“Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Così Bertolt Brecht fa dire a Galileo per giustificare la sua abiura di fronte al Tribunale dell’Inquisizione, ma il suo allievo Andrea Sarti gli risponde “No. Sventurata la terra che non produce eroi!” Io sono senz’altro dalla parte dello scienziato perché, se avesse difeso coraggiosamente le sue idee, il suo eroismo sarebbe stato inutile: con la sua pubblica rinuncia lo scienziato ha potuto continuare in segreto la ricerca scientifica. Se fosse salito sul rogo avrebbe vinto l’inquisizione, mentre in tal modo ha vinto la scienza.
Io aggiungerei che i popoli non avrebbero bisogno nemmeno di campioni e di …santi.
Certamente c’è un abuso nell’uso della parola “eroe”. Forse abbiamo bisogno di eroi, perché vogliamo sognare. Abbiamo sempre bisogno di un fuoriclasse che ci prenda per mano. Se un eroe non nasce siamo sempre pronti ad inventarlo. Una volta la fantasia della gente (la “vox populi”) inventava credenze, favole e leggende fino a venerare la santità di personaggi popolari senza il riconoscimento delle autorità religiose, tanto che la Chiesa Cattolica è stata costretta a “declassare” molte figure di santi che non avevano i requisiti previsti dal diritto canonico. In altre religioni non ci sono santi e intermediari, ma solo un rapporto diretto con Dio. Oggi, nel mondo del consumismo, il culto viene indirizzato preferibilmente al mito del campione o ai divi dello spettacolo, in nome dello sport e dell'arte. Si organizzano festival, mostre, campionati e tornei di ogni tipo con forme sempre più grandiose. Con l’utilizzo di mezzi tecnologici moderni si è tornati a quello che il poeta latino Giovenale chiamava "Panem et Circenses".
Ho sempre rifiutato ogni forma di retorica e mi sono sempre chiesto se fosse migliore una società che venera i suoi eroi. Quando la figura dell’eroe nasce spontaneamente si crea una forma di fanatismo che, in quanto tale è nocivo a qualunque società, spesso viene creata ad arte per incantare qualche ingenuo o per manovrare le masse. Intorno a queste figure simbolo ci sono veri e propri progetti speculativi che prevedono anche grandi investimenti finanziari. Se esaminiamo il corso della storia possiamo verificare che non ci sono mai state persone integre da essere veramente di esempio per tutti. Sarà un luogo comune, ma è pur sempre vero che "la perfezione non è di questo mondo". Per me i veri “eroi” sono le persone comuni che si impegnano ad affrontare le difficoltà quotidiane con serietà e onestà e a garantire una vita serena alla propria famiglia. Non credo al mito del talento e del genio.
Nonostante questa mia convinzione anch’io, però, ho i miei “punti di riferimento”. Tra i personaggi che hanno lasciato un retaggio positivo nella storia italiana io annovero Benedetto da Norcia e Francesco d’Assisi. Questa mia preferenza non è ispirata dal fatto che sono saliti all’onore degli altari, ma da considerazioni prettamente umane e sociali. Li ammiro proprio per i loro limiti le loro debolezze. Li ammiro perché entrambi hanno testimoniato con la loro vita l'utopia della fratellanza universale.
Sia Benedetto che Francesco hanno lasciato un segno indelebile tra la gente comune, prima ancora che nelle gerarchie ecclesiastiche. Vissuti nel Medioevo sono stati due lampi di luce in quel periodo storico definito “i secoli bui”. Sono stati due personaggi simili anche se molto diversi tra loro. Hanno avuto un ruolo significativo nella loro epoca e hanno lasciato segni profondi che si sono protratti fino ai nostri giorni.
Due icone di legno con le figure di Benedetto e Francesco hanno un ruolo preminente in un angolo della mia casa.
E’ da diverso tempo che avevo intenzione di fare il percorso che collega le tre località che ricordano l’ideatore del monachesimo europeo: Norcia, Subiaco e Montecassino. Nello scorso mese di marzo, consultando il sito di “viaggiareinbici” ho scoperto con grande piacere che il mio amico Daniele Caponetto aveva organizzato il “Cammino di San Benedetto in bici”. Vista la lunghezza e la durata l'itinerario era diviso in due tratte di 5 tappe ciascuna. La prima prevedeva il percorso Spoleto-Norcia-Tivoli, la seconda Tivoli-Subiaco-Montecassino. Non perdo tempo e, dopo aver telefonato a Daniele, prenoto subito il Cammino con "viaggiareinbici". Mi prenoto per entrambe le tratte, avere la possibilità di fare l’intero cammino con l’assistenza di una buona organizzazione non andava persa. Il tempo a disposizione non mi mancava, l’entusiasmo era alle stelle! Soltanto alla mia “tenera” età si hanno dieci giorni disponibili per pedalare tra maggiociondoli e ginestre, lungo boschi di faggi, aceri, lecci e roverelle, con la curiosità di attraversare gli antichi borghi dell'Appennino che, a causa dell’atavica povertà, non sono stati intaccati dalla modernità, mantenendo l'architettura originaria con tutto il suo fascino.
Parlare di “cammino” per il monaco di Montecassino è improprio perché lui non è stato un camminatore e non si conosce il percorso che ha fatto per arrivare a Subiaco e, successivamente a Montecassino. Certamente non ha mai percorso queste strade e questi sentieri. Benedetto si è caratterizzato per la sua vita eremitica e l’assoluta solitudine. La “Regola” benedettina stabiliva un comportamento molto rigido per tutti i monaci che potevano lasciare la loro cella solo in pochi momenti della giornata: per gli incarichi quotidiani, per la recita delle lodi e per consumare i pasti in comunione con i confratelli. La clausura era talmente rigida che era proibito lasciare il monastero. La Regola stabiliva la modalità di vita per i singoli e per l'intera collettività. Era una Regola che non riguardava solo la vita religiosa, ma dava utili suggerimenti per organizzare al meglio la comunità. I monasteri dovevano essere autosufficienti, senza nessun aiuto esterno, una buona organizzazione era il presupposto fondamentale per la vita monastica. In un’epoca dove mancava ogni tipo di autorità, l’organizzazione monastica era il punto di forza dell’ordine benedettino che gli ha permesso la diffusione in tutta Europa dove il monachesimo ha avuto una grande importanza non solo spirituale ma anche sociale. Nei monasteri benedettini sono state applicate nuove tecniche che hanno favorito lo sviluppo dell'agricoltura. L'impegno e lo studio dei monaci ci hanno tramandato testi letterari e storici dell'antichità che altrimenti sarebbero andati perduti, molti studiosi si rifugiavano nei cenobi più per interesse culturale che spirituale.
La caduta dell’Impero Romano, le continue guerre e incursioni, insieme con il disinteresse per il sapere dei nuovi governanti, avevano rapidamente portato alla riduzione della produzione e della circolazione libraria.
Tutta la cultura occidentale ha potuto cogliere benefici inestimabili dall’opera minuziosa esercitata nei monasteri attraverso la trascrizione da parte dei monaci amanuensi. Un’opera meritoria che non era senza inconvenienti. Il lavoro manuale degli scribi comportava inevitabilmente degli errori, spesso dovuti a distrazione e negligenza, altrettanto spesso addebitabili ad atti volontari o a errori di traduzioni dagli antichi scritti caratterizzati dall’assenza di segni d'interpunzione, di alternanza tra caratteri minuscoli e maiuscoli e, soprattutto, dall'assenza di spazi per separare le parole (“scriptio continua”). A tal proposito Origene, Padre della Chiesa del III secolo, sui frequenti errori di trascrizione, così espresse la sua critica: "Le differenze fra i manoscritti sono diventate grandi, per la negligenza di alcuni copisti o per la perversa audacia di altri; dimenticano di controllare ciò che hanno trascritto, oppure, mentre lo controllano, effettuano aggiunte o cancellazioni a loro piacimento". Da qui emerse la necessità di creare scuole monastiche alle quali accedevano i novizi. I monasteri divennero dunque gli unici centri in grado di raccogliere, riprodurre e custodire i codici ancora superstiti. Lo “scriptorum” era uno dei pochi locali dell'abbazia che la Regola permetteva di riscaldare d'inverno. Si trattava di una sala spaziosa, ben illuminata da numerose finestre; nella posizione più idonea a ricevere la luce si trovavano i banchi su cui lavoravano i monaci copisti i quali, per non interrompere il proprio lavoro durante il giorno erano sollevati dall'obbligo della preghiera comune.
Con la crisi delle istituzioni e, successivamente, con la scomparsa di Federico II e il fallimento del suo progetto di unificare il Regno d’Italia (ostacolato dai papi) per diversi secoli sono stati i monasteri a supplire alla mancanza di un potere centrale che lasciava le popolazioni senza difesa e senza leggi. All'interno delle abbazie il popolo trovava assistenza e protezione, ma trovava anche lavoro. Agli abati ci si rivolgeva anche per cercare giustizia. La Regola benedettina basata sul principio “ora et labora” offriva una garanzia spirituale e un benessere materiale. Durante il Medioevo intorno ai monasteri sorsero nuovi nuclei abitativi così come nuovi borghi nascevano ai piedi di castelli e torri fortificate.
Mentre i monaci vivevano all'interno di monasteri isolati (di solito alle pendici di qualche monte) i frati francescani risiedevano normalmente nei centri abitati. I frati non praticavano la clausura e dai cancelli dei loro conventi si entrava e si usciva liberamente. La vita dei francescani era itinerante a contatto diretto con il prossimo e soprattutto con i poveri e i malati, dedicandosi al loro sostegno materiale oltre che spirituale. La Regola benedettina stabiliva che i monaci dovessero avere come mezzo di sussistenza il frutto del loro lavoro. I francescani, invece, dovevano vivere con le elemosine che raccoglievano. I frati avevano la facoltà, anzi avevano l'obbligo, di predicare tra la gente. Due erano le figure preminenti di ogni convento: il frate predicatore e il frate cercatore. Insomma si può dire che Francesco, diversamente da Benedetto ha camminato molto. Un altro elemento che distingue i due ordini religiosi è che i monaci benedettini hanno un'organizzazione autonoma e dipendono dagli Abati, mentre i francescani sono organizzati all'interno delle Diocesi e dipendono dal Vescovo.
Si può dire che grazie all’operato e alle utopie di Benedetto da Norcia e Francesco d’Assisi il medioevo sia stato meno “buio”.
Consultando il percorso da Norcia a Montecassino, studiato e scelto da Paolo Novellini con grande maestria, ho scoperto che c'erano diversi sentieri e piste ciclabili, ma soprattutto erano state previste interessanti deviazioni con il passaggio in alcune località care a Francesco d’Assisi. Proprio nella pianura di Rieti, la "Valle Santa", i cammini di Benedetto e di Francesco si incrociano. Non è solo un bell'itinerario cicloturistico è anche un bel connubio storico.
Il percorso si sviluppa lungo il Subappennino centrale che conosco molto bene, ma non conoscevo i sentieri e le piste ciclabili scelte da Paolo. Sono state dieci tappe della lunghezza di 55-60 chilometri. Ero curioso di scoprire angoli nascosti. E’ un territorio molto verde con i boschi che con il passare del tempo si sono rigenerati, diventando sempre più selvaggi. Dopo l’esperienza fatta due anni fa dal Mugello al Gran Sasso, questo “Cammino” mi consentiva di conoscere il “mio” Appennino da un’altra angolazione.
