nominare il successore di Clemente IV. I cardinali, divisi tra parte filofrancese (guelfa) e parte filotedesca (ghibellina), ma anche divisi da forti interessi familiari e personali, non riuscivano a trovare l’accordo, tanto che questo primo conclave durò dal 1268 fino al 1271. La curia papale si era ritirata a Viterbo perché la città di Roma era caduta nelle mani della parte ghibellina, fedele agli imperatori della famiglia “Hohenstaufen”, discendenti di Federico II. Infatti Corradino di Svevia, dopo la morte di suo zio Manfredi rimase l’ultimo erede della famiglia e successore dell’imperatore, accolto in un primo tempo vincitore dai cittadini di Roma, si scontrò con le forze angioine filo-papali in una battaglia decisiva a Tagliacozzo. Fu sconfitto, fatto prigioniero, processato e condannato a morte il 29 ottobre 1268. Con la fine di Corradino si concluse l’idea di Federico di formare un regno d’Italia dalle Alpi alla Sicilia. Dall’esito di questa vicenda lo Stato della Chiesa si rafforzò, ma le forti divergenti perdurarono e la guerra, terminata sul campo a favore degli angioini, continuò tra i cardinali riuniti a Viterbo. La nomina di un Papa a quei tempi aveva un’importanza anche socio-politica, c’era un forte intreccio tra le questioni di fede e quelle civili, rilevanti erano le interferenze dei re e degli imperatori. Le lungaggini che si stavano verificando a Viterbo suscitarono l’esasperazione del popolo. Su iniziativa del Podestà e del Capitano del Popolo furono tentate tutte le pressioni possibili per costringere i cardinali ad una scelta, fino a ridurre drasticamente il vitto e addirittura a scoperchiare il tetto della sala. Dopo 1006 giorni di sede vacante, finalmente (con l’ispirazione dello spirito santo) fu scelta la figura del cardinale Tedaldo Visconti che divenne Papa con il nome di Gregorio X. Da allora la scelta dei pontefici fu effettuata sempre in Conclave cercando di evitare ogni interferenza esterna. Dal 1942 i Conclavi si sono tenuti nella Cappella Sistina in Vaticano.
Da Piazza Martiri d’Ungheria scendiamo per Valle Faul. Uscendo dalla Porta Faul prendiamo la Strada Signorino con le sue alte pareti scavate nel tufo, sormontate da una volta verde formata da piante secolari: la “Tagliata Etrusca”. alt Nell’area centrale dell’Antica Etruria numerose sono le opere ciclopiche scavate nella pietra tufacea che ancora oggi non hanno trovato una spiegazione tra gli studiosi. Non trovando valide spiegazioni si è portati a giustificare tali opere con motivi religiosi relativi a percorsi sacri legati al culto della madre terra o del mondo sotterraneo dell’aldilà. Sarebbe una memoria storica da conservare, ma che invece oltre all’attacco del tempo è soggetta allo scempio operato dall’uomo e dalle pubbliche amministrazioni nell’intento di adeguarle alle necessità del traffico moderno. Percorrendo la Strada Signorino ci si allontana da Viterbo, tramite un sentiero che costeggia la superstrada Umbro-Laziale si esce in aperta campagna e, con percorsi secondari in gran parte sterrati, si arriva a Vetralla. La campagna è formata da orti, oliveti e vigneti, con tratti di bosco e percorsi scoscesi che hanno messo a dura prova tutta la compagnia e le nostre guide.
