Martedì 23 maggio è terminata la prima parte del "Cammino di San Francesco". Siamo arrivati abbastanza presto ad Assisi, per consentire ai miei compagni di viaggio di tornare a Rieti e riprendere le loro autovetture per rientrare nelle rispettive città.
Io prendo alloggio all’Hotel Bellavista di S. Maria degli Angeli e pranzo presso il ristorante dell’albergo. Nel pomeriggio, approfitto per vedere in televisione la tappa del Giro d’Italia. Oggi i corridori scaleranno la cima del Monte Bondone. Diventata mitica, nel Giro del 1956, per l’impresa di Charly Gaul che arrivò stremato al traguardo sotto un nubifragio, con temperature di 8 gradi sotto zero. Di 87 partiti, ne arrivarono 41. Tutti i corridori arrivarono congelati, la situazione era talmente grave che qualcuno voleva interrompere la corsa. Da allora il Bondone è rimasta la montagna mitica del Giro d’Italia.
Da bambino inizialmente seguivo il giro alla radio (ascoltavo le famose radiocronache di Mario Ferretti: “Un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”). Da alcuni anni erano iniziate le trasmissioni televisive in bianco e nero. Mi ricordo di aver assistito, da casa, a quella famosa tappa, che è rimasta sempre nella mia memoria. A causa del pessimo tempo, si è trattato più di una radiocronaca che una telecronaca. Siamo riusciti a vedere con difficolta solo gli ultimi metri, mentre i corridori tagliavano il traguardo stremati dalla fatica e soprattutto dal gelo, nascosti in una fitta nebbia, sotto una tormenta di acqua e neve. Al termine di cinque salite, pioggia, neve, vento e gelo e più di nove ore in sella, Gaul al traguardo precedette di quasi otto minuti, l’abruzzese Alessandro Fantini e di oltre dodici Fiorenzo Magni che, con una frattura alla clavicola a causa di una caduta, riuscì ad arrivare al traguardo reggendo il manubrio con un copertone stretto tra i denti per sopportare il dolore.
Si racconta che Gaul riuscì a completare la tappa perché il suo direttore sportivo lo fece entrare in una casa di contadini dove, dietro lauto compenso, trovò due tinozze di acqua calda con le quali si riscaldò. In tal modo il lussemburghese, salendo sul Bondone sotto una bufera di neve, patì il freddo meno degli altri.
Anche oggi, nonostante sia diventato molto critico nei confronti del modo dello sport e del ciclismo, cerco di assistere alle riprese televisive del Giro d’Italia. Il motivo principale della mia passione nei confronti del ciclismo non è per l’interesse verso lo sport o per l’impresa di qualche campione, ma è legata ad un’attrazione verso i paesaggi della nostra penisola. In questo senso le tappe del giro, riprese in maniera magistrale dalla televisione, mi appagano molto. E’ la stessa motivazione che mi spinge a percorrere i cammini e i sentieri in MTB.
La scalata odierna del Bondone si è svolta con una certa tranquillità tra i primi in classifica, che si sono dati battaglia solo negli ultimi chilometri, terminando a pochi secondi l'uno dall'altro. Ormai i distacchi tra i leader sono minimi. C’è un livellamento generale dovuto al progresso tecnologico dei mezzi a disposizione. Ma c’è anche un esasperato “tatticismo” delle squadre. I campioni vengono scortati dai loro gregari fino agli ultimi chilometri. E' finita l’epoca di “un uomo solo al comando”. Dall’ammiraglia i direttori sportivi manovrano i loro uomini come fossero pedine su una scacchiera: la vittoria di un leader è una vittoria di squadra. Nella squadra non contano solo i gregari, ma sono compresi, dirigenti, massaggiatori, medici e …fattucchieri. Non è una prerogativa solo del ciclismo, avviene lo stesso anche in altre discipline, trasformando il mondo dello sport in un grande “Circo Barnum”.
Anche nelle discipline individuali un atleta non vince senza una forte squadra. Per fare una forte squadra occorrono grandi investimenti. Lo sport, oggi, è completamente in mano agli sponsor, cioè, alla finanza.
La rivoluzione industriale del XX secolo ha dato impulso ad una forte crescita economica, mai realizzata prima nella storia. La società dei consumi ha migliorato il benessere dei cittadini dei paesi più sviluppati e il benessere economico e sociale ha indirizzato le masse verso una maggiore cura della persona e del tempo libero. Lo sport spettacolo, la pratica sportiva e le attività ludiche sono i simboli della società consumistica,
Le contraddizioni abbondano nel mondo dello sport. Fino ad alcuni anni fa gli atleti professionisti non erano ammessi alle Olimpiadi per il fatto che essi percepivano un compenso per la loro attività. Ugualmente avveniva per i circensi: considerati “mercenari dello sport”, che sporcavano l’ideale puro che ricordava lo spirito dei “giochi ellenici” che si disputavano ad Olimpia, ignorando, ipocritamente, che nell’antica Grecia la vittoria era così importante che si usavano tutti gli stratagemmi, leciti e illeciti, per ottenerla. Al di là di ogni retorica, nell'età classica l’attività ginnica, più che una fucina di ideali, era considerata soprattutto una preparazione per la guerra.
Sia la civiltà greca che quella romana si sono sviluppate e consolidate su una politica fatta di conquiste, che avevano bisogno di un forte esercito e occorre anche sottolineare che tutte le società antiche erano fondate sullo schiavismo. Le guerre erano il motore dell’economia, ogni guerra vinta significava conquista di nuovi territori, nuova ricchezza, ma anche nuovi schiavi. La schiavitù aveva una doppia funzione, da una parte costituiva manodopera abbondante e gratuita, ma ha rappresentato anche un freno alla ricerca innovativa e allo sviluppo imprenditoriale. La società classica viveva in un circolo vizioso: occorreava una nuova guerra per procurarsi nuova ricchezza. La vastità dell’Impero esigeva un forte esercito, a cui andava la giusta ricompensa perché rappresentava la sola garanzia per ogni Imperatore che doveva difendersi dai nemici esterni, ma anche dai nemici interni.
La forza dell’Impero Romano è stato il suo esercito, i generali vincitori di solito venivano acclamati Imperatori. Il simbolo della vittoria era importante per la scelta e il riconoscimento di un capo. In tempo di pace la vittoria veniva cercata nell’arena e nei giochi ludici. Buoni atleti per preparare buoni soldati. I giochi nell’arena non erano all'insegna degli ideali di lealtà e sportività, che tanto si favoleggia. Il principio che "il fine giustifica i mezzi" è nato nell'arena e negli antichi stadi.
Lo sport moderno, ha avuto inizio nel XIX secolo all’interno della classe borghese, rifacendosi all’antichità classica si è sviluppato tra pochi privilegiati che avevano disponibilità di tempo e capacità economica per dedicarsi al gioco.
Si dice che educare i giovani alle discipline sportive è un mezzo per formare buoni cittadini e una buona società. Lo sport, insomma, dovrebbe essere di esempio per tutti ma, secondo me, non è certo il modo migliore per fare una società migliore.
L’attività sportiva non è così democratica come si vorrebbe far credere, anzi manifesta molte discriminazioni perché privilegia i più dotati, i più forti, i più organizzati, i più scaltri, i più furbi e, soprattutto, chi ha più disponibilità economiche e coloro che investono di più.
Ma io da vecchio sortivo impenitente non mi lascio ammaliare dallo sport spettacolo. Lo sport me lo faccio da me, mi basta una bici, un sentiero, una mappa o una traccia e …..vado. Rispettando quello che considero una condizione essenziale: abbinare l’attività fisica, alla ricerca di bellezza, dell’arte e della storia.
Dopo la tappa del Giro, avendo tempo a disposizione, faccio una pedalata verso la Basilica di S. Maria degli Angeli. La Porziuncola è stata una delle prime chiese utilizzate da Francesco, dopo aver ricevuto dal Crocifisso di San Damiano la richiesta: “ripara la mia casa”. La Porziuncola risale al IV secolo, nel 516 ne avrebbe preso possesso San Benedetto, per i suoi monaci del Subasio. Le vicende di Benedetto e Francesco si incrociarono molte volte, anche se a distanza di tempo. Benedetto visse nel VI secolo, mentre Francesco nel XIII secolo.
Anche Francesco stabilì la sua residenza alla Porziuncola, ridotta in macerie, e insieme ai primi compagni la riparò. Da qui partirono i primi frati, inviati ad annunziare la pace. Qui, la notte della domenica delle Palme del 1211, il Santo accolse Chiara di Assisi e la consacrò al Signore. Fu qui che il Santo tenne i primi "Capitoli" dei suoi Frati. Nonostante i suoi numerosi pellegrinaggi, la Porziuncola restò sempre il suo punto di riferimento.
Qui, infine, dopo essere stato un grande pellegrino e aver percorso numerose strade in giro per il mondo, concluse la sua vita accogliendo la morte cantando. Era il 3 ottobre del 1226. Rientrando verso Assisi, sentendosi in procinto di morire, chiese che fosse avvertita la sua amica Jacopa dei Settesoli, che a Roma gli aveva procurato la protezione del papa Innocenzo III. Sorprendentemente Jacopa si presentò spontaneamente al suo capezzale per portare i mostaccioli che lui apprezzava molto e per dare l’ultimo saluto, fu l’unica donna al cospetto del frate morente, nemmeno Chiara poté eludere le rigide regole della clausura.
Quella piccola catapecchia riparata da Francesco è stata conglobata, successivamente, nella sontuosa Basilica. Tutto ciò che si vede all’interno e all’esterno della Porziuncola sono opere realizzate dai suoi seguaci, che lui non vide mai (e forse non le avrebbe approvate).
L’indomani partirò per la seconda parte del Cammino. Avrò altri compagni di viaggio, ma ci saranno sempre Paolo e Danilo le preziose guide di ”Viaggiareinbici”.
Maggio 2023
LE TAPPE
Seconda parte: Assisi - La Verna - Arezzo
1° Tappa - Assisi - Eremo delle Carceri - km. 22,01
Salita all'Eremo (m 806) km. 4
dislivello positivo m. 401 - dislivello negativo m. 401
Per dare a tutti l’opportunità di arrivare in tempo, l’appuntamento è previsto per le ore 11 di mercoledì 24 maggio. Oggi partiremo in 20, la provenienza dei cicloturisti è la più diversa: dall’Olanda alla Sicilia. Nonostante la diversa origine, durante il Cammino si potrà constatare che il gruppo si dimostrerà compatto e uniforme. Il tempo si manterrà buono per tutti i cinque giorni, per fortuna non si verificheranno incidenti, salvo una sola foratura. Tra i partecipanti la metà è dotata di MTB assistite, una decina di avventurosi pedalerà con bici "muscolari".
Si parte puntuali e ci dirigiamo subito verso S. Maria degli Angeli dove Paolo suggerisce di provvedere alle provviste per il pranzo, perché lungo il percorso di oggi non ci saranno punti di ristoro, né negozi di alimentari. Lasciato il piazzale della Basilica ci avviamo verso Rivotorto, al Santuario del Sacro Tugurio, dove sono state ricostruite le due capanne in cui Francesco e i primi frati vissero in totale povertà, mangiando ciò che riuscivano a trovare o a elemosinare. Dormivano nella capanna sulla destra e cucinavano in quella di sinistra, pregavano nello spazio tra le due capanne. Entrando nel Santuario di Rivotorto si nota subito che i due tuguri non sono autentici, ma siano ricostruzioni recenti.
Fu a Rivotorto, già all’inizio della sua vita spirituale, che Francesco pensò a redigere la sua Regola. Insieme con Bernardo da Quintavalle e Pietro Cattani, ne redasse la prima stesura. Nel 1209 partì per Roma con i suoi primi 12 frati per chiedere l’approvazione del loro stile di vita a papa Innocenzo III.
Ottenuta l’approvazione anche, e soprattutto con l’intercessione della sua amica Jacopa dei Settesoli, i frati tornarono al Sacro Tugurio di Rivotorto, scelto come loro dimora per servire il vicino lebbrosario. Nel 1221, dopo la rinuncia di Francesco al governo dell’ordine francescano, durante il vicariato di frate Elia da Cortona venne approvata una Seconda Regola, divisa in 23 capitoli, che non fu sottoposta al pontefice ed, essendo una regola non bollata, non ebbe mai un ruolo ufficiale. La terza regola, in vigore ancora oggi, fu scritta da San Francesco nel romitaggio di Fonte Colombo. Qui nel settembre 1223 Francesco detta a frate Leone la stesura definitiva della Regola che sarà approvata da papa Onorio III. Si racconta, però, che nella redazione intervenne anche il Cardinale Ugolino di Anagni (successivamente divenuto papa con il nome di Gregorio IX), che ne corresse alcuni aspetti, e vi diede una forma giuridica.
A causa della poca salubrità del Sacro Tugurio i frati poco dopo si spostarono alla Porziuncola che, pur nella precarietà di una capanna, si presentava in migliori condizioni. Divenne ben presto il punto di riferimento dei frati, dove Francesco ritornava sempre volentieri dalle sue numerose peregrinazioni.
Come Francesco anche i suoi seguaci provenivano da famiglie agiate della borghesia, c’era anche qualche appartenente alla nobiltà. Non erano affatto giovani rustici e ingenui, facevano parte dell’alta società con mezzi culturali e sociali che consentiva loro di fare scelte autonome e libere. Ciò avvenne anche per le compagne di Chiara, tutte donne di alto lignaggio, alle quali Francesco diede il benvenuto, ma impose loro la massima clausura e il divieto di qualunque contatto con i frati della Porziuncola. Nonostante la durezza e il rigore a cui erano sottoposte, Francesco volle pari dignità e rispetto per le donne. Infatti Chiara di Assisi riuscì a fondare il suo ordine con una certa libertà scrivendo la sua Regola senza nessuna imposizione. La Regola delle Clarisse fu, però, riconosciuta solo dopo la morte della sua fondatrice.