Trascorso l'anno in cui per impegni vari ho dovuto rinunciare alla mia passeggiata in bici non vedevo l’ora di aggiungere un altro anello al mio progetto delle “Vie Francigene”. Dopo un'adeguata preparazione parto per l’appuntamento con "viaggiareinbici" e il 17 maggio prendo il treno per Spoleto da dove il giorno successivo saremmo partiti per la prima tappa.
Spoleto è una delle città d’arte che hanno avuto un importante ruolo nella storia italiana. Approfitto dell’intero pomeriggio disponibile per un’ampia visita alla città. Non è la prima volta che passeggio per le ripide strade del centro storico lungo il Colle Sant’Elia, ma visitare questa meravigliosa città è sempre stimolante. E’ la tipica città dell’Italia “minore” che sintetizza la tradizione del nostro territorio interno con le sue caratteristiche medievali e rinascimentali. Dietro ogni angolo c’è sempre qualcosa da scoprire.
Sono contento che "viaggiareinbici" abbia scelto, per ragioni logistiche, di iniziare il Cammino di San Benedetto da questa città, anche se il camino inizierebbe a Norcia dove, però, non essendoci la stazione ferroviaria, sarebbe stato difficile raggiungerla da parte dei partecipanti.
Inizio la visita arrampicandomi a piedi per le strette vie di Spoleto fino alla piazza del Duomo che è diventato il set televisivo dello sceneggiato “Don Matteo”. Approfitto, poi, della lunga scala mobile per salire alla Rocca Albornoz da dove si ammira l’ampio panorama sulla città e da dove si giunge al Ponte delle Torri, alto 80 metri e lungo circa 200 metri. Il ponte rappresenta i resti di un ex acquedotto romano ai piedi del Monteluco.
Spoleto, di origine Umbra, divenne colonia romana e possiede una ciclopica cinta muraria formata da enormi massi in forma poligonale, una tipologia architettonica che ritroveremo in Ciociaria ad Arpino lungo il nostro cammino. Spoleto divenne famosa nell’antica Roma per aver resistito all’esercito di Annibale convincendolo a deviare verso sud e non attaccare direttamente Roma. La Torre dell’olio presso la “Porta Fuga” ricorda lo storico evento. Molti sono i segni che la legano a Roma di cui fu municipio e successivamente sede episcopale.
Posizionata lungo la via Flaminia, dopo la decadenza dell’Impero Romano fu conquistata dai Goti, dai Bizantini e dai Longobardi che istituirono il Ducato di Spoleto che, insieme al Ducato di Benevento, consentiva loro di controllare un vasto territorio dell’Italia centro-meridionale. Con l’aiuto del papa i Franchi confissero i Longobardi e Spoleto entrò a far parte del Sacro Romano Impero durante il quale fu oggetto di continui scontri tra impero e papato, in un periodo dove gli sconvolgimenti erano all’ordine del giorno e le alleanze si modificavano a fior di denaro, favori e corruzioni (fenomeni ricorrenti in qualunque epoca!). Costituitasi in libero Comune, Spoleto nel 1247 fu annessa allo Stato Pontificio. Nel 1499 fu governatrice Lucrezia Borgia che ritroveremo, anch’essa, in altre località lungo l’Appennino.
Durante il periodo napoleonico divenne capoluogo del dipartimento del Trasimeno.
Nonostante gli illustri precedenti storici, con il Regno d’Italia Spoleto non divenne provincia, le fu preferita la città di Terni e, con la chiusura delle miniere di lignite, subì un periodo di decadimento economico. Ma Spoleto ha cercato una nuova via per la sua rinascita con l’istituzione di eventi e manifestazioni che le hanno dato una risonanza internazionale e una vocazione turistica importante. La più famosa manifestazione spoletina è il “Festival dei due Mondi” che la pone ai primi posti nel mondo culturale italiano. Oggi è una delle città più visitate con turisti provenienti da tutto il mondo.
Domani inizierà il nostro cammino in bicicletta.
ex ferrovia: Valico di Caprareccia (m. 649) km 9,00
Salita Rocchetta (m. 1.007) km. 9,00
dislivello positivo m. 1.422 - dislivello negativo m. 1.124
La mattina del 12 maggio, lasciato l’albergo Clarici, mi avvio con tutta calma alla stazione di Spoleto dove alle 10.00 era previsto l’incontro con viaggiareinbici. Arrivato al piazzale della stazione vedo alcune bici parcheggiate, non c’è alcun dubbio che si tratta dei partecipanti al Cammino di San Benedetto. Tra l’altro ritrovo con piacere alcuni dei compagni di viaggio conosciuti alla Via Francigena fatta qualche anno fa. E’ la prima volta che vedo la stazione dalla piazza, sono spesso transitato con il treno per Spoleto e ho sempre visto la stazione dai binari ferroviari.
Pian piano la folla dei cicloturisti aumenta fino a quando non arrivano le nostre guide che si danno subito da fare per preparare le bici per tutti quelli che le hanno noleggiate. Anch’io per evitare l’inconveniente di trasportare bici e bagaglio sul treno ho scelto di noleggiare la mia e-bike. E’ una MTF rossa fiammante, molto simile alla mia “Husqvarna”, mi accompagnerà per l’intero percorso di circa 500 chilometri.
Terminati i preparativi ci avviamo verso l’ex ferrovia Spoleto-Norcia. Salendo lungo le pendici di Monteluco superando il Valico di Caprareccia, la ciclovia ci porta nella Valnerina. Essendo un vecchio tratto ferroviario la salita avanza dolcemente con ampie curve, diversi viadotti e gallerie, in mezzo a una fitta vegetazione con vasti panorami sia sulla valle spoletina che sulla valle del fiume Nera. E’ un percorso in parte sterrato e in parte pavimentato e perfettamente percorribile, con l’unica accortezza di dotarsi di una lampadina da utilizzare nella galleria Caprareccia lunga 2 chilometri, completamente al buio.
La ferrovia a scartamento ridotto a trazione elettrica fu inaugurata nel 1926 mentre l’ultimo treno è transitato nel luglio 1968. Dopo la dismissione della linea ferroviaria il percorso rappresenta un patrimonio artistico e paesaggistico; un esempio di ferrovia alpina e di tecnica ingegneristica di notevole importanza. Il mio ricordo va inevitabilmente a quando tanti anni fa, percorrendo la Valnerina, vedevo le rotaie del treno, con alcune stazioni ancora funzionanti. Sono zone queste che conosco molto bene avendole percorse già da bambino, da Roma fino alle Marche quando si tornava a Cingoli per le vacanze estive.
Ci sono voluti tanti anni prima di trasformare il percorso ferroviario in pista ciclopedonale. Dopo alcuni lavori di adattamento la ciclovia Spoleto-Norcia è stata inaugurata nel luglio 2014. Rispetto al tracciato ferroviario originario, attualmente ci sono diverse interruzioni, dovute soprattutto ai danni subiti in seguito al terremoto del 2016. Sono interamente percorribili i primi due tratti da Spoleto a Sant’Anatolia di Narco e il secondo fino a Borgo Cerreto. Da Borgo Cerreto il vecchio tracciato ferroviario per Norcia si interrompe, lo riprenderemo dopo Serravalle. Le nostre guide ci fanno deviare verso Cascia dove terminerà la prima tappa. La vera partenza da Norcia, per il Cammino di San Benedetto, avverrà domani.
Da Sant’Anatolia di Narco inizia una lunga e graduale salita che ci porta alla frazione di Rocchetta, a 793 metri ai piedi del massiccio del Monte Maggio. Rocchetta oggi è un piccolo agglomerato di 41 abitanti (censimento Istat del 2001) e deve il suo nome alla Rocca Oddi, un piccolo castello oggi completamente diroccato. Nel XV e XVI secolo Rocchetta ebbe un ruolo rilevante trovandosi al centro di diverse dispute con alterne vicende tra Norcia e Spoleto per il possesso del castello e il controllo della Valle del Tessino. Dispute ripetute e accese che nemmeno l’intervento dei papi riusciva a dirimere. Si racconta che “Rocchetta fu in antico validissimo castello, difeso da bombarde… Vi abitavano 125 famiglie per lo più date al mestiere della guerra…”.
Questi luoghi, una volta campi di battaglia tra fazioni rivali che patteggiavano per Norcia o per Spoleto, sono oggi un invito alla quiete ed alla tranquillità. Non vi sono parrocchie, farmacie e banche. Naturalmente non ci sono negozi, ma c’è un’ottima acqua; su invito di un anziano che sostava ai lati della strada, abbiamo approfittato per dissetarci ad una fontana dall’acqua limpida e fresca. Abbandonata ogni attività economica, questa frazione abbarbicata al centro dell’Appennino ha come unica risorsa la raccolta dei tartufi. Come succede a quasi tutti i borghi di montagna sono rimasti pochi anziani che sopravvivono con la loro misera pensione.
Lasciata Rocchetta e superato il valico, a circa mille metri di altitudine, ci tuffiamo verso Cascia dove in località Padule alloggiamo all’Hotel Elite.
Durante la prima tappa abbiamo superato un “dislivello positivo” (in salita) di m. 1.422 e un “dislivello negativo” (in discesa) di m. 1.124.
2° Tappa - Cascia – Norcia -Leonessa – km. 75 Salita Ocricchio (m. 887) km 13,00
Salita Roccaporena (m. 1.091) km. 10,00
Monteleone di Spoleto (m. 978) km. 2,00
dislivello positivo m. 1.409 - dislivello negativo m. 758
La prima parte della seconda tappa è ancora un trasferimento per arrivare al punto di partenza del Cammino di San Benedetto, cioè Norcia. Si lascia l’albergo in località Padule di Cascia e percorrendo la strada statale si giunge a Serravalle di Norcia dove si riprende il tracciato della vecchia ferrovia costeggiando il fiune Sordo. Arrivati nella città di Benedetto ci fermiamo per fare un ampio giro della cittadina disastrata dal terremoto. Alcuni di noi non vorrebbero ripartire senza la “Credenziale del Pellegrino” la cui ricerca non è stata facile, ma riusciamo a reperirne una decina di esemplari. La "Charta Peregrini vie Francisci, Benedicti et Michaelis Arcangeli" unisce i tre santi che incontreremo durante il cammino.
Il Cammino di S. Benedetto si snoda lungo l'Apennino centrale, avremo occasione di incontrare il Sentiero Italia del CAI che tocca il borgo di Norcia per dirigersi versi i Monti Sibillini. Il proseguimento della tappa prevede di ripassare per Cascia che raggiungiamo attraverso strade sterrate e sentieri, alcuni molto accidentati. La salita di Ocricchio ci impegna molto non solo perché ripida, ma soprattutto perché si presenta molto sassosa. E’ un sentiero che sale molto gradualmente, ma è pieno di ghiaia che rende il percorso abbastanza difficoltoso.
A Cascia facciamo una sosta per visitare la città di Santa Rita e proseguiamo per il suo paese natale: Roccaporena. La salita successiva è lunga e impegnativa, ma essendo asfaltata è abbastanza agevole. Dopo una breve discesa si affronta l’ultima salita di giornata che ci porta al magnifico borgo di Monteleone di Spoleto, il comune più alto dell’Umbria con i suoi 978 metri
Monteleone è stato per molto tempo in lotta contro Spoleto per rendersene indipendente. I monteleonesi riuscirono a costituire la Republica Montis Leonis ed ebbero un periodo di sviluppo economico e demografico, ma subì ingenti danni dal terremoto del 1703. Oggi Monteleone fa parte dei Borghi più Belli d’Italia. In effetti la sua visuale, sia da lontano, ma ancor di più appena varcato l’arco delle mura rinascimentali è incantevole. Monteleone è difesa da due ordini di mura, nella parte alta del paese ci sono le mura del nucleo originario di epoca alto-medievale, mentre nella parte bassa si sviluppa il borgo realizzato nel XV – XVI secolo.