Vetralla è una città medievale chiamata “Vetus Alia” (luogo antico). Si trova su uno sperone di roccia che le consentiva una facile difesa contro le incursioni nemiche. E’ ubicata in prossimità del Monte Fogliano, nei Monti Cimini e non lontano dal vulcanico Lago di Vico. Vetralla ha orbitato intorno alla più famosa Viterbo con la quale è stata spesso in contrasto. L’Alto Lazio è stata una provincia soggetta allo Stato della Chiesa che per lungo tempo ne ha seguito le sorti. Le famiglie nobili degli Orsini, Farnese, Anguillara, di Vico, Borgia, Medici e tante altre, attraverso mercanteggiamenti, accordi, favori reciproci, lotte e tradimenti si contendevano il predominio sul territorio, e sulla curia papale. Si racconta che Vetralla fu per un periodo di tempo soggetta alla pretesa degli esponenti dello Stato Pontificio ad esigere lo “Jus primae noctis” fin quando la popolazione non si ribellò e la notte dei Vespri del 1493 uccisero l’artefice di tale proposta. Superata Cura di Vetralla entriamo nel Bosco di Fogliano che inizia con una bella scritta posta su alcuni listelli di legno “Il bosco non ha bisogno dell’uomo, è l’uomo che ha bisogno del bosco”. alt All’interno del bosco non percorriamo il sentiero che porta al Monte Fogliano, ma proseguiamo in falsopiano ai piedi del monte e del cratere del Lago di Vico. Terminato il bosco entriamo in un ampio noccioleto di proprietà della Ferrero che ci ricorda la crema spalmabile più conosciuta in Italia e non solo: la Nutella. L’ingresso dei noccioleti è segnato da una staccionata e un piccolo cancello di legno dove, nelle precedenti passeggiate ho avuto occasione di ammirare una bella ceramica con l’immagine del “pellegrino” (simbolo della Via Francigena) ma, oggi rimane solo una pietra di tufo con lo stampo dell’immagine scomparsa. Percorrendo un sentiero circondati da piante di nocciole ben ordinate e curate arriviamo alle Torri d’Orlando nascoste tra la fitta vegetazione. Nelle vicinanze delle torri ho avuto il piacere di vedere una riproduzione della ceramica con l’iscrizione “Capranica – Roma”, credo che sia stata un’iniziativa del comune di ripristinare la vecchia ceramica. Lungo il sentiero che porta alle torri incontriamo un pellegrino che cammina accompagnato da un asinello bianco, assicurato ad una corda. Percorrere oggi la Via Francigena, è senz’altro diverso da come si compiva un tempo, si può ancora percorre per fede, ma è più facile che si faccia per interesse turistico o per passione sportiva. C’è sempre, però, qualcuno che compie il cammino per un ideale o per spirito romantico. Un cammino fatto di fatica, un impegno con sé stessi, una specie di metafora della vita. I pellegrini di un tempo partivano con il bordone (il bastone), la cappasanta (il mantello) e la Bibbia affrontando condizioni veramente difficili. Nel medioevo i pochi che avevano l’ardire di affrontare il viaggio, spesso, prima di partire, facevano testamento. Oggi la situazione è completamente cambiata. Imbattersi con certi personaggi fa sempre piacere, perché il camminatore incontrato rappresentava proprio la tipica figura del pellegrino con cappello a falda larga, il bordone, con l’aggiunta di una nota pastorale. Naturalmente il nostro pellegrino, in piena estate, non indossava la cappasanta. Era contento del suo cammino, lo si capiva dal suo sguardo fiero e sorridente.
alt L’intento dei cicloturisti è diverso da quello di un pellegrino a piedi. Pur non pedalando in maniera affrettata noi consumiamo il nostro itinerario e percorriamo il triplo dei chilometri di un camminatore. Il nostro scopo non è certo quello competitivo, ma rimane pur sempre lo spirito sportivo che ci fa misurare con noi stessi e, nel rispetto dell’intera compagnia, non disdegniamo di impegnarci al massimo.
Dopo i noccioleti di Vetralla si arriva a Capranica che, come tutte le località che stiamo attraversando è di origine etrusca ed è situato in un complesso sistema vulcanico. Il nome originario era Capralica (“Caprae ilex”). Sotto il controllo dello Stato Pontificio fu governata per molto tempo da cardinali-governatori e, seguendo le vicende storiche del periodo, fu convolta nelle dispute tra le famiglie nobili e tra le città vicine. La famiglia più rappresentativa fu quella degli Anguillara che dominò sul borgo per circa tre secoli e partecipò a fianco del papa Urbano III contro Federico II e suo figlio Manfredi. La sua posizione, la salubrità dei luoghi e la bontà delle acque (era chiamata il paese delle acque) rese Capranica celebre e ambita a tutta la corte pontificia.