Nel medioevo la mancanza di norme a difesa della famiglia rendeva la donna debole nei confronti degli uomini. Il valore della verginità e della castità femminile aveva lo scopo di scongiurare maternità derelitte e punizioni per le “peccatrici”. La verginità e la castità delle donne non era solo una virtù spirituale voluta dalla Chiesa, ma era un valore anche per la società civile. Serviva alla difesa della discendenza patriarcale, dando agli uomini una garanzia della paternità, anche se veniva presentata come una forma di protezione per le donne. Una protezione che molte donne cercavano proprio dietro le mura dei conventi.
Per scongiurare ogni forma di libertinaggio la Chiesa cercò di ostacolare anche l’organizzazione dei Tornei Cavallereschi che, al contrario della fama di lealtà dei cavalieri con il pretesto di dedicare la vittoria a una dama, era un’occasione per la nascita di amori adulterini. L’illibatezza della donna, al di là di ogni apparenza, era una forma di assoggettamento della donna stessa: al padre, ai fratelli e successivamente al marito, ai quali dovevano una cieca obbedienza.
Lasciato Rivotorto ci dirigiamo in leggera salita verso San Damiano dove non possiamo entrare perché gli ingressi sono chiusi, come succede ormai con maggior frequenza per molti monumenti religiosi che, oltre a rappresentare luoghi di fede sono anche lo scrigno dell’arte italiana. Nel cammino a lui dedicato non si poteva trascurare questa località dove, probabilmente, iniziò la conversione dello scapestrato Francesco. Si dice che il crocifisso all’interno del Santuario sia lo stesso che ha parlato a Francesco. Tutto è possibile, ma di crocifissi simili se ne possono vedere a centinaia in diversi luoghi sacri. Certamente a quell’invito perentorio: “Francesco, và e ripara la mia casa, che come vedi è tutta in rovina” lui rispose in maniera perfetta.
Non potendo fare la visita a San Damiano, proseguiamo verso la meta di giornata: l’Eremo delle Carceri. Ci sono 4 chilometri di salita con un dislivello che porta da circa 200 metri a 800 di altitudine. Naturalmente è una strada meravigliosa, all’interno di un fitto bosco da dove spuntano degli scorci su tutta la valle sottostante.
Arrivato all’Eremo mi fermo per aspettare gli altri ciclisti. La strada arriverebbe alla sommità del Monte Subasio, mi piacerebbe proseguire, ma quando si viaggia con un gruppo io cerco di rispettare le buone regole e non prendere iniziative personali. Rinuncio a malincuore a percorre i pochi chilometri che portano alla vetta.
La definizione di “Carceri” mi ha sempre incuriosito perché accostare tale nome alla genuinità, semplicità e alla spiritualità dei francescani mi è sempre sembrato molto strano. Infatti questo luogo non ha niente a che vedere con una prigione, ma deriva dal nome latino “carcer” che significa luogo solitario, appartato e, quindi, adatto alla preghiera. E’ stato anche tramandato che il nome deriva da “de carceribus", cioè dai tuguri simili a cellette dove gli eremiti si rifugiavano. Intorno a ogni personaggio storico nascono leggende e interpretazioni di vario genere. C’è chi ritiene che la “vox populi” abbia il marchio della verità perché coniata dall’esperienza e dalla logica popolare. Su San Francesco di leggende ce ne sono ancor di più, molte sono contradittorie. Per me vale soprattutto la sua umiltà e il suo spirito di fratellanza universale.
Francesco arrivò alle pendici del Monte Subasio per pregare e fare penitenza. Nelle vicinanze l’unico edificio era un piccolo oratorio ancora oggi esistente. Presto venne raggiunto da: Leone, Antonio da Stroncone, Bernardo da Quintavalle, Egidio, Silvestro e Andrea da Spello che trovarono delle grotte vicino a quella di Francesco e vi si stabilirono. Avevano scelto questo luogo proprio perché disagevole, nel cuore della fitta boscaglia. Quelle grotte sul Monte Subasio erano già frequentate dai benedettini che le donarono ai seguaci di Francesco. Nel XV secolo San Bernardino da Siena, francescano, teologo e predicatore appartenente all'Ordine dei frati minori, fece costruire a ridosso della roccia un minuscolo convento che si adattava alla semplicità francescana e in perfetta armonia con la natura circostante.
Entrando nel Santuario, verso la grotta di Fra Leone, è possibile arrivare all’altare del TAU, la cui immagine non manca mai nei luoghi francescani. Francesco la scelse come sua “firma”, quale simbolo di salvezza, ma anche di povertà e semplicità.
Radunato tutto il gruppo di cicloturisti, Paolo ci invita a ritornare verso Assisi, scendendo per la via dell’Eremo. E’ la prima discesa della seconda parte del Cammino. Una discesa che rappresenta una delizia per i ciclisti. Non ho più l’età per oltrepassare i limiti del buon senso, ma mi piace buttarmi nelle discese di montagna. Mentre scendo compiendo con prudenza alcuni sorpassi, mi ha colpito una figura con un casco giallo fiammante che zigzagando si insinua tra i ciclisti. Sono colpito soprattutto dalle sue curve pennellate da bravo biker, direi quasi come un perfetto motociclista. Cerco di imitare le sue evoluzioni che più si avanza e più mi sembrano precise. Non riesco a copiare il suo tracciato e, naturalmente, pian piano mi distanzia sempre di più. Dopo 8 chilometri arrivo a Porta Nuova con oltre duecento di metri di distacco. La brava “discesista” era Patry. Ce ne saranno altre di discese …..ardite.
Si entra ad Assisi attraversando tutto il borgo antico, dalla chiesa di Santa Chiara, alla Piazza della svestizione, fino ad arrivare alla Basilica di San Francesco affollatissima e, quest’oggi, piena di impalcature per la costruzione di un palco. La visita alla Basilica è irrinunciabile, anche se oggi per me è quasi la decima volta, ma non ci si può stancare di ammirare gli affreschi di Giotto e Cimabue.
La giornata finisce con la cena di gruppo, presso l'Hotel Ballavista, e con un sano riposo nella quiete francescana.
2° Tappa - Assisi - Gubbio - km. 52,39
Pieve S. Nicolò - Montevillano (m. 614) km. 9
Salita Casacastalda - M.te della Dea (m 614) km. 7
Salita Palazzone (m. 535) km. 5
dislivello positivo m. 1294 - dislivello negativo m. 988
L’appuntamento quotidiano per la partenza è previsto per le ore 9.00, dopo aver preparato il bagaglio da affidare a Danilo per il trasporto. Oggi percorreremo circa 50 chilometri per arrivare a Gubbio, una delle mie città preferite. E’ una delle tappe che mi hanno più incuriosito perché il percorso sarà in gran parte su sentieri e strade secondarie, attraversando località a me sconosciute.
Lasciato l’Hotel Bellavista di S. Maria degli Angeli transitiamo ai piedi della Basilica di San Francesco con i suoi grandiosi contrafforti. Percorriamo via S. Fortunato prendendo decisamente per la campagna, aggirando il Monte Subasio verso la Valle del Chiascio. Il percorso è subito in salita e dopo 9 chilometri arriviamo a Montevillano. L’itinerario che stiamo percorrendo fa parte del “Sentiero Francescano” e ripercorre il cammino intrapreso tante volte dal fraticello.
Questi sentieri sono impervi come ai tempi di Francesco che, proprio tra questi boschi fu assalito da una banda di briganti, che, circondatolo, con toni minacciosi, gli chiesero chi fosse. Francesco, festante, rispose: «Io sono l’araldo del gran Re». Naturalmente i banditi non capirono e resi ancor più furibondi dal suo stato miserabile, dal mancato bottino e con il dubbio che li stesse prendendo in giro, lo gettarono in un fosso colmo di neve, dicendo: «Sta lì rozzo araldo di Dio» e, imprecando, s’allontanarono. Subito egli saltò fuori dal fosso e per niente turbato, scuotendosi la neve di dosso, continuò a cantare e proseguì il cammino, ringraziando il Signore per avergli concesso il dono della sopportazione.
In questi luoghi, che videro l'incessante operosità dei francescani, nell’alto medioevo passava quello che veniva chiamato il “Corridoio Bizantino” che separava i possedimenti longobardi da quella striscia montana controllata dai romano-bizantini. Il Corridoio difeso da fortificazioni difficilmente espugnabili, fu risparmiato dalle conquiste longobarde. Tale territorio gravitava in gran parte sulla Via Amerina che da Veio, alle porte di Roma, si sviluppava verso nord fino ad Amelia, Perugia e Gubbio, per proseguire per il Passo della Scheggia e ricongiungersi con la Via Flaminia fino a Rimini. Era un territorio bizantino che si incuneava all’interno dei ducati longobardi e che metteva in comunicazione Roma, capitale spirituale dell’Impero, con Ravenna capitale dell’Esarcato d’Italia.
Un percorso che nei secoli venne utilizzato anche dagli eserciti imperiali per raggiungere Roma per l’incoronazione. Non esiste una netta divisione tra i territori bizantini e longobardi, ma è possibile individuarne le rispettive influenze dall’analisi dei toponimi dei luoghi e degli edifici religiosi presenti sul territorio. Troviamo tanti casi di chiese consacrate e località con riferimenti a S. Michele Arcangelo da ricondurre alla dominazione Longobarda, così come tutte le dediche a S. Martino di Tours vanno ricollegate invece a quello che rimaneva dell’Impero Romano d’Occidente.
Terminata la discesa da Montevillano prendiamo via Roma verso Valfabbrica dove facciamo la prima sosta di giornata, all’ombra delle due torri medievali. Il borgo prende il nome dal vecchio monastero di Santa Maria in “Vado Fabbricae”. Seguendo il corso del fiume Chiascio andiamo verso Casacastalda, un centro di origine longobarda dove arrivò Erno Castaldo al seguito di Totila e vi costruì un castello. Il borgo entrò successivamente nello Stato Pontificio. Nel 1798 sconfitto il governo pontificio per opera delle truppe francesi, il Comune entrò nella Repubblica Romana. Nel 1814, caduto Napoleone, Casacastalda non sarà più Comune autonomo ma fu assegnata definitivamente a Valfabbrica del cui territorio comunale costituisce tuttora parte integrante. Arriviamo ai 500 metri di Casacastalda mediante una salita di 5 km. abbastanza impegnativa. Ne approfittiamo per fare la sosta del pranzo, sedendo in alcune panchine vicino al “Dolmen”, il Monumento al Motociclista.
Un monumento unico del suo genere: è una scultura del vuoto. All’interno della pietra appare la sagoma di un centauro in “piega” nell’atto di fare una curva. Il cippo sorge su una terrazza belvedere, lungo il marciapiede che costeggia la strada statale. È meta obbligata per gli amanti delle moto e luogo affermato per eventi sportivi, come ad esempio "Le Curve dell'Altro Cioccolato". Una manifestazione che vuole abbinare la passione della moto con la tradizione del cioccolato. Il monumento al Motociclista rappresenta un cippo in onore della Moto Guzzi. Un ricordo nostalgico di quando con la mia Guzzi 850 T percorrevo gran parte della penisola, dall’Alto Adige alla Calabria. Una moto con motore bicilindrico a V di 90 gradi, con freni anteriori a disco. L’ho guidata per oltre 10 anni negli anni ’70, con grande soddisfazione. La ragazza del bar mi dice che ogni fine settimana il “Belvedere” prende vita, arrivano moto di ogni colore, marca e cilindrata. Il “Dolmen” diventa il “Salotto dei motociclisti”.
Lasciata Casacastalda percorriamo altri 2 km. in salita verso il Monte della Dea a 614 metri di altitudine. Alla nostra sinistra, lungo la Valle del Chiascio si trova l’Abbazia di Vallingegno, dove Francesco trascorse il suo primo periodo di penitente, ma che lascia ben presto per andare errante nel mondo, cercando il suo Dio accanto ai bisognosi.
La discesa successiva ci porta ancora nella Valle del Chiascio. Dopo aver attraversato il fiume facciamo per 5 chilometri la salita di Palazzone per scendere in picchiata verso Gubbio, dove in località Padule incontriamo lo stabilimento della Colacem, uno dei più grandi cementifici italiani. Avvicinandoci a Gubbio cominciamo a vedere la vocazione storica (e turistica) della città medievale. Ogni costruzione, casa colonica, villa è imbandita di vessilli e stendardi colorati che ricordano l’annuale ricorrenza della “Corsa dei Ceri”. Più ci avviciniamo alla città e più i vessilli aumentano, in lontananza si ode il suono dei “tamburini” che si esercitano. Mi è successo di assistere ad uno spettacolo simile a Siena, quando ho fatto la Via Francigena.
Entriamo a Gubbio attraversando il parco di Santa Maria della Vittoria che ricorda il luogo dove Francesco incontrò “frate lupo”, che terrorizzava la città, ma che riuscì ad ammansire conquistandosi la riconoscenza di tutta la cittadinanza. In una nicchia della parete frontale c’è una lapide su cui è scritto: “Qui S. Francesco placò la perniciosa lupa”.
Percorrendo via Frate Lupo e Via Perugina arriviamo alla piazza dei Quaranta Martiri in ricordo dei partigiani uccisi dai nazisti il 22 giugno 1944. La piazza è chiusa sul lato nord dalla maestosa mole dello “Spedal Grande”. Sopra il grande ospedale, la corporazione dell’”Arte della Lana”, nel XVI sec. riuscì a costruire il “Loggiato dei Tiratori” che potrebbe sembrare un edificio da adibire al tiro della balestra, tanto in voga a Gubbio, invece il Loggiato serviva per “tirare” i panni, ossia i tessuti prodotti dagli artigiani del posto, per fargli raggiungere le dimensioni desiderate.