Entrando dalla Porta Spoletina e percorrendo Corso Vittorio Emanuele si arriva, attraverso una ripida salita alla Porta dell’Orologio che ci introduce nella zona medievale da dove si può ammirare un bel panorama sul borgo e sui dintorni. Monteleone è oggi famosa anche per la Mostra mercato del farro. Non abbiamo dedicato molto tempo alla visita, ma ci è bastata una breve escursione per le vie interne per confermare la fama di bel borgo antico.
Dopo pochi chilometri da Monteleone si lascia l’Umbria e si entra nel Lazio dove, ai piedi del Monte Terminillo troviamo Leonessa, anch'essa di origini medievali, appartenuta per tanto tempo al Regno delle due Sicilie e dopo l’unità d’Italia è passata all’Abruzzo, ma dal 1927, con l’istituzione della provincia di Rieti, Leonessa appartiene al Lazio.
Leonessa si trova ad un’altitudine di 969 metri. La vicinanza della stazione turistica del Terminillo (m. 2.105) le ha conferito una vocazione turistica sia estiva che invernale. A Leonessa passa il il Sentiero del CAI per salire verso il Terminillo.
3° Tappa – Leonessa - Rieti – km. 50,11 Valico della Forca (m. 1.116) km. 4,00
Poggio Bustone (m. 756) km. 6,00
Cantalice (m. 660) km. 4,00
dislivello positivo m. 878 - dislivello negativo m. 1.465
Lasciato l’albergo, prima di uscire da Leonessa facciamo un giro per il paese con le nostre bici. Come in tutti i borghi che abbiamo incontrato e che incontreremo successivamente ho potuto notare soprattutto due cose che in qualche modo mi hanno piacevolmente sorpreso: l’assoluta pulizia e il rispetto architettonico che non è scaduto in inutili modernismi. Non abbiamo incontrato nessun tipo di spazzatura (né cicche di sigarette in terra), non ho visto infrastrutture di alluminio o plastica all’esterno degli edifici, né manufatti di cemento armato. Qui il tempo sembra che non sia trascorso, è tutto uguale da secoli, ma questo non è un difetto perché il cosiddetto progresso non ha fatto danni. In campo architettonico il “conservatorismo” è un vantaggio.
Dopo il Valico della Forca ci siamo goduti una lunga e appassionante discesa verso la pianura reatina. Invece di puntare direttamente su Rieti le nostre guide ci fanno deviare verso il simpatico borgo di Rivodutri. Stiamo entrando nei luoghi cari a Francesco d’Assisi. Proprio nei pressi di Rivodutri avvennero alcuni miracoli tra cui quello del faggio. Si racconta che mentre il frate era diretto verso il santuario di Poggio Bustone al calar della sera fu colpito da un furioso temporale. Riparatosi sotto l’albero questo lo protesse per tutta la notte. Oggi il faggio di Rivodutri, per la sua particolarità e rarità, è stato insignito del titolo di “Albero Monumentale” dal Ministero dell’Agricoltura e riconosciuto come “Monumento Naturale” dalla Regione Lazio.
La pianura reatina è chiamata la Valle Santa perché Francesco vi ha vissuto parte della sua vita e dove a Greccio ha rappresentato per la prima volta il presepe. Nei luoghi frequentati dal santo i francescani vi hanno fondato diversi conventi. Dopo Rivodutri anche noi seguiamo il percorso francescano verso Poggio Bustone, che è anche il luogo di nascita di Lucio Battisti. A Poggio Bustone ci fermiamo per il pranzo giornaliero in una piazzetta con una bella visuale sulla pianura reatina. Le piccole viuzze del paese con i loro sali-scendi ci invitano a sfrecciare con le nostre bici come in una gincana e, naturalmente, non manchiamo di visitare i “giardini di marzo” e la casa natale di Lucio. Non saliamo verso il Sacro Speco francescano perché completamente fuori dal nostro percorso.
Lasciamo Poggio Bustone scendendo in un sentiero immerso nel verde dirigendoci verso Cantalice, altra località dalle stesse caratteristiche dove, però, non ci fermiamo, ma proseguiamo verso l’ultima attrazione di giornata: il Convento Francescano di Santa Maria della Foresta, oggi gestito dall’associazione “Mondo X”. All’interno del convento l’associazione ha aperto una comunità terapeutica finalizzata all’accoglienza e alla riabilitazione di persone con gravi problemi di disagio e di dipendenza di qualsiasi tipologia. Ci accoglie un operatore che dopo averci informato circa le attività svolte, ci accompagna nella visita al Convento, dalla chiesa al chiostro fino alla grotta dove il santo frate si ritirava per pregare. L’operatore che ci guida nella visita è orgoglioso soprattutto di farci ammirare l’orto curato dagli utenti della comunità. Il lavoro nell’orto è parte sostanziale nel percorso di recupero dalle dipendenze.
Terminata la visita alla Foresta ci dirigiamo alla meta finale della tappa, avendo percorso circa 50 chilometri. Dopo aver preso possesso delle camere nell’Hotel Cavour la serata a Rieti termina con una visita al centro storico e con una cena libera in un ristorante della città.
4° Tappa – Rieti – Castel di Tora - km. 40,71 Rocca Sinibalda (m. 626) km. 3,00
dislivello positivo m. 1.293 - dislivello negativo m. 1.036
La quarta tappa è un percorso ondulato, senza grandi asperità. Si lascia Rieti percorrendo il lungofiume del Velino e si prosegue per la strada provinciale in leggera pendenza, comoda, asfaltata e poco trafficata costeggiando il fiume Turano fino ad arrivare alla salita di Rocca Sinibalda. Avevo spesso sentito nominare il nome di questo borgo e c’ero sempre passato nelle vicinanze, ma non lo conoscevo. E’ stata una delle piacevoli sorprese di questo cammino. Grazie alla fantasia e alla sensibilità delle nostre guide ogni deviazione dal percorso principale ha rappresentato una gradita novità. Rocca Sinibalda non è di passaggio, bisogna andarci appositamente, lì la strada finisce, per proseguire bisogna tornare indietro. Arrivati al grazioso borgo facciamo una lunga sosta non per la stanchezza, ma perché il luogo lo merita. Con le nostre bici facciamo un ampio giro per le viuzze del paese privo di traffico: antiche casette ristrutturate, vicoletti che si aprono improvvisamente sulla campagna circostante, il tutto all’ombra della grandiosa fortezza signorile. Sono passeggiate queste che ci fanno vivere classiche atmosfere antiche. Dove una volta trottavano nobili a cavallo, oggi come novelli cavalieri passeggiamo su moderne cavalcature consapevoli che, usando la bici in modo adeguato, non creiamo fastidi e non generiamo impatti ambientali.
Il Castello era una fortezza militare con all’interno un palazzo nobiliare, è stato costruito intorno al 1080 da Sinibaldo, un nobile del luogo. Lo chiamano il Castello delle metamorfosi perché pieno di contraddizioni: gotico eppure razionale, cupo eppure luminoso. Strumento di guerra, ma anche palazzo signorile. Molti sono stati i possessori della Rocca, tra cui hanno svolto un ruolo significativo i Medici nella loro espansione verso l’Abruzzo, contrastata da alcuni nobili locali. Nel 1928 divenne monumento nazionale e recentemente è stato riaperto dopo un lungo restauro. Non ci è stato possibile fare una visita al Castello perché bisogna prenotare con qualche giorno di anticipo.
La visita a Rocca Sinibalda con la sua atmosfera un po' misteriosa e i suoi ampi panorami è stata riposante. La meta della giornata non è lontana, prima di mezzogiorno proseguiamo verso Posticciola dove una diga artificiale, costruita nel 1939, trasforma il fiume tortuoso in un lago con stretti fiordi molto simile ai laghetti alpini. Posticciola è un piccolo agglomerato di case per niente insignificante che ci induce ad un’altrettanta piccola pedalata lungo il paese.
Arriviamo a Colle di Tora all’ora di pranzo. Prima di pranzare approfittiamo per effettuare un giro per il lungolago.
La nostra destinazione si trova a pochi chilometri. Superato il ponte al centro del lago all’altezza di Castel di Tora, arriviamo nel primo pomeriggio al nostro albergo con un bel panorama sul Turano e sui Monti Cicolani. Paolo ci suggerisce di prendere subito possesso delle nostre stanze e di ritrovarci appena possibile all’uscita per fare un’escursione “volontaria” alla grotta di San Michele Arcangelo.
Variante alla Grotta dell’Arcangelo Michele – km. 20,42 Grotta di San Michele (m. 995)
Dopo pochi minuti, del tutto spontaneamente e con tanta curiosità, l’intero gruppo si presenta per partire verso la grotta. Prendiamo la strada provinciale fino a Pietraforte e proseguendo con un lungo giro su sentieri sterrati, si arriva su un pianoro dove non c’è nessuna segnalazione, ma con l’aiuto del GPS si trova una traccia che ci conduce ad una costruzione nascosta dalla vegetazione, addossata alla roccia.
Il cancello è chiuso, ma attraverso le sbarre grazie ad un fascio di luce che scende dall’alto si può vedere all’interno un altare affiancato dall’immagine di un personaggio che impugna una spada: si tratta dell’Arcangelo Michele che ha combattuto contro il demonio sotto forma di drago, sconfiggendolo dopo tre giorni e tre notti di duro combattimento. Questa leggenda fece accostare ai Longobardi la figura dell’Arcangelo Michele a quella del dio pagano Odino e l’idea di uno spirito guerriero, congeniale alla sensibilità di quel popolo. Secondo una credenza longobarda l’angelo guerriero contribuì alla loro vittoria sui Bizantini dell’8 maggio 650. La vittoria in battaglia favorì la conversione al cattolicesimo dei Longobardi, dopo che per molto tempo avevano seguito l’eresia ariana. Di grotte consacrate all'Arcangelo, dove si sarebbe svolto il combattimento “celeste” ce ne sono diverse, ma ogni località venera la propria come quella vera. Non dubitiamo sulla buona fede dei Longobardi e della gente del posto, le leggende sono fatte per essere credute senza pretendere di avere le prove. Talvolta la differenza tra leggenda e realtà è talmente piccola che si confonde l'una con l'altra.
L’imprevista passeggiata ciclistica alla grotta ha soddisfatto tutta la compagnia che è rientrata contenta all’albergo anche se abbastanza affaticata, per aver pedalato altri 20 chilometri lungo sentieri scoscesi e accidentati, all’interno dei Parco dei Monti Lucretili dentro una fitta vegetazione e con un ampio panorama che si apriva a tratti alla vista sul Lago del Turano.
5° Tappa – Castel di Tora – Stazione di Mandela - km. 37 Pozzaglia Sabina (m. 915) km. 7,00
dislivello positivo m. 619 - dislivello negativo m. 887
Domenica 22 maggio partiamo da Castel di Tora per l’ultima tappa della prima parte del Cammino di San Benedetto. Era previsto che la tappa arrivasse fino alla stazione di Tivoli, ma la sensibilità e l’esperienza di Paolo lo ha fatto decidere di limitare il percorso alla stazione di Mandela, eliminando gli ultimi 15 chilometri lungo la via Tiburtina-Valeria che, in un giorno festivo, è molto trafficata e, comunque, non presenta nessun interesse.