Entriamo a Capranica dalla porta di Sant’Antonio e proseguendo per corso Francesco Petrarca oltrepassiamo l’arco del Castello degli Anguillara, sormontato dalla Torre dell’Orologio, fermandoci subito dopo in via degli Anguillara alla trattoria da Ciucci dove abbiamo mangiato un’ottima matriciana. Per molto tempo la città è stata legata al nome di una famosa bevanda dissetante. Nel 1949 Pietro Neri vi aprì uno stabilimento per la produzione industriale del “Chinotto Neri”, con il marchio “Chin8” e con il famoso slogan reso famoso da Carosello: “non è chinotto se non c’è l’8”. La produzione di chinotto, un agrume originario della Cina, in Italia avviene principalmente nella provincia di Savona e nei dintorni di Taormina. La scelta di Capranica, per la produzione della bibita, fu presa per sfruttare le qualità dell’acqua minerale di San Rocco che si trova nella sottostante vallata capranichese. Una bevanda prodotta con una ricetta brevettata, derivata dalla pianta di chinotto, dal gusto amaro-acido affiancato da altre essenze ed estratti vegetali. alt Di produzione esclusivamente italiana, assomigliava (ma solo per il colore) a quella più famosa proveniente dagli Stati Uniti, alla quale doveva fare concorrenza. Ma un piccolo industriale italiano, con un piccolo stabilimento nella piccola vallata di Capranica, non poteva certo tener testa ad un colosso multinazionale. Con il tempo il Chinotto Neri, schiacciato dalle leggi di mercato, non riuscì a prendere un suo spazio, soffocato dalla potenza della multinazionale fu costretto ad una ristrutturazione aziendale che ha visto il trasferimento della produzione in provincia di Salerno, decretandone un lieve rilancio. Si sa che il pesce grosso tenta sempre di mangiare il pesce piccolo, ma per me il “Chin8 Neri” rimane sempre la migliore bevanda dissetante in circolazione. Per mantenere sempre vivo il ricordo e il sapore del chinotto, nel mio giardino cresce una pianta di quell’agrume “amaricante” con i cui frutti non produco nessuna bibita, ma confeziono marmellate per fare ottime colazioni e cominciare bene la giornata. Dopo la sosta per il pranzo, scendiamo da via Romana e prendiamo la strada Pogliere passando vicino allo stabilimento dismesso della “Mineralneri” con una certa nostalgia nei confronti del mio “chin8”. Il tratto iniziale della strada Pogliere si presenta in ripida salita che mette a dura prova le nostre gambe, anche se alcuni di noi, favoriti dalle e-bike, riescono in qualche modo a superare il 15-20% di pendenza. La strada si inerpica all’interno di una tagliata di tufo simile alla Strada Signorino di Viterbo, anche se meno imponente. Proseguendo per Via di Crognano, una strada secondaria completamente priva di traffico, si ritorna sulla Via Cassia in prossimità di Sutri. Transitiamo sotto il rilievo di tufo sovrastato dal vecchio abitato di origine etrusca. Con la dominazione Longobarda la città di Sutri fu oggetto della famosa “Donazione di Sutri”, fatta nel 728 dal re Liutprando al papa Gregorio II (per la verità la donazione era stata fatta ai santi Pietro e Paolo). Tale donazione viene considerata l’origine del potere temporale della Chiesa. Sutri si trovava lungo la Via Amerina che transitava per Todi, Amelia, Orte e attraversando l’Umbria arrivava fino al Piceno, mettendo in collegamento l’Esarcato, da Roma fino a Ravenna. La donazione fu lungamente contestata, ma è inconfutabile il fatto che essendo venuto meno il ruolo dell’Impero e dell’Esarca di Ravenna su questi territori, i pontefici siano subentrati nel ruolo istituzionale con il riconoscimento di fatto del loro potere. La contestata “Donazione di Sutri” fu preceduta da un altro fatto storico ritenuto “falso”: la Donazione di Costantino della città di Roma alla Chiesa di papa Silvestro I. Oltre alle dubbie donazioni occorre considerare che l’Imperatore d’Oriente, il bizantino Maurizio, costituendo l’Esarcato con capitale Ravenna, aveva concesso all’Esarca il titolo