Lasciata la piazza facciamo un ampio giro per entrare nel centro storico attraverso Porta S. Lucia e tramite la via dei Consoli siamo arrivati a Piazza Grande dove c’è il Palazzo dei Consoli. L’Hotel Bosone si trova a poca distanza.
Dopo aver preso possesso della camera e sistemato i miei bagagli non posso rinunciare a fare un ampio giro per quello che considero uno dei più bei borghi d’Italia. Nella vicina Piazza Grande è stato allestito un vero campo di tiro: ci sono diversi tiratori che da un piccolo palco sotto Palazzo dei Consoli si esercitano con la balestra. Il “Palio della Balestra” è un’altra antica manifestazione che si tiene dal 1435, nell’ultima domenica di maggio. E’ una gara a cui ogni eugubino aspira a partecipare per vincere lo stendardo assegnato a chi colpisce il punto più vicino al centro del “tasso”, posto alla distanza di 36 metri.
Per questa manifestazione Gubbio è gemellata con Sansepolcro, dove il Palio si tiene la seconda domenica di settembre. I figuranti a Gubbio vestono costumi medievali, mentre a Sansepolcro si revocano i fasti rinascimentali con costumi realizzati in base agli affreschi di Piero della Francesca.
Passeggiare per Gubbio è un incanto, ogni angolo, ogni facciata, ogni finestra, ogni vicolo o piazzetta racconta un frammento di storia e di arte. Quando ammiro gli antichi borghi medievali, faccio sempre il confronto con l’edilizia moderna. Non c’è paragone, la freddezza e la razionalità del moderno non mi suscita nessuna emozione. Mentre cammino sento in lontananza i tamburini che scandiscono il tipico ritmo della fanfara, ogni tanto sento anche qualche squillo di tromba. Mi avvicino il più possibile a quei suoni e, arrivato ad una piazzetta, scorgo un gruppo di ragazzetti che si esercitano mettendoci tanto impegno, ma senza perdere la loro gioiosità e spontaneità. Vedendo il loro entusiasmo, credo che tutti i giovani eugubini abbiano il desiderio di affiancare un giorno i figuranti più adulti. Mi hanno informato che esistono programmi di educazione per giovani, corsi di introduzione, perfezionamento e formazione professionale, perché fare i figuranti, suonatori e sbandieratori, per gli eugubini è una missione ed è necessaria una competenza sul folklore, l’arte, la storia, e le tradizioni.
Completato il mio giro per i vicoli della città risalgo per Via dei Consoli. Al tavolino di un bar vedo tre compagne di viaggio che stanno sorseggiando un aperitivo. Le saluto e chiedo se posso accomodarmi, nei primi due giorni di cammino non ci sono state molte occasione di dialogo. Mi sembra il momento giusto per approfondire l’amicizia con Tien, Lidia e Patry.
Con Tien, l’olandesina errante, non riesco a dialogare perché da buona olandese, parla molto bene l'inglese, ma non capisce l’italiano, come io non capisco l’inglese. A scuola io ho studiato sia inglese che francese, ma a quei tempi agli studenti non veniva chiesto di parlare, ma di saper tradurre brani nel rispetto della grammatica e della sintassi. Studiando le lingue ho imparato molto bene la grammatica (italiana). Non sono mai riuscito a parlare le lingue, anche se leggendo riesco a tradurre qualche pagina abbastanza agevolmente.
Lidia e Patrizia sono amiche intime. Vengono dagli Altipiani di Asiago e sono unite dalla passione per le moto di grossa cilindrata, vanno spesso insieme e ci tengono a precisare che di fronte ai loro competitori maschi fanno sempre un’ottima figura. Per la prima volta hanno abbandonato le loro moto decidendo di fare un’esperienza cicloturistica e, finora, si dichiarano soddisfatte del Cammino di San Francesco. Posso confermare che anche in MTB non sfigurano affatto, specialmente Patry si dimostra una perfetta discesista, riesce a mettere a frutto anche in bici tutta l’abilità di centaura, disegnando curve perfette che evidenziano tutta la pratica acquisita con la moto. Con la sua sella telescopica, quando inizia una discesa, abbassa la sella e si butta a capofitto, dimostrando una buona conoscenza della tecnica ciclistica: con una posizione più raccolta si abbassa il baricentro e si migliora la stabilità.
Con Lidia mi accomuna il mestiere di contabile, mentre Patrizia è proprio una sorpresa, collabora nell’azienda di trasporto di famiglia. Mi ha fatto vedere la sua patente, possiede tutte le categorie C e D per la guida di autocarri, autotreni, macchine operatrici, motrici con semirimorchio e autobus. Mi racconta che quando in azienda ci sono problemi con qualche automezzo, spesso viene chiamata lei per riportare l’automezzo sulla giusta carreggiata. A vederla, con quegli occhi da cerbiatta e il sorriso angelico, non penseresti mai di trovarti di fronte ad una camionista, conduttrice di TIR.
Abbiamo saputo che questa sera ci sarà una manifestazione in costume per la ricorrenza del decimo anno dell’associazione “sbandieratori”. Andiamo, quindi, nella vicina Piazza Grande dove si terrà l’esibizione. Poco dopo sentiamo il tipico ritmo dei tamburini. Lungo via XX Settembre sta scendendo un corteo, è un numeroso gruppo di figuranti in costume che avanza con una marcia cadenzata. Il primo gruppo, formato da suonatori di tamburi e trombe, entra nella piazza e si sistema di fronte al Palazzo dei Consoli. Poco dopo entrano anche gli sbandieratori che, dopo aver fatto due giri di corsa, prendono possesso all’interno della piazza ciascuno nella propria postazione e iniziano a fare evoluzioni con gli stendardi. Qui a Gubbio è chiamato il “Gioco delle Bandiere”. E’ una “prova generale” per il Palio, che si terrà la domenica successiva. Gli sbandieratori iniziano da piroette semplici e poi sempre più complesse e suggestive. Le bandiere si alzano nel cielo disegnando ampi archi e poi vengono indirizzati ai figuranti vicini e lontani con evoluzioni multiformi. Per queste manifestazioni sbandieratori, tamburini, trombettieri e figuranti si allenano l’intero anno per il perfezionamento delle coreografie. E’ stato uno spettacolo del tutto imprevisto che ha arricchito il nostro Cammino di San Francesco.
La manifestazione storica più importante di Gubbio è, però, la “Corsa dei Ceri” che si tiene ogni anno il 15 maggio in onore del patrono Sant’Ubaldo, la cui statua sfila per le strade del borgo insieme a quelle di San Giorgio e Sant’Antonio. L'"l'Università dei Muratori, Scalpelli ed Arti simili" è depositaria della Festa. I ceraioli sono divisi in tre famiglie "Santubaldari", "Sangiorgiari" e "Santantoniari". Quando sfilano marciano tutti insieme, disposti in tre file, uno per ogni Cero, con San Giorgio a destra, Sant'Ubaldo nel mezzo e Sant'Antonio a sinistra. I tamburini precedono tutte le sfilate dei ceraioli.
I Ceri sono tre macchine di legno a forma di prismi ottagonali sovrapposti e decorati, pesanti circa 4 quintali, portati a spalla dai ceraioli che corrono per le strade di Gubbio e terminando la corsa sul Monte Igino lungo la ripida salita fino alla Basilica di Sant’Ubaldo. L’obiettivo dei ceraioli non è quello di vincere la corsa. La festa dei ceri non è una competizione, tra le poche regole che devono rispettare i ceraioli c’è la proibizione di fare sorpassi. Durante la corsa ogni ceraiolo vuole completare il faticoso percorso fino alla Basilica. Ogni famiglia di ceraioli vuole fare bella figura, evitare pieghe, cadute e distacchi, oltreché avere una corsa spedita. L’entrata nella Basilica deve avvenire rigorosamente nell’ordine: Sant’Ubaldo, San Giorgio e poi Sant’Antonio. Per motivi di sicurezza ci sono, invece, regole rigide per gli spettatori e i turisti che sono fatte rispettare dal servizio d’ordine. E' fortemente sconsigliato l'accesso in Piazza Grande ai cardiopatici, ai soggetti fragili, alle donne in gravidanza, ai bambini fino ai 12 anni. Occorre molta prudenza nel partecipare alla manifestazione, trovarsi in mezzo alla Corsa significherebbe essere travolti.
La Corsa dei Ceri si svolge in onore di S. Ubaldo vescovo di Gubbio, che nell'assedio del 1154 incitò, spronandoli alla vittoria, i suoi concittadini contro l'assalto dei Comuni vicini.
Il tempo è tiranno, avendo assistito alla manifestazione degli sbandieratori non c’è stata la possibilità di salire alla Basilica di S. Ubaldo, forse, il punto turistico più interessante della città. E’ l'ennesima volta che vengo a Gubbio senza visitare la Basilica. E’ un modo per farmi ritornare ancora in questo meraviglioso borgo.
3° Tappa - Gubbio - Città di Castello - km. 57,59
Salita S. Benedetto Vecchio (m. 668) km. 2
Salita Pieve de Saddi (m. 658) km. 3
dislivello positivo m. 1107 - dislivello negativo m. 1358
Dopo il bel pomeriggio trascorso nella città dei Ceri, la terza tappa ci porterà a Città di Castello con un percorso immerso nel verde su strade secondarie prive di traffico. Facendo un ampio giro per il centro storico, transitiamo per Piazza 40 Martiri e proseguendo lungo le mura arriviamo al Teatro Romano dove ci fermiamo qualche minuto. Si prosegue in aperta campagna fino a Mocaiana dove la strada inizia a salire verso San Benedetto Vecchio. Il “Sentiero di San Francesco” si snoda in un ambiente bucolico con salite e discese che si susseguono attraversando boschi dalla tipica vegetazione appenninica. Superato San Benedetto lasciamo la strada provinciale per prendere una meravigliosa discesa sterrata che ci consente di andare a ruota libera. Approfitto della situazione e scendo senza bisogno di frenare, affidandomi alle sensazioni che mi dà il contatto con il manubrio e i con i pedali. Poco lontano ammiro la Serra di Burano, un altro territorio completamente selvatico, dove sono transitato qualche anno fa.
Attraversiamo il guado del Torrente Assino e arriviamo alla strada provinciale che ci porta a Pietralunga, dove ci fermiamo per il pranzo. Come sempre approfitto per fare un giro per il paese, nella piazza centrale colpisce la mia attenzione una statua in bronzo che raffigura un cane accompagnato dal cercatore di tartufi. In diverse località appenniniche c’è la tradizione dei tartufi, a Pietralunga si tiene annualmente la festa del tartufo e della patata bianca con la Mostra Mercato.
Anche Pietralunga è stata Longobarda, testimoniata dalla Rocca pentagonale. Il territorio di Pietralunga è attraversato da vari tratti di strade romane. Durante il medioevo da qui partiva il “Diverticulum ab Helvillo-Anconam”. Il Diverticulum era una deviazione della via Flaminia che attraverso il Valico di Fossato (l’antica Helvillo) raggiungeva il porto di Ancona. Per la sua conformazione fisica il valico risultava uno dei passaggi più agevoli da percorrere tra gli opposti versanti dell’Appennino centrale.
Il Comune di Pietralunga è l’unico Comune dell'Umbria decorato medaglia di bronzo al Valor Militare. Per unanime volontà di partigiani e istituzioni, è stato identificato come il simbolo regionale della Resistenza.
All’uscita di Pietralunga prendiamo una strada sterrata avviandoci verso Pieve de’ Saddi con alcune discese e le conseguenti salite, sempre circondati da una fitta vegetazione. Pieve de' Saddi, il cui nome è una contrazione di “Pieve dei Santi”, è un esempio di basilica paleocristiana. Fu edificata attorno alla cripta dove, in origine, era situata la tomba di San Crescentino, un legionario romano convertito al cristianesimo, decapitato sotto l’Imperatore Diocleziano. Oggi è un centro di accoglienza per viandanti e siamo stati accolti gentilmente dalla comunità che gestisce l’ostello. Durante la sosta incontro una donna che, orgogliosamente, mi confida che suo figlio è il parroco della Pieve e che gli amici lo aiutano a tenere in funzione l’ostello "donativo". Nonostante la mancanza di vocazioni la Pieve riesce a restare aperta e ad offrire assistenza ai pellegrini grazie all’operato di alcuni volontari laici.
Riprendiamo a pedalare e rimaniamo per alcuni chilometri all’interno della boscaglia appenninica. L’ultimo tratto lo percorriamo sulla strada provinciale che porta a Baucca e costeggiando il Tevere entriamo a Città di Castello, l’antica “Tifernum Tiberinum”. L’albergo “Le Mura” si trova in Piazza delle Tabacchine, addossato alle vecchie mura. Una muraglia che circonda la città con numerosi torri di avvistamento, ma completamente priva di merlature a dimostrazione delle continue discordie interne tra la parte guelfa e ghibellina. Finì per subire prima la supremazia dell’Impero e poi quella del Papato, con un breve intervallo di libertà che fu assicurata dal dominio di Nicolò Vitelli che alla sua morte fu proclamato “padre della patria”.
Città di Castello fu fondata dagli Umbri e fu possedimento dei Romani di cui rimangono molti reperti storici. Fu anche insediamento longobardo che la chiamarono “Castrum Felicitatis” e la ricompresero nel Ducato di Tuscia. Durante il periodo del Rinascimento, grazie alla signoria dei Vitelli, alleati dei Medici, Città di Castello divenne un centro di arte e di cultura e oggi rappresenta l’unica città umbra di stampo rinascimentale.