Partiamo dall’albergo percorrendo il lungolago passando sotto l'abitato di Astrea dove arriva il il Sentiero Italia del CAI. Lasciato il lago prendiamo un sentiero sterrato e molto accidentato lungo il fiume Torano fino ad arrivare alla strada provinciale che porta a Pozzaglia Sabina per proseguire fino a Orvinio, che fa parte dei borghi più belli d’Italia. “Orvinium” ha origini antiche quando, prima della conquista romana, i Siculi occupavano la Sabina.
Oggi è uno dei tanti borghi del circondario di Roma che nei giorni di festa si riempie di escursionisti provenienti dalla capitale per una gita fuori porta. Nel fine settimana della bella stagione famiglie intere si mettono alla ricerca del fresco e del buon cibo nelle trattorie sparse nei primi rilievi del Lazio. Le strade della domenica si riempiono di carovane di motociclisti, ma non mancano ciclisti solitari che vogliono provare temerarie sensazioni sulle salite che si diramano dalla Tiburtina. Orvinio è una meta ambita, essendo distante da Roma circa 65 chilometri. Troviamo la piazza principale affollata di gitanti, ma a noi interessa arrampicarci sui vicoli del paese che salgono fino al Castello dell’XI secolo. Percorrendo queste stradine strette e completamente prive di traffico in sella alla bici si ha una emozione unica che non si prova nelle città moderne.
Dopo una breve sosta a Orvinio si prosegue verso Licenza che prende il nome dal torrente che scorre in prossimità del paese e confluisce nel fiume Aniene. E’ un altro tipico borgo medievale, alle falde dei Monti Lucretili che ebbe origine con il fenomeno dell’incastellamento ai piedi della Rocca degli Orsini che nel XVIII secolo divenne proprietà dalla famiglia Borghese. Essendo quasi mezzogiorno a Orvinio ci fermiamo sulla strada principale dove sono ubicati diversi negozi e botteghe artigiane dove ognuno di noi approfitta per approvvigionarsi per il pranzo e qualche tipicità del luogo.
Mancano pochi chilometri di discesa per arrivare alla stazione di Mandela.
L’esperienza del Cammino di San Benedetto sta per finire per tutti, o quasi. Proseguiremo per il secondo tratto del Cammino in due. Giovanni sarà mio compagno di viaggio fino a Montecassino. vai alla Galleria VIDEO
Alla stazione di Mandela resta il tempo per il ritiro dei bagagli, per i saluti e per le ultime foto con i compagni diviaggio. Con Angela ci diamo appuntamento per il prossimo anno sulla Via Francigena, che abbiamo già percorso insieme nel 2017. Mi sono dato l’obiettivo che al compimento di 80 anni avrei ripercorso (forse per l’ultima volta?) quello che
per me rimane “IL CAMMINO” per eccellenza. C’è chi aspetta il treno per Roma e chi invece sale sul pulmino noleggiato per tornare a Spoleto. Anch’io salgo sul pulmino che mi porterà all’Hotel Villa Adriana. Avendo tutto il pomeriggio a disposizione ne approfitto per visitare le antichità della villa imperiale con il Canopo, il Pretorio, le Terme e l’Antinoeion voluto dall’imperatore Adriano per ricordare la figura di Antinoo.
Rientrato in albergo vado a cenare con Danilo e Marcello le due guide con i quali si è instaurata quella che si può chiamare una grande simpatia se non un'amicizia. Con Danilo e Marcello ci confermiamo le buone sensazioni ricevute durante la prima parte del Cammino, anche loro hanno percorso per la prima volta queste strade e questi sentieri. Pur percorrendoli con una visione diversa dalla mia, anch’essi si sono divertiti e sono soddisfatti del loro lavoro che, posso assicurare, hanno svolto con grande competenza e professionalità. L’infaticabile Paolo è partito per Firenze a prendere alcune bici che occorrono per il secondo tratto. Domani sarà di ritorno, puntuale alle 10.00 alla stazione di Tivoli per l’appuntamento con i nuovi cicloturisti.
Credo che per concludere le mie riflessioni sulla prima parte del cammino di San Benedetto mi corre l'obbligo di sottolinere la prestazione atletica delle cicloturiste. Erano ben 11 su 20 partecipanti e 5 di loro hanno utilizzato le bici muscolari per l'intero percorso, senza mai mostrare segni di difficoltà e fatica. Complimenti alle nostre compagne di viaggio.
Seconda parte: Tivoli - Subiaco - Montecassino
1° Tappa - Tivoli - Subiaco – km. 46,56 salita verso Ciciliano (m. 422) km 6,00
dislivello positivo m. 507 - dislivello negativo m. 320
Oggi è lunedi, inizia una nuova settimana e inizia un nuovo tratto del cammino di San Benedetto. Dopo aver fatto colazione in albergo con Danilo e Marcello, arriva puntuale Paolo di ritorno da Firenze. Ci aspettano i nuovi compagni di viaggio alla stazione di Tivoli.
Lasciamo l’Albergo Villa Adriana con il furgone carico di biciclette. Alla stazione già troviamo i primi partecipanti. Le nostre guide si mettono subito al lavoro per sistemare le MTB e le e-bike per tutti quelli che le hanno noleggiate. Per loro è, ormai, un lavoro di routine, in pochi minuti accontentano tutti, io continuo con la mia MTF con la quale ho percorso la prima parte di cira 280 chilometri e con la quale mi sono trovato molto bene.
La stazione ferroviaria si trova a soli 400 metri da Villa Gregoriana uno dei gioielli naturalistici e architettonici di Tivoli, con Villa Adriana e Villa d’Este, tutti e tre riconosciuti Patrimonio dell’Umanità da parte dell’Unesco. Villa Gregoriana è la mia preferita perché non è una vera villa, ma è un parco romantico realizzato in un bosco caratterizzato da sentieri con salite e discese, ruscelli, grotte e antichi ruderi di epoca romana: l’Acropoli con i resti del tempio della Vestale Cossina e del tempio della Sibilla. E’ un’importante area dal punto di vista storico, naturalistico e scenografico. E’ stato realizzato in un abisso verticale, un orrido che rende la villa un posto misterioso e un panorama fantastico sulla valle sottostante chiamata Valle dell’Inferno che qualcuno ha paragonato alla valle dantesca. L’intero impianto è stato realizzato su una forra scavata nei millenni dal fiume Aniene da cui parte una cascata di 120 metri. A causa del terreno friabile l’intera zona era soggetta a continui allagamenti. Papa Pio VIII, nel suo breve pontificato durato circa 20 mesi, nell’intento di contenere le acque del fiume, ha avuto modo di commissionare all’architetto Clemente Folchi la ristrutturazione della villa che fu portata a termine dal successore Gregorio XVI dal quale la villa prende il nome. Oltre che un ambiente naturale Villa Gregoriana rappresenta una complessa opera idraulica che ha regimentato il corso del fiume Aniene. Pio VIII Castiglioni, di una nobile famiglia di Cingoli, è stato un mio concittadino. Per la breve durata del suo papato, ma anche per la sua mitezza non ha lasciato un forte ricordo da tramandare ai posteri. Mi fa piacere di aver saputo che l'idea della ristrutturazione di quella che sarebbe diventata Villa Gregoriana è partita da lui. Quando posso non manco mai di visitare questo scrigno della natura, molto diversa dal capolavoro rinascimentale di Villa d’Este voluta dal cardinale Ippolito d’Este, figlio di Lucrezia Borgia. Villa d’Este è un capolavoro di giardino all’italiana costellato di fontane e ninfei che, utilizzando anch’essa le acque dell’Aniene, forma giochi d’acqua dall’alta capacità tecnica e ingegneristica. Centinaia sono le fontane di Villa d’Este di cui la più famosa è la Fontana dell’Organo basata sull’ingegnoso meccanismo idraulico al suo interno, il cui scopo era quello di produrre sonorità mediante la forza dell’acqua. Dopo un lungo periodo di interruzione, a causa dell’umidità e delle variazioni climatiche, negli ultimi anni sono stati eseguiti lavori di ripristino che hanno restituito alla villa i suoni della Fontana dell’Organo. Una singolarità della fontana è che costituisce l’unico manufatto Barocco in una villa interamente di stile Rinascimentale. Le tre ville rappresentano un grande richiamo turistico per Tivoli con l’arrivo di visitatori provenienti da tutto il mondo.
Terminati i preparativi per la partenza ci avviamo verso la meta della prima tappa: Subiaco. Per non percorrere la Tiburtina-Valeria prendiamo la strada verso Ciciliano affrontando una salita che ci porta a 422 metri di altitudine. Superato il valico ritorniamo, dopo una lunga discesa, alla stazione di Mandela da dove deviamo sulla ciclabile realizzata sul tracciato della vecchia ferrovia che costeggia il fiume Aniene.
Percorrendo la ciclabile, in alto sulla nostra destra ci sovrasta l’abitato di Anticoli Corrado. Un piccolo borgo famoso per i precedenti storici e artistici. L’origine del nome deriva da “Ante Colles” (davanti ai colli) a cui fu aggiunto il suffisso Corrado per ricordare il nipote di Federico II di Svevia, Corrado di Antiochia. Il borgo è conosciuto anche come “il paese degli artisti e delle modelle”. Nel XIX e XX secolo infatti numerosi artisti furono attirati dalla splendore delle sue donne. Un fascino selvaggio tipico della bellezza esotica derivante, si dice, dalle origini saracene della popolazione. Alcune di queste donne, intessendo rapporti sentimentali con i loro maestri impararono l'arte e diventarono artiste esse stesse, seppendo fare della loro professione di modelle un motivo di emancipazione: vere e proprie protagoniste di fatti in cui si erano ritrovate quasi per caso. In questo sperduto paese dell’Appennino laziale, durante il XX secolo, arrivarono personaggi di fama internazionale come Luigi Pirandello, con il figlio Fausto pittore, il poeta spagnolo Rafael Alberti, Ignazio Silone e tanti altri che diedero lustro al piccolo borgo.
Proseguendo lungo il percorso della vecchia ferrovia pedaliamo su un sentiero ben compatto e perfettamente ciclabile, con qualche piccola asperità e circondati da una fitta vegetazione. Purtroppo in Prossimità di Subiaco il cammino diventa impraticabile e privo di segnalazioni, si disperde tra cespugli e scarpate, costringendoci a rientrare sulla strada provinciale.
Si entra a Subiaco scavalcando il meraviglioso ponte di San Francesco, un’opera medievale costruito per ricordare la storica battaglia vinta dai sublacensi contro i tiburtini. Si racconta che la diocesi di Tivoli fu costretta a pagare una forte somma di denaro all’Abbazia di Subiaco per ottenere la liberazione dei loro prigionieri. L’Abbazia celebrò la vittoria con la costruzione del ponte nel 1358. Attraversato il ponte ci avviamo verso la Porta Civitate Triumphalis per entrare nel centro storico di Subbiaco.