di “patricius Romanorum” con la custodia della “sede di Pietro”, creando, quindi, i presupposti per la formazione del potere temporale della Chiesa di Roma. L’Esarcato era formato da diversi ducati tra cui il “Ducato Romano.” Con il progressivo disimpegno degli imperatori bizantini nei confronti di Roma, i pontefici si trovarono ad esercitare il ruolo di unica autorità operante all’interno del Patrimonio di San Pietro, cioè della città di Roma e del Lazio. Le cosiddette donazioni non furono altro che il riconoscimento formale dello Stato della Chiesa, che i pontefici già esercitavano da diverso tempo, ma con la formazione del Sacro Romano Impero di Carlo Magno, la protezione esercitata dai Longobardi e dai Bizantini fu sostituita con quella dei Franchi. Insomma, il papato non aveva un esercito ma, con un'attenta politica di alleanze, trovava sempre un difensore. Esercitando il prestigio derivante dal ruolo di capo della Chiesa, tutti i pontefici sono riusciti gradualmente, con lasciti testamentari e accordi politici, ad estendere il proprio potere temporale dalla città di Roma a gran parte dell’Italia centrale.
alt Tra le tante leggende che vengono narrate è interessante quella che si riferisce a Berta, sorella di Carlo Magno, che dopo essere stata diseredata girovagò esule da queste parti e, fermandosi a Sutri, partorì Orlando che divenne il famoso Paladino di Francia che diede origine alle gesta cavalleresche narrate dalla “Chanson de Roland”. Orlando che con la sua morte nella Battaglia di Roncisvalle, combatté strenuamente con la sua Durlindana e il suo magico corno l’Olifante, sacrificò la propria vita per difendere l’ideale cavalleresco-feudale. Gesta che furono riprese successivamente dai poemi epico-cavallereschi come “L’Orlando innamorato” di Matteo Maria Boiardo e “L’Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto.
Una leggenda nella leggenda narra che Orlando per evitare che la sua magica spada non cadesse in mani nemiche tentò di spezzare la Durlindana su un grande masso che oggi si trova a Roma in “Vicolo della Spada” a poca distanza dal Pantheon. Un’altra leggenda, forse più credibile, dice che la spada esisterebbe ancora a Rocamadour, in Francia, incastrata in una parete di roccia.
Al di là dei falsi storici e delle leggende a Sutri oggi possiamo ammirare il vecchio borgo medievale inerpicato sullo sperone tufaceo della collina, oltre all’anfiteatro romano, alla necropoli etrusca e al mitreo dedicato al dio pagano Mitra, successivamente trasformato in una chiesa cristiana intestata alla Madonna del Parto. Non avendo troppo tempo a disposizione ci limitiamo ad una sosta presso l’Anfiteatro Romano. Riprendiamo la nostra pedalata percorrendo la Cassia per un chilometro e deviare a destra verso la Strada Vallicella che ci porta al Centro Tecnico Federale del Golf dove si susseguono ampi campi da golf con splendidi tappeti erbosi. Per Via Sutri Vecchia arriviamo a Monterosi costeggiando il piccolo lago vulcanico che, coperto dalla vegetazione non riusciamo a vedere. Il lago di Monterosi è un lago vulcanico avventizio, cioè è un cratere periferico posizionato all'interno del cratere più ampio dei Monti Sabatini, insieme ai Laghi di Bracciano e di Martignano. Superato il piccolo centro di Monterosi, aggiriamo il raccordo stradale della Cassia e dopo poche centinaia di metri prendiamo Via della Salivotta per dirigerci verso il Parco Regionale Valle del Treja dove troviamo le Cascate del Monte Gelato. La denominazione di cascate potrebbe deludere i visitatori perché il fiume Treja forma piccoli salti d’acqua e grandi pozze, niente che faccia pensare a vere e proprie casate. Una folta vegetazione rende il paesaggio molto suggestivo tanto da attirare l’attenzione di molti registi cinematografici e fotografi che trovano lo spunto per ambientare le loro opere. Fino a poco tempo fa funzionava un antico mulino con una mola medievale di cui, oggi, rimangono dei ruderi e una torre.