Il Comune di Città di Castello possiede ancora un’exclave nel territorio marchigiano: il Borgo di Monte Ruperto. Il borgo racchiude una curiosità storica riguardante il sindaco di Città di Castello il quale viene fregiato del titolo nobiliare di Barone di Monte Ruperto per espressa volontà testamentaria della famiglia proprietaria del castello. Il fatto risale al medioevo quando il borgo, durante una carestia chiese aiuto ai vicini e solo Città di Castello inviò alcuni muli carichi di vettovaglie. Memori del gesto del comune tifernate, i Signori di Monte Ruperto decisero di donare il loro territorio al comune e ancora oggi il sindaco di Città di Castello si può fregiare del titolo di Barone e indossare il prezioso abito d’epoca. In seguito alla donazione gli abitanti del Monte Ruperto avevano agevolazioni fiscali comprovato da un documento del 1274 che stabiliva il pagamento di soli cinque soldi per focolare da pagarsi il 27 agosto di ogni anno. Attualmente i 500 ettari che costituivano il vecchio borgo sono ricoperti da boschi impenetrabili.
E’ una zona completamente disabitata, con alcuni ruderi abbandonati. Sulle carte topografiche viene ancora presentata come un’exclave umbra nella regione Marche, ma qualcuno preferisce identificarla come un’enclave marchigiana della regione Umbria. Nel settembre 2020, nel compiere la mia “dorsale appenninica” in e-bike sono transitato in prossimità del Borgo di Monte Ruperto del quale non è rimasto nessun riferimento. I ruderi sono completamente ricoperti da vegetazione selvatica. Ho cercato una qualche via di accesso, ma ogni traccia è completamente cancellata. Praticamente il borgo di Monte Ruperto esiste su tutte le carte geografiche e topografiche, ma pochi avventurieri possono introdursi nella fitta boscaglia per raggiungere i suoi ruderi. Essendo appassionato e collezionista di carte geografiche ogni volta che vedo il suo perimetro tracciato ai confini tra le Marche e l'Umbria mi suscita la curiosità di visitarlo e che un giorno spero di poterla soddisfare.
Facendo un giro per la città tra i caratteristici vicoli, lungo i quali passeggio sempre volentieri, ammiro il campanile rotondo del Duomo, con la vicina Torre Civica. Rappresentano due dei pochi esempi di romanico rimasti in città, rimaneggiata totalmente dalle successive tendenze artistiche rinascimentali.
Anche Città di Castello meriterebbe un’approfondita visita come tutti i borghi antichi che attraversiamo, ma ormai l’esperienza mi dice che girando in bici diventa difficile dedicare tempo ai dettagli. Rassegnato mi limito a godere ciò che si presenta davanti ai miei occhi con nessuna pretesa di ricerca artistica o turistica.
4° Tappa - Città di Castello - Chiusi della Verna- km. 75,20
Salita verso Monterchi (490) km. 5
Valico dello Spino (m. 1056 ) km. 12
Salita alla Verna (m. 1148) km. 3
dislivello positivo m. 1485 - dislivello negativo m. 642
La quarta tappa si svolgerà lungo l’Alta Valle del Tevere. Lasciamo Città di Castello costeggiando per un primo tratto il fiume su una bella pista ciclabile alberata.
In località Selci-Lama ci allontaniamo dal greto del fiume per salire verso Citerna, uno dei tipici borghi medievali dell’Umbria. Da Citerna si gode di un vasto panorama che spazia da Città di Castello a Sansepolcro e a tutto l’Alto Tevere. In lontananza si ammira la Serra di Burano che fa da spartiacque tra il bacino tirrenico e quello adriatico. Con un tale panorama una foto ricordo è obbligatoria.
Citerna ha sempre gravitato intorno a Città di Castello, godendo anche della protezione della Signoria dei Vitelli, sotto la quale conobbe il periodo del suo massimo sviluppo urbano. Conserva una importante cinta muraria dove un piccolo arco immette nel percorso del suggestivo camminamento medievale. Pur essendo un piccolo borgo, i cittadini tengono viva la memoria storica grazie a un gruppo di volontari che gestisce il punto informazioni del Comune accogliendo turisti e pellegrini del Camino di San Francesco.
Anche Citerna vanta il passaggio di Garibaldi con la sua colonna di circa 2.000 volontari in fuga dopo la sconfitta nella battaglia di Mentana del 1867. L'esercito francese sbarrò la strada alla spedizione garibaldina nel tentativo di annettere Roma all'Italia. Ancora una volta i francesi ebbero facilmente ragione dei Garibaldini, equipaggiati con obsolete armi ad avancarica: il comandante francese Pierre Louis Charles de Failly, al termine dello scontro, commentò: «I nostri Chassepot hanno fatto meraviglie».
La via principale è dedicata all’eroe dei due mondi, lungo la quale c’è la chiesa di San Francesco che custodisce una statua in terracotta recentemente restaurata: La “Madonna di Donatello”. Un manufatto che in passato ha subìto diversi rimaneggiamenti che hanno messo a repentaglio l’originalità dell’opera. Con il recente restauro durato quasi sette anni, realizzato dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, è stato restituito alla visione del pubblico un complesso scultoreo di affascinante bellezza. Dal restauro è emerso che l’opera non è stata ricavata da uno stampo, ma è una scultura modellata direttamente in un blocco di argilla a tutto tondo. Con Lidia e Patrizia abbiamo potuto fare una visita abbastanza frettolosa, ma abbiamo assistito a una straordinaria presentazione dell’opera e una descrizione del restauro veramente appassionata fatta da un volontario che abbiamo dovuto interrompere, dopo averlo ringraziato, per raggiungere i compagni di viaggio che stavano ripartendo. La guida, entusiasta del proprio ruolo, ci avrebbe deliziato ancora per molto tempo ma, si sa, viaggiando in bici bisogna rispettare la tabella di marcia, non ci si può attardare più di tanto.
Siamo al confine tra Umbria e Toscana, infatti la vicina Monterchi, famosa per il quadro della “Madonna del Parto” di Piero della Francesca si trova a pochi chilometri, ma Citerna è in Umbria, mentre Monterchi appartiene alla Toscana.
Scendiamo da Citerna per ritornare verso il Tevere, dopo Fighille attraversiamo il confine di regione lasciando definitivamente l’Umbria per entrare in Toscana. Stiamo attraversando il territorio della famosa “Battaglia di Anghiari” che ebbe un’importanza politica con il successo dei Medici contro Filippo Maria Visconti, ma che secondo Macchiavelli fu molto modesta dal punto di vista militare. L’importanza dell’evento lo si deve soprattutto alla rappresentazione pittorica tentata da Leonardo da Vinci che, però, ebbe un risultato disastroso per alcuni errori fatti dal pittore nella miscelazione degli ingredienti. L’affresco andò distrutto già durante la sua realizzazione, i colori si sciolsero nonostante tutti gli sforzi fatti e dell’affresco non rimasero che macchie informi sul muro della sala dei Cinquecento, in Palazzo Vecchio a Firenze. Del famoso affresco sono state fatte diverse narrazioni da parte di alcuni storici, tra cui Giorgio Vasari, diversi sono stati i tentativi fatti per riscoprire le tracce dell’affresco, ma non hanno avuto successo. Qualcuno ha anche messo in dubbio che Leonardo lo abbia mai dipinto.
Fu Pier Soderini, gonfaloniere della rinata Repubblica fiorentina ad affidare a Leonardo l'incarico di decorare una delle grandi pareti del nuovo Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio. Nella parete di fronte era stato affidato a Michelangelo un affresco gemello che rappresentava la "Battaglia di Càscina". Il Vasari è molto chiaro nei suoi scritti: il lato sinistro della parete era riservato a Michelangelo, quello destro a Leonardo. La Sala dei Cinquecento, però, nel tempo ebbe diverse ristrutturazioni e modifiche, alcuna delle quali erano state effettuate anche dallo stesso Vasari che, avendo una grande ammirazione per Leonardo, forse non avrebbe osato distruggere una sua opera. Proprio sul lato che doveva ospitare l’affresco di Leonardo il Vasari realizzò un su dipinto che ricordava la "Battaglia di Marciano", attualmente visibile insieme al dipinto di Michelangelo. Sta di fatto che del “Leonardo scomparso” non ci sono documenti storici, tuttavia rimangono due disegni che lo stesso Leonardo aveva realizzato per il cartone preparatorio. Questi disegni, conservati oggi a Budapest, rappresentano la figura di due guerrieri. Certamente è un po' poco per testimoniare l’esistenza dell’affresco leonardesco. Ma questa è la "storia" che dobbiamo accettare con tutti i suoi limiti, le sue leggende e le sue invenzioni.
Ci furono diversi tentativi per riscoprire, nel muro del Salone dei Cinquecento, il dipinto scomparso e molte furono le polemiche e le dispute con coloro che erano contrari ad ogni tentativo senza una certezza sui risultati. L'ultimo tentativo ci fu nel giugno 2005, quando Maurizio Seracini dell’Università della California di San Diego annunciò a tutto il mondo che dietro l’affresco di Giorgio Vasari, raffigurante la Battaglia di Marciano della Chiana, si trovava un muro segreto che avrebbe potuto celare i resti della Battaglia di Anghiari. Nel 2007 venne istituito un comitato per iniziare le operazioni di ricerca. Tale comitato, che assicurava la serietà e la scientificità delle operazioni, era formato da diversi esperti, tra i membri figuravano oltre a Seracini, la soprintendente Cristina Acidini e gli studiosi Antonio Paolucci e Carlo Pedretti. L’iniziativa del team di ricerca venne incoraggiato dall’allora presidente della Provincia di Firenze Matteo Renzi che vedeva nel loro operato una opportunità per la città di Firenze e per tutta l’arte italiana.
"Non c’è nessuna Battaglia di Anghiari sotto il dipinto del Vasari nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio", rispose Cecilia Frosinini, esperta di Leonardo da Vinci e direttrice del dipartimento Restauro pitture murali dell’Opificio delle Pietre Dure. Fu presentato anche un esposto alla procura di Firenze per bloccare la ricerca e un altro gruppo di studiosi lanciò un appello pubblico per esprimere preoccupazione sulla sorte dell’affresco del Vasari e dubbi sulla ricerca dell’opera di Leonardo. Nel mese di ottobre 2020 infine, dopo anni di ricerche, viene accettata l'ipotesi che probabilmente Leonardo si fermò alla delicata fase preparatoria del muro per motivi tecnici, senza mai iniziare la pittura vera e propria. Il grande interesse dei contemporanei sono la conferma dello straordinario successo di questa sfortunata raffigurazione, ma soprattutto che Leonardo da Vinci è stato anche un grande pittore, ma era soprattutto un grande scienziato e il suo genio si espletava nella sperimentazione su vari campi. Proprio per la sua capacità di sperimentare nuove tecniche è stato tradito nella realizzazione della sua opera.
Scendendo da Citerna e attraversata la pianura di Anghiari, oltrepassiamo il Tevere ed entriamo a Sansepolcro mentre sul Viale Armando Diaz si sta svolgendo la fiera del “cibo di strada”. Numerosi sono gli stand con alimenti di varia natura e provenienza. Ne approfittiamo per fare la sosta per il pranzo. Paolo ci concede un’ora di tempo, durante la quale facciamo un piccolo giro per il centro cittadino per tornare poi su Viale Diaz dove sono approntati diversi tavoli con sedie per consentire la consumazione dei cibi. Nel percorrere il viale mi aveva colpito un grande tegame dove stavano preparando una “paella” con i due ingredienti principali: riso e zafferano di cui sono molto goloso. Naturalmente faccio il pranzo con una bella paella fumante all’ombra del viale.
Sansepolcro si trova alle pendici dell’Alpe della Luna in territorio toscano, ma geograficamente costituisce la prosecuzione della Valtiberina umbra. Sansepolcro è anche la città di Piero della Francesca le cui opere sono esposte nella pinacoteca comunale che, naturalmente, non abbiamo il tempo di visitare.
Significativa è anche la vocazione alimentare della città per la presenza di alcune importanti aziende del settore. Il pastificio “Buitoni”, attivo da oltre un secolo, rappresenta un po' il simbolo della pasta italiana. In prossimità di Sansepolcro c’è lo stabilimento “Aboca”, un’azienda di prodotti officinali. Nel centro cittadino è stato realizzato il “Museo delle erbe officinali Aboca”, con una suggestiva e fedele ricostruzione degli antichi laboratori che raccontano la storia delle erbe e il rapporto tra l’uomo e le piante. Un percorso che illustra l’importanza delle erbe nella salute dell’uomo. Non è stato possibile visitare neanche questo museo, ma resta sempre un buon motivo per tornare con più calma.
Come abbiamo visto Sansepolcro è gemellata con Gubbio con il tradizionale “Palio della Balestra” che qui si tiene la prima domenica di settembre.
Uscendo dall’abitato di Sansepolcro proseguiamo sempre lungo la Valtiberina e a mezzacosta possiamo ammirare il panorama del Lago di Montedoglio, superato il quale arriviamo a Pieve Santo Stefano, ultimo centro abitato di una certa importanza dell’Alta Val del Tevere. Poco distante si erge il Monte Fumaiolo dove ci sono le sorgenti del “biondo fiume”, dalle cui acque la leggenda dei due gemelli fa nascere la “città eterna”.
Per una mia deformazione professionale all’ingresso della città mi colpisce l’insegna della “Tratos Cavi”. Ho vissuto per oltre 35 anni nel mondo dell’industria dei conduttori elettici e telefonici, un periodo che rappresenta un momento importante della mia vita che ricordo sempre con piacere. Conosco, quindi, questa realtà imprenditoriale attiva in un settore che mi ha visto operare per tanto tempo.
Pieve Santo Stefano è tra le città decorate al valor militare per la guerra di liberazione, insignito il 7 marzo 1957 della croce di guerra al valor militare per i sacrifici delle sue popolazioni e per l'attività nella lotta partigiana. Sono territori, questi, che hanno vissuto momenti cruciali durante la seconda guerra mondiale, con gli alleati bloccati per diverso tempo sulla “Linea Gotica”, come erano rimasti fermi sulla "Linea Gustav" in quella che è stata una lunga, lenta e disastrosa avanzata lungo la penisola.