Il nostro alloggio a Subiaco si trova presso il Palazzo Moraschi, un’antica costruzione nobiliare adibita ad albergo. Ci troviamo in un ambiente veramente signorile con stanze dalle pareti quasi tutte affrescate e arredate con mobili antichi. L’albergo è situato nella parte alta della città in prossimità della Rocca Abbaziale nota anche come Rocca dei Borgia perché il cardinal Rodrigo ne fu commendatario utilizzandola come residenza della propria amante Vannozza Dei Cattanei. Nel 1480 vi nacque Lucrezia Borgia, sorella di Cesare Borgia detto “Il Valentino” a cui Nicolò Macchiavelli si ispirò per la figura del “Principe”. Nel 1492 il cardinale Borgia cedette la commenda della Rocca a Giovanni Colonna in cambio della sua elezione a papa, un baratto molto in voga nella curia papale di quei tempi. Il papa Alessandro VI e tutta la sua famiglia ebbero una storia brillante ma, allo stesso tempo, coinvolta in una serie di intrighi orditi direttamente dal capofamiglia a cui i figli non si sottrassero.
La Rocca è stata strettamente collegata ai monasteri benedettini sotto il controllo diretto dei pontefici con la nomina dei commendatari. Con il tempo la Rocca edificata come edificio militare e con lo scopo di controllare la vallata dell’Aniene si trasforma in palazzo di rappresentanza con decorazioni, splendide pitture e “grotteschi”, che facevano da cornice alle atmosfere dei banchetti rinascimentali.
Per questo antico borgo medievale sono passati personaggi illustri, famiglie nobili, futuri papi e diversi santi che hanno contribuito alla fama di questi luoghi, noti per la loro spiritualità, per le loro bellezze artistiche e testimonianze storiche, circondati da una natura lussureggiante.
Subiaco è stata la meta di tante mie passeggiate e scampagnate. Il fatto che il Cammino di San Benedetto passasse per Subiaco è stato il motivo principale che mi ha indotto a fare questo percorso con “viaggiareinbici”.
2° Tappa - Subiaco – Fiuggi km. 46,71 salita al Sacro Speco (m. 652) km 4,00
Trevi nel Lazio (m. 824) km 5,00
Passo della Sella (m. 941) km. 8,00
dislivello positivo m. 1.501 - dislivello negativo m. 1.337
Nella seconda tappa del secondo tratto del Cammino di San Benedetto raggiungeremo due dei luoghi più rappresentativi della vita di Benedetto da Norcia: i Monasteri di Santa Scolastica e del Sacro Speco. Lasciamo Subiaco attraversando le strade del centro e al bivio per Campo Livata si prosegue a destra scendendo verso il fiume Aniene. Si costeggia il fiume fino ai ruderi della Villa di Nerone dove si gira per la Via dei Monasteri dove inizia una salita di circa 4 chilometri e dopo sei tornanti immersi nel verde si raggiunge il piazzale dove lasciamo le bici e saliamo a piedi all’interno del Monastero.
L’ingresso del monastero è angusto, ripido e stretto. Non è adatto a persone disabili, ma i monaci, all'interno del Bosco Sacro, hanno creato un percorso alternativo percorribile, per chi ne avesse bisogno, con le auto che dal parcheggio inferiore porta al piazzale di fronte alla chiesa superiore.
Nei luoghi sacri si entra soltanto con l’accompagnamento della guida che in circa trenta minuti ci illustra la vita da eremita di Benedetto conducendoci fino alla grotta dove visse in piena solitudine con il poco cibo che con una corda gli calava dall’alto il monaco Romano. Il Monastero, come lo vediamo oggi, è stato edificato nell’XI secolo e nel tempo si è arricchito di affreschi e opere d’arte. Tra le prime opere realizzate nell'edificio primitivo si può ammirare il ritratto più antico e veritiero di Francesco d’Assisi. L’autenticità del ritratto giovanile sarebbe dimostrata dall’assenza di aureole e delle stimmate, i tratti del viso concordano, inoltre, con la descrizione fatta dal suo biografo Tommaso da Celano. Il Monastero si compone di due chiese sovrappose. L’intero edificio segue l’andamento della parete di roccia del Monte Taleo in prossimità della grotta dove l’eremita visse per tre anni.
Terminata la visita riprendiamo le nostre bici per goderci la stupenda discesa fino a Santa Scolastica dove non ci fermiamo perché il luogo meriterebbe una visita molto approfondita per i riferimenti storici e culturali di cui è ricca. L’edificio intestato alla sorella di Benedetto è uno dei tredici piccoli monasteri fatti edificare dal monaco eremita, ma è l’unico che sopravvisse alle razzie e agli incendi appiccati dai Saraceni. E' famoso per essere stato un importante centro culturale. Nel 1465 due chierici tedeschi, allievi di Gutemberg, portarono nel Monastero il torchio da stampa a caratteri mobili, dando vita alla prima tipografia italiana. Nei sotterranei della Rocca dei Borgia è stato realizzato il Museo delle Attività Cartarie e della Stampa, che testimonia della fiorente attività tipografica ed editoriale di Subiaco.
Lasciata Santa Scolastica dopo aver superato la cappella rotonda di San Mauro, fedele amico di Benedetto, svoltiamo a sinistra per riprendere la strada che costeggia l’Aniene che in leggera salita ci porta agli 824 metri di Trevi nel Lazio. Pedalando lungo il fiume, in un contesto completamente verdeggiante, attrraversiamo uno dei posti più incantevoli di tutto il cammino su mulattiere e viottoli ideali da percorrere in bici.
Attraversiamo una zona molto ricca di acqua ben conosciuta fin dai tempi dell’Impero Romano. I Romani sfruttarono l'abbondanza d'acqua di questo territorio per costruire quattro acquedotti: l'Anio Novus, l'Anio Vetus, l'Acqua Marcia e l'Acqua Claudia. Queste grandi opere testimoniano la capaità ingegeristica e architettonica dei romani. Gli acquedotti partivano dalla Valle dell’Aniene per arrivare fino a Roma in leggera pendenza tramite gallerie e arcate in muratura attingendo l’acqua dal fiume Aniene nei dintorni di Subiaco. A causa del terreno franoso, per decantare l’acqua torbida erano stati costruiti diversi laghetti alcuni dei quali ancora esistenti lungo il corso del fiume.
Saliamo verso Trevi sempre immersi in un fitto bosco su sentieri ben compatti e facilmente percorribili. Un cartello ci informa che stiamo attraversando il percorso turistico naturalistico “Vecchia mulattiera Grotte dell’Inferniglio”.
In località Comunacque (dal latino ad comunes aquas) ci sono le cascate di Trevi da dove partiva l’acquedotto “Anio Novus” risalente al I° secolo d.C. Nel vecchio borgo si collega il nome Trevi con la famosa fontana romana, ma purtroppo la notizia non è corretta perché non era l’Anio Novus che portava acqua alla Fontana di Trevi, ma già dal 19 a.c. Marco Vipsanio Agrippa fece costruire l'Acquedotto Vergine che iniziava da Salone, una zona poco distante da Roma (tra la via Tiburtina e la via Collatina), per condurre l’acqua alle sue Terme nel luogo che diventerà Piazza di Trevi. L’acquedotto che subì gravi danni ad opera dei Goti nel 537, durante il Medioevo fu più volte restaurato. Il primo intervento architettonico per la realizzazione della fontana si ebbe nel 1453 da parte del papa Nicolò V che incaricò Leon Battista Alberti all'esecuzione di un grande bacino rettangolare. Una drastica trasformazione si ebbe nel 1640 quando Urbano VIII diede incarico a Gian Lorenzo Bernini per la progettazione di una grande “mostra” di acqua e la trasformazione della piazza che da “trivio”, com’era inizialmente, prese la configurazione attuale. Il progetto di Bernini non fu portato a compimento per l’esaurimento dei fondi e per la morte del papa. L’opera ebbe nel tempo diverse vicissitudini, molti furono gli architetti incaricati per il suo completamento, ma solo il 22 maggio del 1762 con l’ultimo intervento da parte Pietro Bracci il papa Clemente XIII riuscì a collaudare l’opera che finalmente si presentava come oggi la possiamo vedere, anche se altri interventi di manutenzione sono stati realizzati fino ai giorni nostri.
Il nome attribuito alla fontana non è accertato storicamente. Diverse sono le ipotesi:
- Trebium, località nei pressi di Salone;
- Trivio, incrocio di tre strade nella vicina Piazza dei Crociferi;
- la vergine Trivia rappresentata in una statua all’interno della fontana.
Non essendoci una certezza storica potremmo anche lasciare la soddisfazione agli abitanti di Trevi nel Lazio di aver dato il nome alla (forse) più famosa fontana al mondo. Di fronte alla Fontana di Trevi nessun romano ha mai pensato a Trevi nel Lazio. Possiamo, però, dedicare agli abitanti di Trevi i versi di Renato Rascel con la sua ironia romanesca.
T'invidio, turista che arrivi
T'imbevi de' fori e de' scavi
Poi tutto d'un tratto te trovi
Fontana de Trevi ch'è tutta pe' te!
Ce sta 'na leggenda romana
Legata a 'sta vecchia fontana
Per cui se ce butti un soldino
Costringi er destino a fatte torna'
…..
Mentre l'inglesina s'allontana
Un regazzinetto s'avvicina
Va nella fontana, pesca er soldo e se ne va!
Dall'ironia romanesca del ragazzetto che pesca il soldo e se ne va, si può passare
all'ironia napoletana ricordando l'episodio cinematografico in cui Totò vende la Fontana di Trevi a un facoltoso turista americano. Due episodi tra i tanti che si raccontano sulla famosa fontana.
Tornando ad argomenti meno futili si può ricordare che a Trevi nel Lazio San Benedetto fondò il Monastero di San Salvatore, uno dei 13 monasteri andati distrutti.
Io sono tornato a Trevi in bici dopo cinquanta anni, quando da Roma sono venuto nel 1972 per raggiungere alcuni amici in campeggio alle sorgenti dell’Aniene che distano circa 8 chilometri da qui. Dopo tanto tempo a Trevi non è cambiato niente: è rimasto il fascino antico che si gode in tutti i borghi dell’Appennino. Facciamo un giro per i vicoli che si arrampicano all’interno del paese, sovrastato dal Castello Caetani, dove soggiornò Bonifacio VIII, il papa che promosse nell'anno 1300 il primo Giubileo. Un papa controverso, come molti altri, che Dante Alighieri, prima ancora che morisse, gli riservò un posto all’inferno. Fu protagonista dell’episodio chiamato “lo schiaffo di Anagni” dove alcuni membri della curia romana capeggiati dai Cardinali della famiglia Colonna, con l’aiuto del re di Francia Filippo il Bello, riuscirono a processarlo e dichiararlo decaduto pochi giorni prima che il papa morisse. Un papa controverso Bonifacio VIII, ma l’episodio che considero più perfido fu l’intrigo che il papa organizzò insieme a Carlo II d’Angiò per costringere Celestino V alla rinuncia al pontificato. Dopo la rinuncia di Pietro da Morrone, per paura di uno scisma che riportasse Celestino V sul soglio pontificio, Bonifacio “protesse” il papa eremita fino alla sua morte nel Castello di Fumone, a pochi chilometri da Anagni.
Anche Trevi, come gran parte dei borghi montani, ha avuto origine dal fenomeno dell’incastellamento. Dopo la caduta dell’Impero Romano e, soprattutto dopo che anche il potere carolingio iniziò a sfaldarsi, i feudatari sopperirono alla mancanza di un forte potere centrale con l’organizzazione di una difesa indipendente. Una necessità che divenne sempre più impellente, a partire dal X secolo, in seguito alle continue incursioni dei Normanni (popoli vichinghi), dei Saraceni (pirati che venivano dal mare) e Ungari.