alt Mancano 7 km a Campagnano che raggiungiamo attraverso una strada sterrata circondata dal verde. Lasciamo il Parco del Treja per entrare nel Parco Regionale di Vejo che attraverseremo tutto fino alle porte di Roma. In altri momenti, percorrendo questo tratto di sentiero che porta a Campagnano ho udito il rombo delle auto da corsa che provavano nell’Autodromo di Vallelunga, poco distante, nascosta da una piccola collina. Per entrare nell’abitato di Campagnano Romano, anch’esso situato sopra una collina tufacea, si deve superare una delle poche salite ripide della Via Francigena, un tratto di poche centinaia di metri al 15 – 16 per cento. La difficoltà di superare questo tratto viene aumentata dal fatto che, presi dalla frenesia, ci si accalca tutti lungo la stretta salita ostacolandoci a vicenda. Chi riesce a superare lo strappo senza mettere i piedi a terra entra trionfante nelle strette strade di Campagnano. Per il Corso Vittorio Emanuele, attraversando Porta Romana si arriva in Piazza Regina Elena dove si trova il nostro albergo.
Campagnano è stata legata nel tempo alle sorti della città etrusca di Vejo che conquistata dai romani diventa municipio e con la costruzione della consolare via Cassia diventa un centro di interesse militare, politico e commerciale. Oggi si presenta come una città rinascimentale-barocca, dovuto all’influenza delle famiglie Colonna, Orsini e Chigi potenti mercanti, appaltatori di dogane e tesorieri del papa, che si sono contesi il territorio. Dire che stiamo attraversando la “Terra dei Papi” è un dato di fatto. Non per niente la nostra destinazione, che vale anche per chi percorre la Francigena senza spirito di fede, è la Tomba di San Pietro.

9° Tappa – Campagnano Romano - Roma km. 47

Oggi percorreremo l’ultima tappa che ci porterà a Roma con 47 chilometri attraverso la Tuscia laziale, avendo compiuto complessivamente 460 chilometri dopo 9 giorni di cammino dal nord della Toscana: dall’Arno al Tevere. Transiteremo all’intero del Parco Regionale di Vejo ed entreremo nell’agro romano nel bacino del biondo fiume. Pedaleremo sulla ciclabile del Tevere fino a Piazza San Pietro.
Quando rientro nella mia città di adozione mi pervade sempre una certa trepidazione. Non si possono dimenticare 35 anni vissuti nella “città eterna”. L’atmosfera magica di Roma si comincia a vivere anche dalla lontana periferia. Campagnano, come tutti borghi della provincia, gravitano intorno alla capitale e ci si sente già alle sue porte.