Noi non superiamo la Line Gotica, ma prendiamo la strada provinciale della Verna che sale al Valico dello Spino a 1056 metri di altitudine. La salita si snoda all’interno di un fitto bosco ai confini con le Foreste Casentinesi. Arrivati al Valico la salita non termina, perché dopo una leggera discesa, rimane da percorrere l’ultimo strappo di 4 chilometri verso il Santuario. L’emozione che provo tra questi boschi e queste mura è la stessa di quando visito il Sacro Speco benedettino di Subiaco.
Il Santuario della Verna è una delle destinazioni più importanti dell’intero Cammino di San Francesco. Ci vorrebbero molte pagine per descrivere le opere presenti nel Santuario e molte pagine ci vorrebbero per raccontare tutte le vicende francescane di questo luogo. E', però, interessante conoscere come a Francesco venne concesso il promontorio roccioso che era stato dedicato a “Laverna” una divinità mitologica romana, protettrice dei ladri e degli impostori che si nascondevano nel fitto bosco di questa montagna. Francesco mentre si trovava insieme a frate Leone nel castello di San Leo, nel Montefeltro, montò su di un muretto, iniziò a predicare, lanciando il tema della sua canzone d’amore: “Tanto è quel bene ch’io aspetto, che ogni pena m’è diletto”. Tra gli ascoltatori c’era il Conte di Chiusi in Casentino, Orlando Catani, che chiese di poter parlare con il fraticello. Era intenzione del Conte fare un’offerta che riteneva adatta a quel predicatore e alla sua ricerca di solitudine: “Io ho in Toscana uno monte divotissimo il quale si chiama monte della Vernia, lo quale è molto solitario e salvatico ed è troppo bene atto a chi volesse fare penitenza, in luogo rimosso dalle gente, o a chi desidera fare vita solitaria. S’egli ti piacesse, volentieri Io ti donerei a te e a’ tuoi compagni per salute dell’anima mia”. L’offerta piacque a Francesco che, però, accettò solo dopo aver mandato a verificare ciò che aveva detto il Conte e se il luogo fosse idoneo alla loro vita di penitenti.
Naturalmente faccio un ampio giro per il Santuario, dopo il quale Paolo ci invita a visitare la “pietra di Adamo”. Riprendiamo in senso contrario la strada fatta all’andata e poco prima dell’abitato di Chiusi della Verna, giriamo a sinistra verso un piccolo viottolo che ci porta ad un agglomerato di case fino alla chiesa intestata a San Michele Arcangelo. Qui ha vissuto Michelangelo quando il padre Ludovico Buonarroti ricoprì la carica di podestà. Esiste ancora la podesteria di fronte ai ruderi del Castello Catani. Michelangelo che conosceva bene questi posti, nel decorare la volta della Cappella Sistina volle raffigurare Adamo all’atto della sua creazione disteso su una roccia molto simile a quella di Chiusi della Verna con lo sfondo del Monte Penna. La somiglianza tra il paesaggio reale e quello riprodotto dall’artista è talmente forte che si è sentita la necessità di approfondite ricerche. La scoperta degli scenari michelangioleschi è stata fatta nel 2004 dallo storico Simmaco Percario, e Alessandro De Vivo, un artista del luogo. Gli studiosi hanno convenuto che Michelangelo, nel rappresentare Adamo seduto nella roccia, abbia tenuto conto di un suo schizzo preparatorio preso direttamente sul posto. Ovviamente si tratta di un’intuizione degli studiosi e, non essendoci nessun documento di prova, l’unico che potrebbe confermare l’accaduto sarebbe il grande pittore, ma dobbiamo accontentarci della suggestiva ricostruzione dei fatti da parte degli storici.
Il percorso di giornata termina all’Albergo Bellavista di Chiusi dove pernottiamo in un’atmosfera veramente francescana.
5° Tappa - Chiusi della Verna - Arezzo - km. 42,71
dislivello positivo m. 236 - dislivello negativo m. 927
Oggi, 28 maggio, è domenica. Sono arrivato all’ultima delle dieci meravigliose tappe del Cammino di San Francesco. Al termine di questa tappa si concluderà il mio binomio “San Benedetto” e “San Francesco”, con venti tappe che si sono incrociate lungo l’Appennino.
Arrivare alla Verna è stata la degna conclusione di quest’ultimo cammino, dopo aver percorso gran parte dei luoghi francescani.
Questi sono luoghi che il fraticello d’Assisi ha veramente attraversato, essendo uno dei punti fondamentali della sua Regola quello che i frati devono stare tra la gente e con la gente. Era talmente forte la sua convinzione di una vita fatta di elemosina e di estrema povertà, che in un capitolo svolto alla Porziuncola con i suoi confratelli, a un loro suggerimento di adottare precetti meno rigidi, riferendosi a forme di vita religiosa precedenti, egli rispose “Fratelli, fratelli miei, Dio mi ha chiamato per la via dell’umiltà e mi ha mostrato la via della semplicità. Non voglio quindi che mi nominiate altre regole, né quella di sant’Agostino, né quella di san Bernardo o di san Benedetto. Il Signore mi ha detto che questo egli voleva: che io fossi nel mondo un ‘novello pazzo’: e il Signore non vuole condurci per altra via che quella di questa scienza!”
Ciò potrebbe sembrare una netta distinzione tra Benedetto e Francesco, ma un punto accomuna le due regole: una concezione di vita comunitaria che contribuì a disegnare una nuova società, completamente diversa da quella dell'epoca classica e dell'epoca medievale.
Dalla maestosità di Montecassino i monaci benedettini, a partire dal V secolo, furono artefici di quello che con il tempo divenne la costruzione dell’Europa “rendendo il quotidiano eroico e l’eroico quotidiano” (Giovanni Paolo II - Norcia 23 marzo 1980) a cominciare dalla valorizzazione del lavoro come antidoto all’ozio, che venne sintetizzata nella famosa espressione "ora et labora".
Dobbiamo ai benedettini l’invenzione di molti strumenti che miglioravano il lavoro nell'agricoltura e riducevano la fatica quotidiana degli artigiani. Dobbiamo ai benedettini l’organizzazione sociale dei Monasteri che, successivamente, si estese ai liberi comuni. Nel mondo classico il lavoro non era elemento di buona vita. Non solo il lavoro manuale, ma ogni tipo di lavoro era destinato agli schiavi, il cittadino libero non lavorava.
La Regola francescana fu una vera rivoluzione per l'epoca. In una società basata sull'indifferenza per i più deboli, l'esclusione degli emarginati e la sottomissione delle donne e dei figli, Francesco predicava il principio della fraternità e, di conseguenza il principio di reciprocità volendo abolire all'interno dell'ordine ogni gerarchia, essendo lui il primo a mettersi al servizio dei suoi fraticelli.
Sono stati i francescani che hanno voluta la netta distinzione tra prestito e usura con lo scopo di tutelare i più bisognosi. Sull’esempio dei francescani si svilupparono i "Monti di Pietà" per la concessione di prestiti controllati e con regole ben precise a favore dei ceti più disagiati. Dalle corporazioni medievali scaturirono le Società di Mutuo Soccorso. Grazie ai benedettini e ai francescani si diffuse come stile di vita il principio evangelico della solidarietà che portò a un ripensamento dell’economia. Anche Francesco nel suo Testamento formulato prima di morire vuole riaffermare l'importanza del lavoro, già espresso nella Regola dei Frati Minori, e ordina ai suoi seguaci che se qualcuno non sa lavorare deve imparare.
Nel medioevo la povertà veniva considerata una maledizione divina meritata per qualche colpa commessa. “I poveri si ritrovavano così condannati due volte: dalla vita e dalla Religione (il libro di Giobbe è una delle vette etiche dell’antichità proprio perché è una reazione contro l’idea della povertà come colpa), e i ricchi si sentivano tranquilli, giustificati e doppiamente benedetti”. (L.Bruni e A. Smerigli in “Benedetta Economia”)
Il rifiuto di ogni privilegio nella massima povertà era in contraddizione con le idee non solo della società civile, ma anche della stessa Chiesa convinta della sua teologia meritocratica. “La misericordia è l’opposto della meritocrazia: non siamo perdonati perché lo meritiamo, ma è proprio la condizione di demerito che genera la misericordia. Le società meritocratiche sono spietate........Il merito può svolgere un buon compito in una società già giusta; ma nelle società ancora non giuste, la meritocrazia, il governo del merito, amplifica le ingiustizie." (L.Bruni e A.Smerigli in “Benedetta Economia”)
In sintonia con Bruni e Smerigli e mi verrebbe da dire anche che il premio ai vincitori di ogni tipo di competizione (nella carriera, nello sport, nelle scienze, ecc.) è un premio alla “meritocrazia”, ma non è sempre meritato. L’essere meno capace non è sempre faccenda di demerito, ma di condizioni sociali e ambientali ereditate, indipendenti dalla propria volontà e dal proprio impegno.
Il merito è sempre in contrasto con il bisogno. Francesco ha voluto dedicarsi ai più bisognosi, ai più umili, ai diseredati. Nella sua Regola aveva voluto inserire l'obbligo della povertà ad imitazione della vita evangelica, rischiando anche la scomunica abbattutasi su tanti ordini "mendicanti".
Entrambi hanno avuto un ruolo fondamentale non solo nell'ambito religioso ma anche sociale; in un epoca dove il lavoro era una prerogativa riservata agli schiavi e ai poveri, averlo esaltato e, direi, averlo liberato dandogli dignità, è un grande merito sia di Benedetto che di Francesco.
Il cristianesimo praticato nei Monasteri benedettini e nei Conventi francescani ha contribuito a dare uno spessore al pensiero di una religione tartassata fin tropo dalla lotta per le investiture e dalla disputa tra Imperatori e Pontefici, mai chiarita e mai effettivamente terminata. Certamente ha contato molto l'esempio di vita che monaci e frati diffondevano tra i fedeli e i cittadini, più dei dogmi imposti dai sinodi e dai concili.
Per la diffusione della nuova religione, fin dalle origini, risultò sicuramente vincente la decisione di Pietro e di Paolo di portare la predicazione a Roma. Fu soprattutto Paolo, che si sentiva pienamente cittadino romano, ad avere una visione più ampia rispetto agli altri seguaci di Cristo che si andavano organizzando nelle piccole comunità locali. Come si narra negli Atti degli Apostoli fu lo stesso Gesù che esortò a essere "testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (Atti 1,6-8). Il nuovo messaggio che maturò nei piccoli villaggi della Palestina si diffuse inizialmente con un’opera di divulgazione orale o con piccoli testi come le “epistole” paoline, mediante predicatori itineranti. Epistole viaggianti simili a lettere tra amici e confratelli riguardanti la nuova fede. Fu da Roma che, utilizzando la vasta ed efficiente rete stradale, la nuova fede e le nuove idee raggiunsero agevolmente i gruppi di ascolto che si venivano formando nelle città dell’Impero. La rapida espansione dei primi anni deve molto al sistema di comunicazione viaria, ma usufruì anche della cosiddetta “pax romana” che garantiva sicurezza e affidabilità nei viaggi lungo le grandi rotte commerciali. Una pace che, paradossalmente, non aveva niente a che fare con la “Pax Cristi”, perché per i romani la pace non era segno di riconciliazione e di giustizia, ma era il risultato della guerra che terminava con la sottomissione degli sconfitti. In piena espansione dell’Impero Romano i principi di uguaglianza e fratellanza universale e la speranza di una vita ultraterrena fecero presa sul popolo, specialmente tra i ceti più umili. Erano principi completamente sconosciuti e incomprensibili per quei tempi, l’opera e l’esempio di due figure come Benedetto e Francesco sono state fondamentali per un nuovo ordine sociale nel mondo cristiano.
A partire dal II secolo i romani iniziarono a chiamare “cristiani”, ma in senso dispregiativo, quella piccola setta di ebrei dissidenti seguaci di quel Cristo morto in croce. Una morte che veniva, normalmente, decretata ai peggiori malfattori. Incomprensibile, anzi scandalosa era per i romani l’idea di un Dio giustiziato come un criminale. Erano princìpi che scardinavano completamente quello che era la logica della società antica.
L’atteggiamento degli Imperatori e dei romani nei confronti dei “cristiani” è stato oscillante tra tolleranza e restrizioni fino ad arrivare, in alcuni momenti, a vere e proprie persecuzioni. Viene normalmente dato merito a Costantino di aver riconosciuto il cristianesimo come religione di stato. Le motivazioni di tale riconoscimento non sono state, certamente, di natura religiosa, ma soprattutto socio-politiche. L’Imperatore vittorioso a Ponte Milvio aveva compresa l’importanza di quella che era una piccola comunità di ebrei che dalla Palestina aveva portato a Roma una nuova concezione di vita che stava facendo proseliti tra i cittadini romani.
Dopo Costantino tutti gli Imperatori assunsero un atteggiamento di tutela nei confronti del Cristianesimo che proprio da Roma si stava diffondendo nel mondo romano. Ma gli stessi Imperatori, a cominciare da Costantino, decisero di abbandonare la loro residenza romana e, con il tempo, furono i pontefici a prendere gradualmente il controllo della città ed estendendo il loro ruolo religioso a quello civile che sfociò in quello che diventerà il loro potere temporale.
In questo frangente non si può sottacere, però, che i cristiani da perseguitati diventarono, poi, tenaci persecutori di coloro che non accettavano la nuova religione. I Pontefici hanno saputo rendere pan per focaccia a coloro che non si adeguavano ai canoni ecclesiastici, considerandoli nemici della Chiesa, dichiarandoli eretici e sottoponendoli ai rigori del tribunale dell’inquisizione.