Dalla società curtense dell’Alto Medioevo, che non prevedeva un sistema difensivo, si passò all’incastellamento con un esodo della popolazione dalle campagne indifese verso le fortificazioni. I castelli nacquero dunque da questa necessità, spesso riutilizzando fortificazioni precedentemente costruite e ampliandole, oppure creandole ex novo. I castelli erano posti lontano dalle vie di comunicazione, per lo più protetti dalla conformazione naturale, in modo da costituire un rifugio e un riparo per gli abitanti delle zone vicine. Intorno alle fortificazioni venivano a formarsi degli agglomerati urbani che con il tempo divennero quelli che oggi sono i "borghi d'Italia".
Essendo oltre mezzogiorno, a Trevi ci fermiamo per il pranzo per poi ripartire verso Fiuggi passando per gli Altopiani di Arcinazzo e valicando il Passo della Sella a 931 metri.
Fiuggi è una cittadina turistica famosa per il suo centro termale. L’Albergo Marconi, dove soggiorniamo per la notte si trova vicino allo stabilimento dell' “Acqua di Bonifacio VIII”. Come in tutte le terme anche nello stabilimento di Fiuggi è possibile fare una vacanza riposante e usufruire delle acque terapeutiche.
3° Tappa Fiuggi - Isola del Liri km. 59,81 Vico nel Lazio (m. 721) km 4,00
verso Certosa di Trisulti (m. 864) km 5,00
Monastero San Nicola (m. 794) km 2,00
dislivello positivo m. 1.148 - dislivello negativo m. 1.550
Oggi, mercoledi, ci aspetta una tappa abbastanza articolata con diversi saliscendi, siamo nel cuore della Ciociaria. Lasciata Fiuggi affrontiamo una lunga discesa prima di iniziare a salire verso Vico nel Lazio, l’ennesimo borgo che visitiamo con molta curiosità. Scendendo da Vico facciamo una piccola deviazione per vedere il Pozzo d’Antullo, una dolina carsica situata in prossimità di Collepardo. Il Pozzo, con una profondità massima di 80 metri e una circonferenza di 300 metri, è stato originato dallo sprofondamento del suolo a causa di fenomeni carsici. All’interno del pozzo si è formata una vera foresta per la presenza di alcune sorgenti di acqua.
Lasciato il Pozzo d’Antullo ci avviamo verso il vicino Camping Monti Ernici dove, approfittando della presenza di un ristoro, ci fermiamo per il pranzo. Nel pomeriggio transitiamo per l’abitato di Collepardo per dirigerci verso la Certosa di Trisulti che, da qualche anno, è stata riaperta al pubblico. Il Consiglio di Stato su istanza del Ministero dei Beni Culturali ha annullato il contratto di concessione della Certosa a favore della “Dignitatis Humanae Institute”, gestito da Steve Bannon, per la “difesa delle fondamenta giudaico-cristiane della civiltà europea”.
Bannon ha dichiarato la sua intenzione di porsi come "architrave, a livello mondiale, dei movimenti populisti di tutto il mondo". Nel 2007 ha co-fondato Breitbart News, giornale on-line di estrema destra da egli stesso descritto come la piattaforma per l'alt-right, abbreviazione inglese che sta per alternative right (destra alternativa), è il nome di un movimento politico, nato negli Stati Uniti, che promuove ideologie di destra alternative a quelle tradizionali del conservatorismo. Tra le ideologie sostenute dal movimento, o da parti di esso, si hanno: nazionalismo, protezionismo, Nuova Destra, isolazionismo, anarco-capitalismo, neo-confederatismo, antisemitismo, antisionismo, negazionismo dell'Olocausto, trumpismo e populismo di destra. Si oppone al femminismo, all'immigrazione, alla società multietnica e multirazziale, al liberalismo statunitense, all'ideologia woke ed al politicamente corretto. Uno dei punti fermi dell'ideologia alt-right sostiene che l'uomo bianco, cisgenere ed eterosessuale sia la vera vittima del III millennio.
La Certosa, riconosciuta Monumento Nazionale dal 1879, è di proprietà del Ministero il quale dopo la sentenza a suo favore ha stipulato un accordo con la Regione Lazio per la gestione della Certosa. Immersa nel verde di secolari foreste, ai piedi dei Monti Ernici, è stata fondata da San Domenico di Sora nel 996 e nel 1204 passata ai monaci Certosini. Il nome Trisulti deriva da “tre-saltibus” perché un castello sovrastante, oggi completamente diroccato, dominava tre valichi che conducevano verso Roma, verso l’Abruzzo e verso la Ciociaria. All’interno del complesso ci sono pregevoli giardini all’italiana, una ricca Biblioteca Statale con circa 36.000 volumi e una farmacia con preziosi vasi.
Dopo la visita alla Certosa transitiamo vicino al Monastero di San Nicola, dichiarato temporaneamente chiuso, ma in realtà è chiuso già da molto tempo ed è in completo stato di abbandono. Mediante una lunga e divertente discesa arriviamo ad un’altra attrazione di giornata: l’Abbazia di Casamari.
Siamo a circa 10 chilometri da Isola del Liri la meta di giornata, ci fermiamo per una visita al complesso abbaziale che merita tutta la nostra attenzione. L’Abbazia è uno dei pochi esempi di arte gotico-cistercense in Italia. Fu costruita nel 1203 sulle rovine di un antico municipio romano, patria del console Caio Mario, da cui prese il nome. Oltre alla biblioteca che vede la presenza di circa 80.000 volumi, uno degli ambienti più importanti del monastero è la sala del Capitolo. Quello di Casamari è considerato il Capitolo più bello tra gli edifici cistercensi. In questa sala i monaci prendevano le decisioni, i conversi laici potevano assistere silenziosamente alle adunate dall’esterno, attraverso le finestre, senza poter prenderne parte, da cui il detto “Non avere voce in capitolo”.
I cistercensi sono una derivazione dell’ordine dei benedettini che, con il passare del tempo, dalla semplice regola “ora et labora” si era trasformata in una potenza politica con grandi possedimenti. Alcuni monaci francesi, dell’Abbazia di Citeaux in Borgogna, si vollero distaccare dalla politica e ritornare alla semplicità della regola benedettina e diedero origine all’ordine cistercense (da Citeaux), nel 1098. Il nuovo ordine rinunciò all’atteggiamento di distacco dal mondo e alla vita eremitica. Le Abbazie non furono più edificate in luoghi isolati, in un’ottica di chiusura, ma furono aperte al mondo esterno e all’accoglienza dei forestieri. Anche per quanto riguarda l’arte e lo stile architettonico i cistercensi si vollero distinguere dallo stile romanico e dettero vita a quella che venne chiamata arte gotica, che successivamente venne ancor più sviluppata in seguito allo scisma di Martin Lutero. Lo stile gotico-cistercense era basato su tre fondamenti: tendenza verso l’alto, semplicità e stabilità. Tipico dello stle gotico è l'arco a sesto acuto.
Nell’Abbazia di Casamari ebbe un ruolo anche l’Imperatore Federico II, nonostante fosse stato colpito ben tre volte dalle scomuniche papali. L’imperatore incontrò a Casamari il papa Gregorio IX proprio per trattare la sua scomunica decretata in seguito ai tentennamenti da parte di Federico nell’organizzare una crociata in Terra Santa. I monaci di Casamari vollero raffigurare il suo volto, insieme al suo segretario Pier delle Vigne, nei capitelli del Chiostro. Con un'attenta ricerca anche oggi è possibile riconoscere i due personaggi tra i captelli.
Gli ultimi 10 chilometri che mancano per Isola del Liri sono lungo un percorso ondulato. Arriviamo nella città dove all’ingresso è affisso un cartello con una simpatica provocazione: “gli altri ci guardano. Obbligo di baciarsi”.
Due splendide cascate formate dal fiume Liri vivacizzano con l’impetuosità delle loro acque il centro cittadino. In prossimità del Castello Boncompagni-Viscogliosi il fiume Liri si divide in due bracci formando una specie di isola che dà il nome alla città. La presenza delle cascate danno già l’idea di una cittadina operosa. Infatti, grazie alla presenza delle acque, dal XIX secolo si sono insediate diverse attività industriali, specialmente nel settore della carta e del tessile. Negli ultimi anni purtroppo le industrie, una volta fiorenti, hanno risentito di una forte crisi. Alcune istituzioni nazionali e organizzazioni internazionali, con la collaborazione del Comune stanno elaborando un progetto di recupero dei siti industriali dismessi per la salvaguardia e il recupero del loro patrimonio culturale, anche nell’ottica di sviluppare i livelli occupazionali. E’ nato così un progetto “globale“ di riconversione, che permetterà alla città di riappropriarsi di zone in passato emarginate e inaccessibili e di reintegrare nell’assetto della struttura urbana, edifici e attrezzature d’importante valore storico-architettonico, con lo scopo di trasformare Isola del Liri da antica città industriale a città Parco Fluviale e Tecnologico.
Nel secondo dopoguerra la Ciociaria si è distinta per cementificazione selvaggia, inquinamento, degrado ambientale e consumo del suolo. Ben vengano, quindi, iniziative di recupero e valorizzazione del territorio. La crisi economica degli ultimi tempi ha causato anche in queste zone la riduzione dell’attività agricola e l’abbandono delle zone montane con la rigenerazione selvaggia della boscaglia. Lo abbiamo potuto constatare in questi giorni lungo il cammino in bici. Un fenomeno con aspetti positivi che, però, andrebbe controllato e programmato. Le foreste italiane sono aumentate del 25% negli ultimi trent’anni. E’ quasi impossibile evitare l’abbandono dei terreni ed evitare l’incuria dei territori, ma bisogna essere coscienti che è necessario conservare una foresta sana, curata e gestita in modo consapevole e sostenibile. Una buona gestione del territorio non si può considerare solo un costo, ma è un’opportunità a livello professionale e turistico con interessanti ritorni economici.
4°Tappa Isola del Liri – Cassino km. 59,00 Torre di Cicerone - Civitas Vetus (m. 590) km 8,00
Montenero (m. 735) km. 3,00
Santopadre (m. 700) km. 2
Roccasecca (m. 245) km. 2
dislivello positivo m. 911 - dislivello negativo m. 925
Oggi giovedi 26 maggio affrontiamo la quarta tappa della seconda parte del Cammino di San Benedetto, ma per me e per Giuseppe è il nono giorno di viaggio in bici. Debbo dire che non contatto la stanchezza, ma sento tutto il disagio di tanti giorni lontano da casa, senza le abituali comodità e con l'impegno quotidiano di sistemare il bagaglio, disporre la biancheria sporca, ordinare il necessario per il viaggio, oltre al fastidio di cambiare alloggio ogni giorno.
Si prosegue per la Ciociaria attraverso itinerari minori a me sconosciuti.
Lasciamo Isola del Liri con un ampio giro intorno alla città ammirando le due cascate: la Cascata Grande, di 27 metri, e la cascata del Valcatoio che scivola su un piano inclinato lungo 160 metri.