Come sempre alle 9.00 ci riuniamo all’ingresso dell’albergo, tutti pronti con le nostre bike. Lasciamo l’abitato di Campagnano prendendo una strada in salita che aggira il Monte Razzano per dirigerci verso la Valle del Sorbo che, sopra ad una collina dietro una fitta vegetazione si nasconde il Santuario della Madonna del Sorbo. Per la terza volta attraverso questa valle senza vedere il Santuario. Oggi c’è ancora meno tempo da dedicare ai particolari paesaggistici, si deve arrivare in tempo per consentire ai cicloturisti di prendere il treno o la “navetta” per tornare a casa. Il santuario di origine medievale è costituito dal Monastero e dalla Chiesa con all’interno alcune opere di Carlo Fontana. Meriterebbe una visita e, pertanto, mi propongo di dedicare un’apposita gita per conoscere meglio questa parte del Lazio che conosco poco. Percorrere la Valle del Sorbo ci dona un fascino particolare, è un ambiente assolutamente naturale, lontano dai rumori e dal caos della vita moderna pur essendo a pochi chilometri dalla metropoli. Nei piccoli spazi che si aprono dentro il bosco si possono incontrare animali al pascolo libero che convivono tranquillamente con i tanti vacanzieri della domenica. La Valle si sviluppa all’interno del cratere del Sorbo ed è attraversata dal fiume Cremera e dalle acque del Fosso della Mola, che prende il nome da un vecchio mulino. Siamo nel cuore del Parco di Vejo nella parte, forse, di più alto valore naturalistico e ambientale. Anche questa zona viene ricordata per essere stata il set cinematografico di alcuni film spaghetti-western.
alt Proseguendo per Via del Sorbo si arriva al bivio per Formello, ma noi giriamo per Via Grottefranca e Via della Focaraccia che ci porta ad incrociare la Cassia. Entriamo nel Prato della Corte nelle vicinanze dell’Area Archeologica di Vejo, uno degli ultimi siti etruschi che, naturalmente, non abbiamo il tempo di visitare, ma che mi prometto di tornarci al più presto. Le vicende storiche di Roma e degli Etruschi sono in gran parte leggendarie, pochi sono i documenti storici tramandati, ma tra i due popoli certamente il motivo degli scontri verteva sul controllo del Tevere. Prima della fondazione di Roma il Tevere era diviso tra i Latini e Vejo. I Latini arroccati sulle alture dei Colli Albani, erano stanziati sulla sponda sinistra del fiume, mentre Vejo controllava la riva destra (la riva veiente). Già il primo re di Roma Romolo dovette difendere la città contro le pretese degli Etruschi, una disputa che durerà per molto tempi con alterne vicende da una parte e dall’altra. In ogni caso si deve dire che gli ultimi re di Roma furono tutti di origine etrusca: Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo che fu destituito per proclamare la Repubblica. Vejo è stata un’acerrima nemica anche della Roma repubblicana il cui conflitto è durato per diversi secoli prima della vittoria definitiva ad opera di Furio Camillio, che fu considerato il secondo fondatore di Roma.
Usciamo dal Parco Regionale di Vejo prendendo Via della Giustiniana che ci porta verso Prima Porta, dve prendiamo la Flaminia fino a Labaro. In prossimità dello svincolo del Gran Raccordo Anulare, vicino al Centro RAI di Saxa Rubra, inizia la ciclabile del Tevere. La ciclabile si snoda lungo il fiume in una zona dove sono ubicati diversi centri sportivi: campi di calcio e tennis, piscine e piste ippiche, oltre a diversi circoli canottieri. Un percorso panoramico che va dalle rive del fiume alle colline della periferia romana, ma non sempre la pista si trova in buone condizioni a causa delle erbe infestanti che ostruiscono il passaggio. Oggi ho trovato la ciclabile molto meglio di altre volte. E’ una struttura che dovrebbe essere un fiore all’occhiello per la città nell’offrire una buona accoglienza ai turisti, oltre che un buon sevizio agli sportivi romani. Superato l’ippodromo di Tor di Quinto e gli impianti dell’Acqua Acetosa, sull’altra riva si erge la collina di Villa Glori.