Molti storici considerano il diffondersi del cristianesimo tra le cause del declino dell’Impero Romano d’Occidente. Uno degli storici più famosi, Edward Gibbon, non la indica come la causa principale ma che ebbe “una certa influenza”. Una tesi che fa da contraltare alla storiografia cattolica che riconobbe, invece, il merito alla Chiesa di aver salvato ciò che di meritevole esisteva nell’antichità classica. Ognuno può farsi una propria idea leggendo e approfondendo la Storia.
Con la decadenza dell’Impero Romano e con la scomparsa di ogni autorità i Pontefici hanno cercato un accordo e un riconoscimento da parte del Sacro Romano Impero, che non era sacro, non era romano e non era un vero impero. Da Vescovi di Roma, con la sola supremazia spirituale, i Papi hanno acquisito un potere temporale durato per oltre mille anni, in una promiscuità di ruoli che non ha fatto certamente bene alla Chiesa. e tanto meno allo Stato.
In quel periodo ingiustamente definito “i secoli bui”, al di là del loro valore spirituale, Benedetto e Francesco hanno spiccato su ogni altra figura del tempo, essendo stati due innovatori della società civile. Uno dei punti principali della Regola voluta da Francesco è: “Utilizzare i beni senza esserne i padroni”. Una regola che, secondo me, dovrebbe valere anche e soprattutto per gli imprenditori di oggi: essere custodi e non padroni della propria azienda.
Francesco d’Assisi è stato uno degli esponenti principali di quel periodo di grandi cambiamenti. Dopo una gioventù vissuta in modo dissoluto si converte e dà inizio ad una vita ascetica, tra periodi di eremitaggio e periodi di predicazione tra la gente, sottraendosi alla tentazione della solitudine per vivere a contatto diretto con la società, rompendo in tal modo con il monachesimo medievale. I suoi biografi Tommaso da Celano (prima) e Bonaventura da Bagnoreggio (poi) scrissero le biografie su disposizione delle gerarchie ecclesiastiche, con stili agiografici perché la Chiesa aveva bisogno dell’esaltazione di alcune figure come San Francesco. Ciò che scrissero i due biografi, però, non venne riconosciuto come veritiero dai compagni del santo e dal gruppo degli Spirituali.
Gli storici, infine, sottolinearono la modernità di Francesco come iniziatore del Rinascimento e di una società in evoluzione.
Circondato da alcuni amici fedeli inizia ad avere l’idea di un nuovo ordine e, aiutato da alcune persone influenti nella curia romana, presenta all’approvazione del pontefice la sua “prima” Regola. Ce ne saranno altre due di Regole che stemperarono i rigidi principi voluti inizialmente da Francesco. La semplicità e l’innocenza del fraticello gli faceva privilegiare tre categorie: gli illetterati, i sottomessi e i poveri. La sua visione era quella di vivere alla lettera il Vangelo e gli insegnamenti di Gesù, in maniera anche troppo ingenua che gli stessi seguaci non esitavano a rimproveragli. Soprattutto la povertà era intesa come la mancanza di ogni bene materiale di cui, lui per primo, si era spossessato. Come veri poveri i frati dovevano vivere dell’elemosina ricevuta dalla gente. Ciò lo portava a mettere tra i principi fondamentali il rifiuto delle scienze, del potere e della ricchezza, troppo legati al denaro.
La sua avversione per le scienze e la cultura derivava dal fatto che impegnarsi negli studi scientifici era un lusso concesso ai privilegiati ed era negato alla gente comune. Considerava la scienza una forma di possesso, di beneficio che andavano osteggiate. Diffidava dei dotti (ma aveva rispetto per i chierici colti). Bisogna considerare che i libri, a quei tempi, erano oggetti preziosi e molto costosi e quindi erano una opportunità per pochi. Solo qualche secolo dopo, con l’invenzione della stampa, i libri si diffusero anche nei ceti meno abbienti. Francesco, figlio del suo tempo, non poteva prevedere la grande importanza che la cultura avrebbe avuto nell’evoluzione della società. Nonostante la rigidità delle sue idee si deve pur sempre considerare un innovatore, soprattutto in relazione ai costumi della sua epoca.
Nonostante la sua scarsa considerazione, se non l’assoluta avversione per la cultura, Francesco è considerato il precursore della letteratura volgare italiana. Il suo “Cantico di frate sole” (chiamato anche “Cantico delle creature”) è riconosciuto come il componimento poetico più antico della letteratura italiana di cui si conosca l'autore.
Il suo rigore intellettuale era, però, mitigato da un comportamento moderato e conciliante verso gli altri. Accettando i suggerimenti ricevuti e rinunciando alla sua intransigenza, riuscì a non sconfinare nell’eresia, come successe ad altri ordini, tra cui ai francescani “spirituali”. Si può dire che Francesco severo lo era più con sé stesso e meno con gli altri.
Pur rifiutando ogni godimento del corpo, di fronte a un divieto tassativo di mangiare carne, lui risponde: “Mangiamo, come insegna il Vangelo, ciò che ci viene messo davanti”. Coerente con la regola del rifiuto di ogni bene, si racconta che passando per Bologna e saputo che c’era una “casa dei frati” si allontanò subito rimproverando i frati che possedevano una casa per loro stessi.
Consapevole della sua utopia, restò sempre fedele alle sue rigidità ma, nella sua prudenza, assunse sempre un atteggiamento più vicino ai conventuali che agli spirituali. Francesco fu salvato dall’eresia, forse, dal “suo ideale positivo, aperto all’amore per tutte le creature e tutta la creazione, ancorato alla gioia e non più alla tetra accidia e alla tristezza” (Jacq Le Goff – "San Francesco d’Assisi”).
Francesco volle essere il «minore tra i minori» (umile tra gli umili), e rifiutava ogni ruolo di autorità. Era contrario a ogni gerarchia e a ogni forma di potere. “Nel rispetto dell’umiltà non volle che i responsabili dell’ordine fossero chiamati con termini di dignità, come abati o priori, ma ministri e custodi, affinché si capisse che dovevano essere piuttosto i servitori che i signori dei fratelli” (Legenda monacensis). Francesco era anche contrario a quello che oggi viene chiamato l’ascensore sociale: “L’ascesa sociale, ecco il grande peccato, e i suoi due trampolini, denaro e cultura, devono essere assolutamente evitati se non nella stretta misura in cui l’uno è necessario al sostentamento e l’altro alla salvezza” (Jacq Le Goff ).
A proposito delle contraddizioni del francescanesimo, ma anche dei principi da esso diffusi, sono d’accordo con Jacques Le Goff, quando dice: “Aprirsi e a un tempo resistere al mondo, è un modello, un programma, di ieri e di oggi, e indubbiamente anche di domani. E nel nostro tempo gli sguardi, gli sforzi, devono prima di tutto rivolgersi ai tragici paesi del Terzo Mondo e prendervi a modello i piccoli, i poveri, gli oppressi, poiché, nonostante gli errori, le degenerazioni, i tradimenti, questa rimane la lezione del francescanesimo nel suo movimento verso i laici: una lezione che, fino a quando fame, miseria, oppressione non saranno vinte, resta valida per i nostri tempi”.
Dopo la sua morte i suoi successori cercarono di mantenere lo spirito francescano adeguandosi, però all’evoluzione delle condizioni del loro tempo. Nel dualismo interno tra rigoristi e moderati il nuovo ministro generale dell’ordine fra Elia da Cortona cercò di far prevalere il compromesso.
Fu proprio frate Elia, uno dei suoi seguaci più fedeli, ad alleggerire le rigide regole volute dal santo. Già poco tempo dopo la sua morte, contraddicendo alla semplicità e umiltà del santo, fu Elia che chiamò le maestranze comacine per realizzare quella che diventerà una delle migliori testimonianze dell’arte medievale, compiendo la prima manipolazione del suo pensiero con la costruzione della sontuosa Basilica di Assisi, seguito dai numerosi santuari che divennero centri di arte e di cultura.
Il francescanesimo, nella sua spinta innovativa, spostò il fulcro della cristianità dai Monasteri alla città, alle piazze: cioè tra la gente. Del resto i tempi stavano cambiando, con l’avvento dei Comuni le città diventarono il centro economico, politico e culturale. Con lo sviluppo delle transazioni commerciali, si sviluppò sempre più quel mezzo di scambio rappresentato dalla moneta. Affianco agli artigiani e ai mercanti crescevano di importanza nuove figure: i cambiatori di moneta che, con il tempo, diventavano banchieri. Una vera rivoluzione che trasformò la società da feudale a capitalistica. La città medievale cominciò ad avere i connotati delle moderne città dove la proprietà del suolo e degli immobili urbani favoriva quella rendita speculativa che fece la fortuna dei nuovi ricchi.
Il seme gettato dal fraticello di Assisi germogliò. La semplicità e l’ingenuità di Francesco fu elaborata dai suoi successori segnando una forte rivoluzione socio-economica, nello spirito della solidarietà. Con la promozione dei "Monti di Pietà" i Frati Minori Osservanti crearono quello che si può chiamare "credito sociale" con il preciso scopo di creare un’alternativa al credito ebraico e contenere lo strapotere degli Istituti bancari promuovendo la concessione di prestiti gratuiti e a condizioni favorevoli, in cambio di un pegno, liberando le classi meno abbienti dalle maglie dell’usura che affliggeva la società.
Secondo la morale cristiana, era considerata inammissibile l’imposizione di un tasso di interesse ed il reato di usura era addirittura equiparato a quello di eresia. Per questo motivo gli Ebrei, non essendo vincolati dal precetto evangelico, furono i primi a sviluppare questo tipo di attività finanziaria. I Monti di Pietà francescani furono la prima istituzione, senza fini di lucro, ad erogare piccoli prestiti alle persone in difficoltà economica. In cambio di un piccolo interesse che doveva servire a coprire le sole spese e con piccole condizioni di pegno a garanzia del prestito. I banchi ebraici resteranno presenti fino alla fine del Cinquecento, quando una bolla pontificia decretò che tutti gli ebrei sudditi dello Stato della Chiesa, dovessero concentrarsi nelle due sole città di Roma e Ancona. Tutti i cittadini ebrei concentrati nei cosiddetti ""ghetti"" dove potevano essere controllati e limitati nelle loro attività.
Come è noto, la società medievale era strutturata in maniera piramidale. La necessità dell'imperatore di riuscire a governare i suoi vasti territori aveva portato alla loro suddivisione affidandoli ai Vassalli che, a loro volta, li affidavano ai Valvassori. Questa ragnatela di potere permetteva di controllare il territorio e di padroneggiare la servitù della gleba. Una rigida struttura piramidale con al vertice l’Imperatore, che ha dato origine al sistema feudale.
Il francescanesimo dà il via a un tipo di struttura sociale che, invece di essere piramidale è circolare. Il poverello d'Assisi, pretendeva che nessuno dei suoi confratelli fosse superiore all'altro, compreso sé stesso. Nella sua Regola ha stabilito "E nessuno sia chiamato priore, ma tutti allo stesso modo siano chiamati minori”. Questo è il senso profondo della convivenza francescana: il concetto di fraternità, che è sostanzialmente il cardine su cui si fonda l'intera vita di Francesco, che ha voluto interpretare alla lettera lo spirito evangelico.
Fino a quel momento infatti, anche la propaganda religiosa si era vestita di guerre, conquiste e violenza: crociate e persecuzioni verso le altre religioni avevano segnato quell'epoca storica.
Durante l'Impero Romano e nell'Alto Medioevo, chi stava al vertice della piramide sociale deteneva il potere senza lavorare, il primo grande merito dei benedettini fu quello di stravolgere la logica vigente che considerava il lavoro come attività esclusiva degli schiavi. La società romana impediva che il figlio di un libero cittadino facesse il servitore, gli schiavi e i liberti (schiavi liberati) erano, pertanto, necessari per l’esecuzione dei lavori più umili e per il funzionamento della società. L’esistenza della schiavitù era considerata talmente normale che era accettata anche dai massimi esponenti della cristianità, da San Paolo a Sant'Agostino.
Il seme gettato dai benedettini ampliò i suoi frutti con il pensiero francescano. Con il tempo, a cominciare dal medioevo, in tutti i paesi europei fu completamente sradicata la concezione sociale dell’età classica.
Fu nei Monasteri (benedettini) e nei Conventi (francescani) che iniziò la “Democrazia deliberativa” con la pratica di elezioni libere e regolari, che solo molto dopo entrò nel campo civile e istituzionale. Per me le figure di Benedetto e Francesco hanno avuto una grande valenza nel progresso sociale nei secoli successivi. Due figure, due facce della stessa medaglia, così diversi ma così simili che hanno modificato il monachesimo orientale degli eremiti e degli anacoreti che vivevano una vita solitaria e rifuggivano dai rapporti sociali. Il fatto che siano stati nominati uno Patrono d’Europa” e l’altro “Patrono d’Italia” è il giusto riconoscimento di due rivoluzioni "pacifiche" che dal mondo antico hanno portato ad un nuovo modo di concepire la società e che hanno permeato le istituzioni moderne. E’ la dimostrazione che non sono le lotte e le rivoluzioni cruente, non sono le battaglie fatte con il sangue dei popoli, che migliorano la società. La storia insegna che ogni rivoluzione armata è sempre finita con una dittatura. Anche la “rivoluzione cristiana” (che non è stata così pacifica come si vorrebbe far credere) ha portato alla dittatura dei Pontefici che per molto tempo hanno lottato con gli Imperatori per chi dovesse avere il primato.
Al di là dei significati spirituali e umanitari ho sempre riconosciuto a Benedetto da Norcia e a Francesco d’Assisi una funzione che esula dall’ambito religioso e che sconfina nell’ambito sociale. Francesco rifiutava il possesso di ogni bene materiale. “Utilizzare i beni senza esserne padroni.” potrebbe essere considerato un principio “comunista”, invece io credo che riguardi principalmente la responsabilità e la competenza dell'imprenditore anche, e soprattutto, in un regime di libero mercato.