Prendendo Via del Valcatoio si risale la collina da dove scende il fiume e si prosegue per via S.Sebastiano costeggiando il Liri fino all’Abbazia di San Domenico, che appartiene al vicino comune di Sora. L’Abbazia è stata fondata nell’anno 1011 e ha avuto stretti rapporti con i monasteri di Trisulti e Casamari. La Certosa di Trisulti ebbe origine nel 996 proprio da San Domenico, mentre Casamari nacque ad opera di 4 monaci suoi disepoli. Domenico di Sora, che nacque a Foligno, era un monaco benedettino che proveniva da Montecassino, fu riformatore della vita monastica e fondatore di cenobi, favorendo il fenomeno dell'incastellamento che si stava sviluppando anche nel "Comitatus Campaniae", un territorio formato da Umbria, Lazio, Abruzzo e Campania.
L'Abbazia sorge sopra quella che fu la casa natale di Marco Tullio Cicerone che questi descrive accuratamente nel suo "De legibus", collocandola dove il Fibreno confluisce nel Liri. Sul muro di cinta del monastero è stata posta una lapide dedicata all'illustre personaggio. Dopo una visita all’Abbazia, lasciando il corso del Liri proseguiamo costeggiando il fiume Fibreno. A Sora incontriamo per l'ultima volta il Sentiero Italia che prosegue verso il Parco Nazionale dell'Abruzzo, Lazio e Molise. Dopo circa 4 chilometri inizia la lunga e impegnativa salita verso Arpino.
Passando per Colle Carino si arriva all’Acropoli di Arpino oggi chiamata Civitavecchia (Civitas Vetus). Paolo, la nostra guida, dimostrandosi particolarmente sensibile (frutto di un’attenta ricerca nell’organizzare il cammino) ci invita ad una sosta per conoscere uno dei più interessanti siti archeologici del Lazio. L’Acropoli, costruita dai Volsci, risale all’età del ferro (VIII-VII sec. A.C.) e possiede una delle cinte murarie meglio conservate realizzate in opera “poligonale”. Ne ho ammirato un piccolo esempio anche a Spoleto. C’è chi chiama questo tipo di fortificazione: mura micenee o pelasgiche (origine greca) o ciclopiche (giganti omerici). Si tratta di grandi massi lavorati in forme poligonali per essere incastrate a secco, senza malta e senza fondamenta.
A Civitavecchia particolarmente significativa è la presenza di un "arco a sesto acuto" unico sopravvissuto nel suo genere in tutta l'area mediterranea. La particolare forma delle pietre permette a questo tipo di arco di mantenersi con la sola tecnica dell'incastro.
L'arco, porta d'ingresso dell'Acropoli, è alto 4,20 metri ed è formato da blocchi sovrapposti che si restringono verso la cima, tagliati obbliguamente sul lato interno. Noi entriamo nell’antico agglomerato attraversando l’arco che rappresenta una cosiddetta “porta scea”. Le porte scee (famose quelle dell'antica Troia) sono varchi che non si aprono frontalmente, bensì di lato, e precisamente in lato sinistro (scaevus, in latino significa: "sinistro"). Una caratteristica adottata per migliorare la difesa delle città: infatti, per entrare nella città fortificata attraverso una porta scea si doveva esporre ai difensori il lato destro del corpo, che in caso di guerra per i soldati attaccanti era quello sguarnito dallo scudo (il quale veniva tenuto con la mano sinistra, mentre l'arma veniva tenuta con la mano destra). Gli abitanti godevano pertanto del sostanziale vantaggio di poter colpire l’invasore nel lato non protetto, quello destro.
Civitavecchia oggi è abitata da un centinaio di persone, alcune delle quali dedite all'artigianato e alle attività agricole; il borgo è tutelato ai fini storico-ambientali e all'interno di esso non vi sono esercizi commerciali. Rimaniamo, infatti, delusi quando chiedendo di un punto di ristoro ci viene risposto che nella Civitas ci sono solo abitazioni private e non c'è nessuna attività di ristorazione.
E’ possibile avere un’idea più completa di Civitavecchia nel Video di questo sito.
L'esistenza di vestigia ben conserate stupisce della capacità di quegli architetti che compivano opere ingegneristiche ancora intatte dopo migliaia di anni, realizzate senza gli strumenti tecnologici oggi disponibili e fa rflettere sulla fragiltà di molte strutture moderne.
L'area archeologica viene chiamata anche “Civitas Ciceroniana” per la presenza della Torre di Cicerone, che però non risale ai tempi del filosofo romano perché fu costruita in epoca medievale. Approfondite ricerche eseguie nel secolo scorso non trovarono testimonianze della presenza di Cicerone nell'Acropoli di Arpino. L’illustre personaggio avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo era nato e vissuto in giovane età in quella che oggi è la città di Sora (che a quei tempi apparteneva al territorio di Arpino). Fin da giovane fu portato dal padre a Roma per studiare e iniziare una carriera di successo. Da queste ricerche è risultato che Cicerone non sia mai vissuto ad Arpino.
Lasciata l’Acropoli si prosegue in salita verso la frazione di Collina a 707 metri, dopo una breve discesa si sale ai 735 metri di Montenero, il picco più alto della giornata. Dopo 5 chilometri di percorso ondulato arriviamo a Santopadre dove ci fermiamo per il pranzo. Nel pomeriggio ci aspetta una lunga e divertente discesa, sempre circondati da una ricca vegetazione, prima di affrontare l’ultima salita verso Roccasecca.
Prima di oggi il nome “roccasecca” mi sembrava l’immagine emblematica della provincia di Frosinone e di tutta la Ciociaria. Ero rimasto con l'idea di un territorio desolato e forse un po’ triste. Condizionato, probabilmente, dalle immagini della cinematografia neorealista del dopoguerra e da alcune mie sporadiche passeggiate nei dintorni di Frosinone. In sella alla bici, lungo il percorso scelto da “viaggiareinbici”, ho scoperto invece un territorio verdeggiante e con centri abitati che posseggono le caratteristiche tipiche dei borghi appenninici. Nelle mie esperienze cicloturistiche ho percorso gran parte dell’Appennino Centrale: dalla Toscana, alle Marche, l’Umbria, l’Abruzzo, fino al Lazio. Ho trovato un paesaggio molto omogeneo, non solo dal punto di vista paesaggistico, ma con cultura, mentalità e costume affini. Le abitudini e il modo di vivere degli abitanti dell’Appenino sono, praticamente, gli stessi. Anche la Ciociaria è sulla stessa falsariga degli altri territori appenninici dell'Italia Centrale. Si può dire che ormai "dopo l'Italia sono stati fatti anche gli italiani".
"Riscoprire" la Ciociaria per me è stata una piacevole novità. Una novità non solo dal punto di vista naturalistico, ma anche per la ricchezza di reminiscenze storiche e culturali. In tutto l'Appennino vi sono tracce dell'operosità e dello spirito benedettino, ma nel territorio ciociaro la sua presenza sembra particolarmente significativa.
All’ingresso di Roccasecca c’è un bel cartello che dice: “Qui è nato San Tommaso d’Aquino”. Colui che diventerà un famoso teologo e filosofo, infatti, apparteneva alla nobile famiglia degli Aquino che possedeva un castello che sovrasta l’abitato di Roccasecca, oggi completamente diroccato. A Roccasecca si gode un ampio panorama sulla pianura sottostante. Ci fermiamo per godere il bel panorama ma anche per mangiare un ottimo gelato.
Dopo pochi chilometri in discesa transitiamo sotto l'abitato di Aquino che prende il nome dall'abbondanza di acqua del suo territorio. Naturalmente la città di Aquino contesta il privilegio della nascita di Tommaso d'Aquino preteso da Roccasecca. Ma non basta perché c'è anche un terzo incomodo. Anche a Belcastro, un paese della Calabria ai piedi della Sila, con il suo castello dei Conti d'Aquino, si è diffusa la tradizione della nascita del santo filosofo. A quei tempi non esistevano gli uffici dell'anagrafe e, pertanto, nessuno può avere prove certe e tutti possono accampare presunti diritti. Si dice che la storia la scrivano i vincitori, ma la storia è fatta anche di compromessi. Di fronte a vicende poco chiare e controverse gli studiosi debbono necessariamente accettare ciò che viene tramandato dalla tradizione, anche se non sufficientemente documentato.
Mancano circa 20 chilometri per Cassino quasi tutti pianeggianti. Mentre ci avviciniamo alla meta vediamo da lontano la collina di Montecassino con la sagoma del Monastero. Domani affronteremo la salita finale di circa 8 chilometri, in quella che sarà una degna passerella finale di un cammino che non ha deluso le mie aspettative.
In attesa dell’apoteosi finale è, però, possibile iniziare a fare un bilancio di questa meravigliosa esperienza. Mi è stato chiesto di esprimere un giudizio sui due tratti del Cammino di San Benedetto. Mi sento di poter dire che non ho nessuna preferenza perché considero l’intero cammino nel suo insieme anche se “viaggiareinbici” ha dovuto necessariamente dividere i due tratti per la difficoltà di trovare persone che abbiano 10 giorni disponibili, senza considerare che fare un simile percorso con bici muscolari occorrerebbe un adeguato allenamento che non tutti hanno. Posso testimoniare che fare l’intero cammino con una bici a pedalata assistita è stato relativamente facile e molto divertente. Complimenti a Giuseppe che lo ha compiuto insieme a me con la sua bici muscolare. Per me è stato come proseguire il percorso fatto due anni fa con la Dorsale Appenninica dalla Toscana all’Abruzzo anche se la “dorsale” prevedeva il passaggio sui passi più alti dell'Appenno mediante strade secondarie della viabilità ordinaria. Il percorso studiato da Daniele e Paolo è stato, invece, realizzato in buona parte su piste ciclabili e sentieri, alcuni veramente impervi. L’intero cammino è stato spettacolare e non riesco a fare una graduatoria tra la prima e la seconda parte. Dal punto di vista ciclistico si può dire che il tratto da Norcia a Rieti prevede il passaggio su sentieri molto accidentati e difficili da percorrere, ma assolutamente affascinanti. Ho potuto apprezzare, con sorpresa, che nel secondo tratto abbiamo incontrato molte piste pavimentate e percorsi che mostravano una buona manutenzione, sembravano fatti apposta per escursioni in bici.
Chi avrà letto i miei racconti sulle "vie francigene" avrà capito che le mie esperienze ciclistiche sono fatte certamente con spirito sportivo, ma dando maggior importanza al paesaggio, alla storia e alla cultura, facendo prevalere lo spirito di conoscenza e di ricerca, abbinato al divertimento che mi viene dal pedalare a cavallo di una bici. Sotto questo aspetto posso dire che l'intero percorso del Cammino di San Benedetto ha soddisfatto pianamente le mie aspettative.
5°Tappa Cassino - Montecassino km. 15,00 salita di Montecassino (m. 516) km. 7,00
dislivello positivo m. 516 - dislivello negativo m.
Oggi ultima tappa, ultimo bagaglio da preparare, ultima biancheria sporca da sistemare, ultimo alloggio da cambiare e …ultima salita da affrontare. E’ una salita che aspettavo fin dal primo giorno, è proprio una ciliegina sopra una bella torta.
Dopo dieci giorni fantastici gli organizzatori hanno scelto di chiudere il cammino con una mini-tappa concedendo il tempo per fare una visita al Monastero e tornare con tutta calma alle nostre case. Quest’ultima salita è il giusto corollario ad un cammino che ci ha impegnati, ma nello stesso tempo ci ha deliziati con le bellezze incontrate lungo il percorso.
Un grande ringraziamento alle nostre guide: Paolo, Daniele e Marcello. Un grazie anche a tutte le compagne e ai compagni di viaggio.