Siamo finalmente a Roma e, come succedeva a tanti viandanti e ai tanti eserciti che rientravano nella città eterna dopo qualche battaglia, anche noi passiamo per lo storico Ponte Miglio. E’ uno dei primi ponti costruito dai romani che si ricorda per i numerosi eventi del passato. Dalla Battaglia di Costantino con la famosa apparizione “in hoc signo vinces” all’abbattimento delle arcate fatta da Garibaldi, durante la Repubblica Romana, per ostacolare l’ingresso delle truppe francesi di Napoleone III. Il passaggio sul ponte fu ripristinato da Pio IX l’anno successivo con l’aggiunta di una statua dell’Immacolata. Ponte Miglio era famoso anche per le alluvioni che provocava a causa dei suoi archi troppo bassi. Veniva chiamato anche Ponte Mollo e quando il Tevere era in piena l’acqua che non riusciva a defluire usciva dagli argini e arrivava fino a Piazza del Popolo. Del resto il Tevere è un fiume a carattere torrentizio, passa facilmente dalle secche estive allo scorrere impetuoso delle sue acque invernali. Attualmente il ponte è chiuso al traffico ed è un luogo di intrattenimento e di manifestazioni.
Naturalmente ci siamo fermati in prossimità del ponte per una foto ricordo. Percorrere gran parte della città fino al centro storico, senza traffico né semafori è seducente per qualunque romano. Da ex romano mi sono goduto l’intera passeggiata lungo la banchina in sella alla bici fino a Ponte Vittorio. All’altezza del Foro Italico si cominciano a vedere anche i barconi sul fiume che sono case galleggianti utilizzate, in passato, dai “Fiumaroli” che vivevano sulle sponde del Tevere facendo i pescatori. Molti erano i fiumaroli fino a quando l’acqua del fiume era pulita e non era ancora inquinata, oggi sono pochi gli appassionati che continuano a pescare. alt alt Sul Tevere operavano anche i “Barcaioli” che, quando non c’erano i ponti traghettavano le persone da una sponda all’altra. Ultimamente il fiume è frequentato soprattutto da canottieri e canoisti che si allenano lungo il fiume con le loro imbarcazioni sportive. Il “fiumarolo” più famoso di Roma è stato senz’altro “er Ciriola” (l’anguilla) che vanta oltre 160 salvataggi di persone in difficoltà nel fiume, con i relativi riconoscimenti onorifici. Un vecchio cittadino italo-belga (Rick De Sonay nato a Roma nel 1899) invece, ha attirato l’attenzione per lungo tempo con i suoi tuffi nel giorno di Capodanno: un perfetto tuffo a volo d’angelo. Dal 1946 “Mister OK” (così lo chiamavano perché ad ogni tuffo alzava il braccio facendo il segno che andava tutto bene!) si è tuffato dal Ponte Cavour subito dopo lo sparo del cannone del Gianicolo, a mezzogiorno. Mister OK ha eseguito puntualmente il suo tuffo ogni anno fino agli anni ’80, ma numerosi sono stati i suoi imitatori a partire dal suo discepolo più fedele: Maurizio Palmulli, che continua la tradizione del tuffo di capodanno.
Superato Ponte Miglio e il Foro Italico, finisce il tratto più naturale e selvaggio del fiume e si entra nella parte urbana con i suoi muraglioni costruiti dopo l’unità d’Italia. Si racconta che fu Garibaldi il maggiore sostenitori dei lavori, del resto l’Eroe dei Due Modi aveva un conto in sospeso con la città dei Papi. Preoccupato, ma soprattutto arrabbiato per le lungaggini parlamentari per l’approvazione delle opere, Garibaldi fece un appassionato discorso ai suoi colleghi deputati per convincere che Roma aveva bisogno di risolvere definitivamente il problema delle inondazioni del Tevere, che avevano afflitto i romani fin dall’antichità. Il suo appassionato intervento ebbe successo, le opere furono approvate dal Parlamento e i lavori, iniziati nel 1876, terminarono ben 50 anni dopo nel 1926. Un’opera gigantesca che, stravolgendo il volto della città, ebbe il merito di risolvere le inondazioni cittadine. Tra gli interventi realizzati nel centro storico per realizzare i muraglioni, i più clamorosi furono l’abbattimento del Porto di Ripetta e quello del Porto di Ripa Grande, che ora rimane nel ricordo dei romani solo nelle foto antiche e nei dipinti di Ettore Roesler Franz. L’intervento servì per ovviare ai disastri nel centro di Roma, ma spostò il problema nelle campagne a monte e a valle e non risolse il problema della strettoia del Ponte Miglio. Negli anni successivi all’ingresso della città furono realizzati sbarramenti sul fiume con bacini e traverse per attenuare l’irruenza delle piene, ma soprattutto lasciando ampi spazi liberi nella campagna romana, mentre a valle fu realizzato il “drizzagno di Spinaceto” per favorire il deflusso delle acque verso la foce.