Sono profondamente convinto che, pur rispettando quelle che sono le leggi economiche e civili in vigore, gli imprenditori dovrebbero esercitare il proprio ruolo come tutori nell’interesse dell’impresa, prima del loro interesse personale. E’ dai risultati dell’impresa, infatti, che loro ricavano il beneficio economico per sé stessi, per i propri collaboratori e per far fronte agli impegni aziendali. I buoni risultati si raggiungono solo con una buona organizzazione senza trascurare la produttività. Impegno dell'imprenditore dovrebbe essere quello di controllare "tutti" i fattori produttivi a cominciare dalla verifica dei costi e dei relativi margini. Sono troppi, purtroppo, i piccoli e grandi imprenditori, di qualunque settore, che non hanno le competenze sufficienti per attuare una efficace organizzazione e per esercitare un valido "ceck-up" aziendale. Per essere un vero imprenditore non è sufficiente saper esercitare un mestiere, ma, come aveva capito Benedetto da Norcia ben 1500 anni fa per far funzionare bene una comunità, una istituzione o una società, è necessaria una buona organizzazione e rispettarne le regole. Dico questo non per deformazione professionale e per sottolineare l’importanza di un buon controllo aziendale (che è stata la mia attività lavorativa) ma perché è ridicolo, direi puerile, sentire continuamente le lamentele degli imprenditori sull’eccessivo peso delle imposte, con la presunzione che costituiscano la ragione principale delle difficoltà di ogni impresa. E' sciocco lagnarsi delle vessazioni dello Stato e delle angherie della burocrazia, senza avere la padronanza, o per meglio dire il "controllo", della propria organizzazione. In ciò vezzeggiati, ma anche ingannati, dai politici che promettono sempre la riduzione delle tasse: una promessa mai mantenuta.
Ogni imprenditore dovrebbe sapere che oltre e prima delle imposte ci sono altre voci di costo che derivano dalla combinazione di diversi fattori di produzione che vanno monitorati continuamente, per ottimizzare la produttività e ottenere i migliori risultati economici. I fattori di produzione devono essere combinati (organizzati) tra loro per creare Valore Aggiunto, Quel Valore Aggiunto che deve essere ripartito fra tutti gli elementi che partecipano alla produzione del reddito: ai beni materiali e ai servizi va riconosciuta la “rendita”, al capitale spetterà l’“interesse”, il lavoro va ricompensato con il “salario”, allo stato è dovuta l’“imposta” e all’imprenditore spetta il “profitto”. Il buon funzionamento del Monastero dipendeva dal rispetto della Regola che stabiliva che ogni membro aveva una funzione che andava esercitata in sintonia con quella degli altri. Un criterio che ha aperto a la strada ad una società organizzata con principi moderni che in Italia vide lo sviluppo dell’età comunale.
Insomma fare l'imprenditore è sicuramente un mestiere difficile, ma non si può giustificare la piaga dell'evasione fiscale per salvaguardare i propri interessi o nascondere le proprie deficienze. Già i benedettini e successivamente i francescani avevano capito che una buona organizzazione era un aspetto fondamentale per la vita dei Monasteri e dei Conventi. Una regola di vita che ha cercato di indirizzare il progredire della società.
Oggi è domenica 28 maggio e dobbiamo percorrere una tappa relativamente breve per consentire di poter tornare agevolmente alle nostre abitazioni. Oltre ad essere breve è anche una tappa facile con ben 21 chilometri di discesa, con grande gioia di Patry che potrà mostrare tutta la sua maestria nelle curve del Casentino. Infatti appena partiti da Chiusi si butta di gran carriera e, naturalmente, io cerco di seguirla, perché, pur scendendo con maggiore prudenza, la discesa diverte molto anche me. La strada si affaccia sulla Valle dell’Arno, tra le pendici del Pratomagno e le foreste del Casentino.
A Rassina siamo a metà del percorso giornaliero e inizia la pianura. Attraversiamo l’Arno e costeggiamo la riva destra sulla strada provinciale della Zenna, evitando la statale Umbro-Casentinese-Romagnola che di solito è molto trafficata. A Capolona ci prendiamo una gradita sosta ristoratrice e proseguiamo riattraversando l’Arno a Ponte a Caliano. Arrivati a Ponte alla Chiassa siamo costretti entrare sulla statale, trafficatissima, per circa 5 chilometri, costeggiando sempre il fiume Arno.
In prossimità di Arezzo lasciamo la via Casentinese per entrare in città dalla Porta S. Clemente verso il centro storico con l’ultimo piccolo strappo di salita fino a Piazza Murello dove inizia anche l’ultima discesa nel centro cittadino di Arezzo. Gli ultimi metri di pianura ci portano a Via Guido Monaco che ci introduce nel piazzale della stazione di Arezzo, dove termina il nostro cammino.
All’ombra di alcuni alberi c’è il furgone di Danilo, ma c’è anche Gilda, che trovandosi da qualche giorno nella vicina Pieve di Romena, mi è venuta a prendere con la nostra Opel Meriva.
Nell’intero Cammino di San Francesco ho compiuto 250 km nel primo tratto e 295 km nel secondo tratto. Dopo dieci giorni fantastici in sella alla bici, quest’anno sono arrivato alla meta senza lo stress della routine quotidiana. Bene ho fatto, quest’anno, a scegliere di riposare in camera singola. Sono riuscito nell'intento di compiere l'intero cammino in sella alla bici con il massimo relax. Pur nel beneficio di una camera d’albergo, dover cambiare alloggio, fare e disfare i bagagli ogni giorno e condividere la stanza con altri compagni di viaggio, dopo diversi giorni è stancante. Dopo una giornata di cammino il riposo fisico diventa una necessità, ma è necessario anche un giusto e sereno abbandono mentale. Ho terminato i due tratti del Cammino di San Francesco completamente rilassato e soddisfatto. Ho capito che, alla mia età, non è più tempo di cameratismo, i momenti necessari per recuperare le forze vanno vissuti in solitudine.
Insomma, al di là di ogni luogo comune, poter fare attività sportiva non è per tutti: è da privilegiati. I tempi sono cambiati da quando alle Olimpiadi potevano partecipare soltanto i cosiddetti "dilettanti" che non percepivano nessun compenso per la loro attività. Nell'ipocrita convinzione di rievocare la "purezza" dello sport venivano privilegiati gli atleti che, per situazioni familiari favorevoli o per l'appartenenza a determinate classi sociali, potevano dedicarsi a tempo pieno nella cura delle loro discipline. La storia dello sport moderno insegna, infatti, che a partire dal XIX secolo le classi borghesi inglesi iniziarono a organizzare le prime manifestazioni che diedero origine ai campionati nazionali e alle moderne Olimpiadi. Famoso fu lo slogan dell'aristocratico Pierre de Coubertin "l'importante non è vincere, ma partecipare". Un ideale che rimase per lo più sulla carta e che pochi hanno rispetto. Dall'Inghilterra la passione per lo sport si diffuse in tutto il mondo, ma la regola delle Olimpiadi imponeva che tutti gli atleti non dovessero beneficiare di comensi economici. Venivano, pertanto, ammessi alle manifestazioni olimpiche solo quelle classi benestanti che potevano dedicare il loro tempo ad attività ludiche senza dover lavorare. Erano esclusi tutti gli atleti professionisti. Oggi il livello competitivo è talmente alto che per esercitare una qualunque disciplina non è sufficiente la passione, il talento e la forza di volontà. Praticare uno sport non è solo impegno fisico e mentale, le sole abilità tecniche non sono sufficienti. È indispensabile anche una certa capacità economica per sostenere i gravosi impegni che richiede quella che è diventata una vera attività professionale. Ciò è stato accentuato anche dalla trasformazione da pura attività ludica a una vera forma di spettacolo apprezzato in tutto il mondo. Il Comitato Olimpico Internazionale (C.I.O.) infatti, resosi conto di tale trasformazione nel 1988 ha modificato le norme ammettendo alle Olimpiadi tutti gli atleti, dilettanti e professionisti, iscritti nelle Federazioni Nazionali. E' venuta meno quella forma di ipocrisia che privilegiava coloro che, appartenendo a istituzioni pubbliche come le forze armate, percepivano un regolare stipendio gareggiando, in tal modo, da falsi” dilettanti. Ciò succedeva anche in quei paesi, a regime totalitario, che per finalità propagandistiche inquadravano tutti gli atleti all’interno di istituzioni pubbliche, con regolare stipendio, ma che esercitavano le loro discipline sportive a tempo pieno.
L'esasperazione della competizione, l'importanza dei risultati tecnici, unitamente agli aspetti economico-finanziari legati allo sport spettacolo e agli sponsor, ha modificato completamente il mondo dello sport, dove qualunque atleta che voglia raggiungere i suoi obiettivi, deve organizzare e programmare la propria attività affidandosi a tecnici preparati. Creare, cioè, un vero e proprio staff di: preparatori, tutor, manager, fisioterapisti, psicologi, medici, nutrizionisti, agenti e sponsor. Anche nelle discipline individuali non si può gareggiare senza una squadra efficiente.
Emblematico è il caso del "rosso d'Italia" che a soli 22 anni ha raggiunto le più alte vette del tennis mondiale. Un’impresa che ha fatto vivere a tutti gli sportivi italiani momenti esaltanti. Un’impresa preparata nel tempo per cui Jannik Sinner ha voluto ringraziare i suoi genitori di averlo sostenuto quando fin da ragazzo andava in giro per l’Italia e quando successivamente, ancora giovanissimo, lo hanno messo con fiducia nelle mani dello staff tecnico, in giro per il mondo. Uno staff tecnico attualmente formato da ben 8 persone, ognuno specializzato in un settore, che collaborano tra loro per migliorare le prestazioni del giovane atleta. Certamente la tempra e la volontà di Sinner è fondamentale per il raggiungimento dei risultati. Il tennista è entusiasta del suo staff composto da: un allenatore (oggi chiamato “coach”), un super coach, 3 preparatori atletici, 1 mental coach e 2 manager per la cura dei rapporti con il mondo esterno. Una delle attività principali dello staff è quella di controllare il carico emotivo davanti all’errore, al rimpianto, al pensiero negativo, alla sconfitta. Parlando del suo staff Jannik Sinner, in una recente intervista, ha detto: “Sono persone buone e felici, ognuno sa molto bene di cosa si deve occupare. Mi sento fortunato ad avere un team così. Il mio team è come una famiglia. Vedo più spesso loro che i miei genitori. Per me ognuno è fondamentale. Quando qualcuno entra a far parte del gruppo non è importante solamente che si uno dei migliori nel suo lavoro, ma è essenziale anche come io mi senta con questa persona. Devo essere a mio agio e sapere che posso parlare di qualunque cosa che mi passi per la testa con tutti quanti.” La spontaneità e la genuinità di Jannik è eccezionale, riesce sempre a rendere semplice anche le cose più complicate, ma è chiaro che da solo non avrebbe mai ottenuto i risultati raggiunti.
Fatte le debite proporzioni, ciò che vale per lo sport professionistico conta anche nella pratica sportiva "amatoriale" di cui posso dire di avere una certa esperienza. Ho potuto verificare che nel mondo dello sport è facile cadere nelle esasperazioni e nei fanatismi.
Certamente San Francesco non avrebbe introdotto l'attività sportiva negli esercizi spirituali dei sui fraticelli, ma la sua mitezza e il suo buon senso avrebbe trovato il modo di conciliare lo sport con la spiritualità. Nonostante tutto l'impegno sportivo ha qualche lontana somiglianza con l'ascetismo.
Il mio cammino è durato dieci giorni, lungo 545 km. in gran parte su sentieri sconosciuti che gli amici di Viaggireinbici hanno avuto la capacità e la pazienza di cercare e farceli apprezzare.
Al termine di queste due esperienze non posso non ringraziare Daniele, Paolo, Danilo e Marcello.
Un grande ringraziamento va anche a tutti coloro che hanno condiviso con me il viaggio. E’ certo che con una simile comune avventura ricorderò per sempre la loro breve amicizia.
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Sono oltre dieci anni che vado in bici con spirito amatoriale, ma gli ultimi due cammini non hanno avuto solo un significato turistico-sportivo. Oltre a scoprire località storiche e sentieri sconosciuti, mi hanno dato la possibilità di approfondire la figura di due tra i personaggi italiani più importanti.
Posso sembrare retorico, ma decidere di fare il Cammino di San Benedetto e il Cammino di San Francesco per me ha avuto anche un significato culturale. A tal proposito sono d'accordo con il prof. Tomaso Montanari (rettore dell'Università per stranieri di Siena) che "c'è più cultura nel paesaggio che nei musei." Forse c'é anche più spiritualità. Nelle mie pedalate e nei miei impegni ludici cerco di attingere il più possibile alla bellezza del paesaggio.
Nella mia stima verso Francesco d’Assisi non si può, però, trascurare che le sue rigide regole sono improponibili per la gente comune, ma lui non le imponeva a nessuno. Erano principi che valevano solo perché voluti e non imposti. Il rispetto di quelle regole doveva essere una libera scelta che serviva ai suoi fraticelli per immedesimarsi con le miserie dei più diseredati. Erano regole che si ispiravano al principio di uguaglianza, mettendosi sullo stesso livello dei poveri e di coloro che soffrivano. Un principio di uguaglianza, del tutto nuovo per quei tempi, che ha scardinato la società antica basata sulle classi e introducendo non solo nei monasteri, ma anche nella società il concetto di “fraternità” mai applicato fino ad allora. Una “rivoluzione pacifica” ben diversa da quella voluta dai pontefici con la dittatura del potere temporale e con la promozione delle crociate che, istituite inizialmente come pellegrinaggio verso la Terra Santa, divennero vere e proprio guerre di conquista per i “delfini” dell’aristocrazia cattolica.