Lasciato l’albergo ci avviamo verso la periferia di Cassino e per i primi 8 chilometri procediamo in gruppo compatto fin ai piedi della salita, poi ognuno affronta la salita secondo il proprio gradimento, in ordine sparso. Il percorso è molto panoramico e nel salire le rampe di Montecassino ripenso ai tanti chilometri percorsi per sentieri e strade secondarie compiaciuto di aver scoperto nuovi itinerari.
In prossimità del Monastero faccio una deviazione per prendere la strada che porta al cimitero polacco. Mi fermo davanti al cancello senza entrare, ma il ricordo mi va inevitabilmente a ciò che ho letto sulle vicende dell’ultima guerra che qui ha avuto uno dei momenti più decisivi. Dopo la distruzione del Monastero, avvenuta il 15 febbraio 1944 da parte degli aerei americani, gli alleati tentano l’assalto per conquistare l’ultimo baluardo che impediva loro l’avanzata verso Roma. Ci provano e falliscono gli inglesi, i gurkha e i neozelandesi, tutti respinti dai paracadutisti tedeschi. Il generale Anders che comandava il Corpo polacco propone di effettuare un tentativo con le sue divisioni Karpatia e Kresova. L’esercito polacco inizia il suo intervento la mattina del giorno 12, effettuando diversi attacchi andati a vuoto fino al giorno 17. Dopo un intero giorno e una notte di combattimenti, all’alba del 18 gli ultimi resistenti tedeschi si arrendono. La linea Gustav è annientata, la via per Roma è aperta.
Quell’eroico manipolo di soldati polacchi termineranno la guerra insieme alla formazione della Brigata Maiella, entrando uniti nella città di Bologna liberata. Il Gruppo Patrioti della Maiella, è una formazione partigiana, di ispirazione repubblicana, che si costituisce già nell'autunno del 1943 come unione di vari gruppi partigiani (tutti provenienti dal territorio abruzzese) e dall'inizio dell'anno successivo coopera attivamente con i reparti alleati come Corpo militare volontario. Con una forte riluttanza iniziale, i volontari abruzzesi organizzati dal comandante Ettore Troilo, furono aggregati al V corpo britannico (VIII Armata). Successivamente, la Maiella viene inquadrata nel Corpo d'Armata polacco alle dipendenze del tenente colonnello Wilhelm Lewicki. La “Maiella” è l'unica formazione partigiana italiana decorata con la medaglia d'oro al valor militare alla bandiera e tra le pochissime aggregate all'esercito alleato, con il quale ha combattuto fino al termine della guerra. La Brigata Maiella ebbe un ruolo determinante nello sfondamento della Linea Gustav che divideva in due l'intera regione abruzzese. Dopo aver contribuito alla liberazione del proprio territorio, la Maiella non si sciolse e continuò la propria azione nelle Marche, in Emilia Romagna fino agli Altipiani di Asiago, sempre inseriti all'interno del Corpo d'Armata polacco, anch'esso costituito interamente da volontari ex prigionieri.
Dopo l'invasione e la spartizione della Polonia in seguito al patto Molotov-Ribbentropp i polacchi subirono l’oppressione prima dei tedeschi e poi di Stalin. Furono gli Alleati occidentali che convinsero i sovietici a liberare i prigionieri polacchi, in modo che potessero combattere con le forze alleate. Il 30 luglio 1941 con la firma del Sikorski-Majski tra il governo sovietico e quello polacco in esilio a Londra, decine di migliaia di prigionieri polacchi vennero liberati dai campi di prigionia dell’URSS ed avviati tramite l'Africa settentrionale a formare il Secondo Corpo d’Armata guidato dal generale Władysław Anders, anche lui a lungo prigioniero dei sovietici. I polacchi residenti nella parte occupata dai nazisti furono, invece, inquadrati nella Wehrmacht. La gioventù polacca nella seconda Guerra Mondiale fu, pertanto, costretta a dividersi tra le due parti contendenti.
La diaspora dei polacchi nella Seconda Guerra Mondiale
Un episodio significativo di quanto accaduto in Polonia durante la seconda guerra mondiale mi è stato raccontato dai fratelli Valeria e Bruno Collevecchio.
Era la primavera del 1944, le truppe tedesche si stavano ritirando verso nord lungo la costa Adriatica spinti dall’avanzata delle armate alleate che avevano sfondato la linea “Gustav”. Una sera mentre stava andando nell’orto dietro casa Bruno scorge una persona che si nascondeva tra i cespugli. Era un soldato con la divisa della wehrmacht che si era allontanato dal suo battaglione. Per un soldato sbandato il pericolo era dietro l’angolo, doveva trovare un nascondiglio in attesa di momenti migliori. Bruno capì subito che si trattava di un disertore tedesco che aveva bisogno di aiuto, per alcuni giorni lo accudisce insieme a tutta la famiglia, nascondendolo in uno sgabuzzino e procurandogli anche degli abiti civili. Non era un soldato tedesco, ma era un polacco che nella divisione del suo paese era capitato nella parte occupata dai nazisti, scampò dalla prigionia arruolandosi nell’esercito. Da come si stavano mettendo le vicende della guerra per lui sarebbe stato difficile tornare al suo paese, una patria dilaniata che non esisteva più. Tornare in una Polonia occupata dai sovietici, dopo essersi arruolato nell'esercito tedesco, non sarebbe stata una selta buona. Aveva deciso di disertare pensando che, prigioniero degli alleati, sarebbe stato più al sicuro.
Non era la prima volta che la famiglia Collevecchio nascondeva soldati sbandati. Bruno, non era stato chiamato alle armi per la sua infermità alle gambe, causata da una poliomielite infantile. Con la sua stampella di legno sotto il braccio poteva girare senza impedimenti per Roseto degli Abruzzi e nei dintorni. La sua infermità gli dava quella libertà che altri non avevano in un momento in cui erano ricercati fuggiaschi, sbandati, imboscati e si era sospettati per qualunque piccolo indizio. I tedeschi che avevano bisogno di manodopera rastrellavano tutti gli uomini validi ma Bruno, grazie alla sua infermità, si poteva muovere senza suscitare l’attenzione dei tedeschi e dei fascisti repubblichini. Con l’esercito tedesco in fuga la situazione era cambiata, si aspettava da un momento all’altro l’arrivo degli alleati che avrebbe portato la liberazione del territorio abruzzese.
L’esercito alleato era una compagine multinazionale. Sotto il comando inglese combattevano canadesi, irlandesi, neozelandesi, indiani e nepalesi, compreso un contingente polacco. Vinta la battaglia di Ortona, che per l’accanimento della lotta fu chiamata la “Stalingrado d’Italia”, gli alleati iniziarono la risalita del litorale adriatico. Nel mese di giugno vengono liberate Chieti, L’Aquila e Pescara e proseguendo lungo la Nazionale Adriatica attraversarono l’abitato di Roseto degli Abruzzi. Gran parte della popolazione rosetana si era radunata lungo la strada dove transitavano carri armati e lunghe file di autocarri con a bordo soldati di varia nazionalità, tra cui il Corpo d’Armata polacco. Il caso volle che il disertore polacco scorse, su uno dei camion alleati, la figura di suo fratello che, al contrario di lui in Polonia era capitato nella parte occupata dai sovietici ed era finito tra i volontari aggregati con gli eserciti occidentali. Bruno mi ha raccontato una scena che aveva dell’incredibile e che aveva suscitato una grande emozione tra i presenti. Il disertore polacco felice di aver ritrovato il fratello, ringrazia Valeria e Bruno che lo avevano assistito per alcuni giorni e, salutata la folla festante, salì frettolosamente sul camion per inseguire insieme al fratello un destino del tutto inaspettato.
Al termine della guerra i soldati polacchi non avranno fortuna dopo il rifiuto di rientrare nella loro patria occupata dai sovietici. Destinati all’esilio, si disperderanno. Nel cimitero polacco di Montecassino resta una lapide: “Noi soldati polacchi abbiamo dato le nostre anime a Dio, i nostri corpi all'Italia e i nostri cuori alla Polonia”.
Lasciato il cimitero polacco riprendo a pedalare lungo l’ultimo tornante per arrivare al piazzale del Monastero dove c’è Marcello con il furgone e alcuni ciclisti già sul posto. Aspettiamo che arrivino tutti gli altri per entrare a fare la visita con un’accompagnatrice che ci guida e ci fornisce ampie spiegazioni sullo storico edificio sulla vita di Benedetto da Norcia e sulla ricostruzione del monastero bombardato.
Sono stato a Montecassino diverse volte, ma la visita al monastero mi fa provare sempre delle sensazioni particolari, non ultima quella della rabbia per ogni guerra che porta distruzioni e sofferenze senza senso. Il bombardamento del vecchio monastero è uno degli esempi più eclatanti della stupidità e incompetenza di tanti generali che credono di risolvere ogni situazione difficile con soluzioni drastiche, superficiali e devastanti.
Questo luogo è uno dei simboli del medioevo, non solo dal punto di vista spirituale. Da questo colle i “secoli bui” sono stati irradiati di una luce che si è diffusa per tutto il vecchio continente. Pensare che qualcuno abbia deciso di distrugge un simbolo storico-culturale-religioso per piccole strategie militari, risultate anche errate, mi fa venire mille dubbi sulla cosiddetta civiltà dell’epoca moderna che non ha ancora trovato un sistema alternativo alla guerra per risolvere le dispute tra gli stati.
Il Monastero ha subìto nell'arco della storia altre distruzioni ad opera dei cosiddetti barbari, ma i barbari dei nostri tempi si sono dimostrati altrettanto feroci di quelli antichi. Naturalmente questo discorso non vale solo per i monasteri, ma anche per tutte la città martoriate da bombardamenti “mirati” e “chirurgici” con la sola logica di spargere il terrore sulle popolazioni.
Terminata la visita al monastero ritorniamo al piazzale del parcheggio dove trovo Gilda, mia moglie, che aveva promesso di venirmi a prendere con l’auto. Siamo ai confini con l’Abruzzo, per arrivare da Roseto degli Abruzzi ci vogliono un paio di ore. Potrei scendere per i tornanti di Montecassino per l’ultima discesa in bici, ma Gilda soffre di vertigini e trova difficolta ad affrontare i tornanti di montagna con gli strapiombi. Tra i brividi di una bella discesa e il disagio di Gilda scelgo di rinunciare alla discesa, del resto in dopo oltre 500 chilometri di saliscendi, di discese ne ho fatte abbastanza.
Dopo 10 giorni di pedalate, posso ritenermi più che soddisfatto. Saluto i miei compagni di viaggio che si apprestano a godere delle ultime belle sensazioni nell'ultima discesa, mi cambio dagli abiti sportivi, salgo in macchina e rivivo i sette chilometri di tornanti al volante della nostra “Meriva”.
Norcia-Subiaco-Montecassino: per me e per Giuseppe il Cammino è compiuto per intero. Sono sicuro che, appena possibile, i nostri compagni non perderanno l’occasione di completare l’intero percorso.
Questa esperienza è terminata, ma spero che ci possano essere ancora altri cammini perché non sono ancora sazio di cercare e scoprire nuovi percorsi. Nel caminare c'è sempre un viaggio e una meta, mi chiedo sempre se sia più importante viaggiare o raggiungere la meta. Non ho ancora trovata la risposta, ho solo la certezza che viaggiare in bici è una cosa meravigliosa.
La bicicletta è un po’ la metafora della vita. Albert Einstein, appassionato ciclista, diceva: “per non cadere si deve pedalare continuamente”.