Percorrendo l’ultimo tratto della ciclabile, sulla banchina del Tevere, abbiamo potuto ammirare alcuni canottieri in allenamento, ma anche un battello che fa servizio da Castel Sant’Angelo all’Isola Tiberina. Purtroppo il corso torrentizio consente la navigazione del fiume solo per alcuni tratti. A Ponte Vittorio Emanuele, dopo 14 chilometri di ciclabile, risaliamo sulla scala del muraglione ed entriamo nel Lungotevere in Sassia dove inizia Via della Conciliazione che ci porta in Piazza S. Petro. La nostra meta è raggiunta e non perdiamo l’occasione per una foto ricordo, ma la destinazione finale si trova a Piazza della Repubblica di fronte alla Stazione Termini, dove ci aspetta Marcello con il furgone.
Senza nulla togliere ai percorsi effettuati in questi nove giorni, la degna conclusione della Via Francigena è l’attraversamento del centro di Roma. Passando per Campo Marzio, sfiorando Piazza Navona, salendo su Via IV Novembre siamo transitati di fronte al Quirinale e proseguendo per Via XX Settembre siamo arrivati a Piazza Esedra e finalmente alla Stazione Termini. E’ un percorso meraviglioso anche se l’affollamento dei turisti nelle piccole strade del centro non rende agevole pedalare con le bici. Alla stazione abbiamo riconsegnato le bici prese a noleggio. Alcuni di noi hanno preso la “navetta” per tornare a Siena e riprendere le loro auto. Altri, come me, si sono recati ai mezzi pubblici per tornare alle loro abitazioni. Io non sono fatto per i convenevoli, saluto (troppo!) affrettatamente i miei compagni di viaggio e mi avvio verso la stazione. La frenesia per le emozioni vissute e il desiderio di tornare a casa mi avevano, inconsapevolmente, messo una certa ansia. Dopo nove giorni di cammino avevo bisogno di “staccare”.
In ogni caso sono stati nove giorni stupefacenti anche per la compagnia che ho avuto e, soprattutto per le nostre guide che, come sempre, hanno dimostrato una professionalità e una competenza eccezionali. Grazie a tutti i cicloturisti. Grazie a Paolo, Danilo e Marcello. Grazie alle nostre guide per la loro professionalità e per la scelta dei percorsi.
Mi sarebbe piaciuto tornare a Roseto degli Abruzzi con la ferrovia Roma-Pescara, ma ho saputo che c’erano interruzioni che obbligavano a diverse trasbordi in pullman. E’ una linea ferroviaria un po' antiquata, ma proprio per questo molto affascinante, che attraversa l’Appennino Centrale transitando in località isolate e vallate incontaminate. Mi dispiace ma sono costretto a prendere l’autolinea regionale che mi porta in Abruzzo tramite l’autostrada Roma-Teramo.
Quando sono sul pullman mi accorgo che per la fretta, ma forse più per l’emozione, questa mattina mi sono dimenticato di azionare l’app di “wikiloc” oggi, quindi, non mi è possibile scaricare la planimetria della tappa. Durante il viaggio nel Pullman ho la possibilità di ripensare all’ennesima scarpinata lungo la Via Francigena che per me resta sempre il simbolo dei “Cammini” storici.


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