Francesco aveva già inviato alcuni suoi seguaci a Gerusalemme prescrivendo ai frati minori che volessero recarsi presso gli infedeli di essere miti e soggetti a tutti, di non avanzare proposte né richieste alcune ma di limitarsi alla professione di fede cristiana. Anche Francesco d'Assisi voleva andare a tutti i costi tra i musulmani, tanto che per tre volte fece i suoi tentativi, senza scoraggiarsi dei fallimenti. Il terzo tentativo fu quello buono. Quale era lo spirito che l'ha accompagnato? Francesco non si è mai espresso a riguardo in modo netto e chiaro. Proprio questo silenzio è stato interpretato, nel tempo, in modi diversi: da una decisa condanna per fanatismo ad una visione civilizzatrice e di evangelizzazione.
Ciò che sappiamo è che nel 1219, nel corso della quinta crociata, Francesco si imbarca per raggiungere la Terra Santa. Del viaggio dall’Italia si conosce poco. L’unico accenno ce lo offre il racconto biografico di Tommaso da Celano “Al tempo in cui l’esercito cristiano stringeva d’assedio Damietta, era presente anche il santo con alcuni compagni”. Secondo Tommaso è «l’ardore della carità» a muoverlo: «tentò di partire verso i paesi infedeli, per diffondere, con l’effusione del proprio sangue, la fede nella Trinità».
Sappiamo che, in compagnia di frate Illuminato, fu ammesso alla presenza del gran signore musulmano. Il quale, come la legge del Profeta prescriveva, non avrebbe mai potuto negare udienza a “un uomo di Dio” che si fosse presentato al suo cospetto. E Francesco era tale, a testimoniarlo era la sua veste: un povero saio di lana non tinta, pieno di toppe e di strappi rammendati e provvisto di un cappuccio. Il sultano Malek al-Kamel trova gran piacere ad ascoltare Francesco, quello strano monaco venuto dall'Italia. Cortesia, rispetto e dialogo, caratterizzano la conversazione tra il Sultano e Francesco d'Assisi. Non possiamo sapere con certezza cosa si dissero. Con sicurezza sappiamo solo che il Sultano d’Egitto accolse il poverello d’Assisi e lo rilasciò incolume, fatto di per sé strabiliante visto il periodo di forte tensione tra musulmani e cristiani. Il frate di Assisi, chiede di poter parlare con il Sultano, anche alla presenza dei suoi dottori, per dimostrare la verità della fede cristiana e la falsità della loro. Il rifiuto dei dottori è categorico. Gli esperti musulmani consigliarono al sultano di giustiziare entrambi i francescani per aver predicato contro l’Islam, come stabiliva la legge. Lo scongiurarono di non ascoltarli, perché anche questo era pericoloso. Malik al-Kāmil, nipote di Saladino e Sultano di Egitto e Palestina, era un uomo di cultura, conosciuto per la sua giustizia e per il suo interesse verso le discussioni scientifiche e religiose. Il racconto prosegue con il Sultano che invita i due frati a restare con lui, ma Francesco e frate Illuminato declinano la proposta, così come quella di prendere dell’oro e dell’argento.
Solo tra il XX e il XXI secolo, in un’ottica di critica alle crociate, quell’incontro memorabile viene visto come un esempio e modello di uno spirito di dialogo. L’opera di Francesco diventa sempre di più quella di un uomo che ha cercato un’alternativa pacifica alle crociate. È un’interpretazione contestata, ma che ben si sposa con le posizioni del Santo sulla fraternità, l’amore al nemico e il rapporto con i musulmani. Francesco non condanna apertamente la guerra agli infedeli e la sua opinione a riguardo non può essere definita con certezza. Ma sappiamo quello che afferma sull’amore al nemico, ad imitazione di Cristo. Francesco volle formare i suoi frati alla missione per un dialogo sereno e sincero con il mondo e le altre religioni. Sono queste le indicazioni che hanno accompagnato l’ordine francescano in questi 800 anni, permettendogli di rimanere presente pacificamente in Terra Santa. Al di là di ogni interpretazione data dagli storici, uno dei più straordinari gesti di pace nella storia del dialogo tra Islam e Cristianesimo, è rappresentato dall'incontro tra Francesco d'Assisi e il Sultano di Egitto Malik al Kamil. Quello storico colloquio, avvenuto a Damietta, a pochi chilometri di distanza dal Cairo.
Non sappiamo cosa dissero i due interlocutori, ma l’incontro fu senza dubbio amichevole e di reciproco rispetto. Il Sultano d’Egitto accolse il poverello d’Assisi e lo rilasciò incolume, fatto di per sé sorprendente visto lo stato di guerra tra musulmani e cristiani. Un incontro pacifico che diede inizio alla presenza dei francescani in Terra Santa con la nomina di Frate Elia a ministro provinciale di Gerusalemme. Qualcuno definì la missione di Francesco un fallimento accostandola all’esito della quinta crociata che fu disastroso per le armate cristiane. Qualche anno più tardi Malik al Kamil ebbe un altro storico incontro, quello con Federico II, con ben altri risultati.
Infatti, dopo essere stato scomunicato da Onorio III per il suo tergiversare nell’organizzare una Crociata per la liberazione del Santo Sepolcro, nel giugno 1228 Federico si imbarca a Brindisi e parte alla guida di una flotta di quaranta galere. L’Imperatore del sacro Romano Impero, però, scontentando molto il papa invece di attaccare l’esercito saraceno chiede un incontro al Sultano Al-Kamil (lo stesso che aveva ospitato san Francesco). Dall’incontro nasce una profonda amicizia tra i due sovrani che scaturì in uno storico accordo di pace che contemplava la restituzione di Gerusalemme ai cristiani, insieme a una tregua di dieci anni. Fu così che con le sole armi della diplomazia e della cordialità, la sesta crociata riuscì laddove la quinta aveva fallito. La Crociata condotta da Federico II fu l’unica che si svolse pacificamente. La missione di Francesco di nove anni prima, svolta con l’aiuto di frate Elia, invece che un fallimento, si potrebbe considerare come preparazione alla trattativa di pace tra Federico Ii e il Sultano. Una trattativa che non fu gradita dal papa, che confermò la scomunica all’Imperatore.
Stessa sorte toccò a frate Elia che, come Ministro Generale dell’Odine francescano, fu accusato di tendenze ghibelline a causa degli intimi rapporti di amicizia con Federico II. Incontratisi, probabilmente, a Gerusalemme la loro conoscenza si trasformò in una lunga collaborazione con diversi incarichi svolti dal frate per conto dell’Imperatore. Si racconta che, in considerazione delle capacità architettoniche del frate, egli abbia collaborato anche nella progettazione di Castel del Monte in Puglia. Federico chiamava Elia "dilecto familiari et fideli nostro" ed il Frate mai fece mistero della loro profonda amicizia, accomunati entrambi ai misteri esoterici. Una ferrea amicizia che costò al frate non solo la deposizione da Generale dell’Ordine, ma addirittura una “damnatio memoriae” che gli procurò una cortina di silenzio all’interno dell’Ordine dei francescani, che perdura ancora oggi dopo oltre 800 anni.
Era quella un’epoca in cui il potere del papato non veniva messo in dubbio. Elia e Federico caddero sotto la scure del papa. Federico II, di stirpe germanica, è stato più italiano di tanti italiani, nato in Italia (a Jesi), battezzato ad Assisi, cresciuto ed educato in Sicilia, è stato re di Sicilia e re dei romani, è morto in Puglia e sepolto nella cattedrale di Palermo. Visse preferibilmente nell’Italia meridionale tra le città di Palermo, Napoli e Foggia. Cercò di riunire la marca di Ancona e il ducato di Spoleto al Regno di Sicilia, ma fu avversato tenacemente dal papa. Per l’ottusa opposizione dei pontfici gli venne impedito di dare all’Italia uno stato moderno e, soprattutto, anticipare l’unità d’Italia di oltre 600 anni. Svolse un importante ruolo letterario e culturale oltre che giuridico, favorendo gli studi scientifici istituendo, tra l’altro, l’Università di Napoli. Fu chiamato “Stupor Mundi”, ma anche “Fanciullo di Puglia” inteso come dell’Italia meridionale (a quei tempi si dava il nome di Puglia a tutto il sud d'Italia). Contribuì a far nascere la letteratura italiana, fondando la scuola siciliana. Si circondò di illustre figure di scienziati, filosofi, giuristi in gran parte italiani. Si cimentò personalmente in diverse opere letterari sia in latino che in volgare. Invitò nel sud d’Italia i cistercensi che diffusero lo stile gotico nella penisola. Concesse il privilegio alla fondazione della città di L’Aquila (“Privilegiun concessum de contructionem Aquile”) che fu poi attribuita ai “99 castelli”. «Provvediamo a che nella località Aquila tra Forcona e Amiterno ..… sia costruita una città unitaria che dal nome del luogo, e per questo sotto gli auspici delle nostre vittoriose insegne, decretiamo che debba essere chiamata con il nome di Aquila.»
Due figure, quelle di Francesco e Federico, contemporanei che non si sono conosciuti e mai incontrati, ma che hanno segnato la storia italiana con il loro pensiero e le loro attività.
La Regola dei Frati Minori non era in linea con i canoni teologici del tempo. Per le sue idee e le sue opere Francesco ha rischiato di essere condannato come eretico, da cui si è salvato unicamente perché non si è mai scontrato, né opposto apertamente ai dettami della Chiesa. Il concetto di "fraternità" proclamato dai francescani era in contrasto anche con la schiavitù che nell'età classica e durante il medioevo era tollerata e regolamentata da norme di legge. Anche il cristianesimo non condannava esplicitamente la schiavitù che era considerato un istituto economico-sociale necessario per compiere i tanti lavori manuali, cosiddetti "servili", che non venivano svolti dai cittadini "liberi". La "fraternità" francescana e l'esempio dei francescani contribuì a modificare il rapporto con la schiavitù e con i "servi della gleba".
Francesco ha difeso strenuamente i suoi rigidi principi, caratterizzato da una povertà assoluta in puro stile evangelico. Una difesa che ha rasentato quella che poteva essere considerata una vera e propria trasgressione alle regole canoniche. Non è stato secondario il ruolo avuto dalla sua amica Jacopa dei Settesoli. Altrettanto decisivo è stato l’intervento del Cardinale Ugolino di Anagni (futuro papa Gregorio IX) che è riuscito a contenere la testardaggine di Francesco, attenuandone alcune rigidità.
La difficoltà delle autorità ad accettare simili principi, soprattutto il principio della povertà assoluta, si è vista con l’approvazione dell' Ordine delle Clarisse, avvenuta con difficoltà e molto in ritardo, dopo la morte di Santa Chiara. Sia Francesco che Chiara sono riusciti in quello che si può chiamare un vero miracolo, a farsi accettare dalla Chiesa ufficiale pur restando assolutamente fedeli alla loro "Regola" basata su: povertà, castità e rifiuto di una politica gerarchica e dogmatica. Si può dire che la loro era una forma di disubbidienza e indipendenza da ogni legame, pur accettando la disciplina che derivava dal riconoscimento dell’autorità papale, ma senza rinunciare alla rigida fedeltà al vangelo.
L’approvazione della Regola dei Frati Minori è dovuta essenzialmente alla fama di santità e il prestigio di cui godevano i fraticelli della Porziuncola. La crescente popolarità dava lustro alla Chiesa e la nuova regola dette modo alle autorità ecclesiastiche di tenere maggiormente sotto controllo i Conventi.
Non si può dimenticare che fu proprio Innocenzo III a istituire la santa inquisizione. E’ stato con la sua semplicità e la sua ingenuità che Francesco è riuscito a difendersi dall’intransigenza dei Padri della Chiesa, sotto la quale sono cadute molte teste innocenti. E’ riuscito a rimanere nella Chiesa pur criticandola. Ha anche dimostrato una buona dose di diplomazia accettando alcune rinunce tra cui quella che gli ha pesato maggiormente: la predicazione femminile negata alle clarisse. Secondo la visione del tempo (ma che in gran parte perdura ancora oggi) le monache non potevano portare in giro la parola del Cristo, dovevano rimanere chiuse in convento. Una clausura che pesò molto a tante religiose e che proprio a Chiara causò una lunga malattia, che la vide immobile per molti anni. Scarsa era la considerazione verso il sesso femminile che Tommaso da Celano nel suo racconto della vita di Francesco non nominò mai la figura e il ruolo di Chiara.
Tra le contrarietà sia di Francesco che di Chiara c’era la convinzione che le tribolazioni erano un segno della volontà di Dio. C’è da chiedersi il perché delle loro lunghe malattie. Certamente non è secondaria la volontà degli asceti di imitare le sofferenze del Calvario, anche se le autorità ecclesiastiche esigevano (ed esigono) la massima riservatezza e moderazione nella vita mistica. Infatti il pensiero di Francesco era eversivo e radicale, una idea di libertà anarchica ed egualitaria senza limiti, che non fu sempre tollerata dalle istituzioni ecclesiastiche. La Regola francescana nel tempo ebbe diverse modifiche, soprattutto il mito della povertà assoluta era considerato troppo rivoluzionario e verrà rovesciato dal diritto-dovere di possedere beni materiali “per il sostentamento dell’ordine”. Francesco non avrebbe mai accettato una tale apertura.
Il grande significato dell’opera di Francesco e di Chiara fu la rivoluzione che compirono nella società del loro tempo, così come 700 anni prima aveva fatto Benedetto da Norcia. Nell'antica Roma e, successivamente, durante il medioevo la società era divisa in classi in lotta per la supremazia, gli umili venivano schiacciati dai potenti e ci si ammazzava di continuo per conquistare terre e denaro. Quale fu l'obiettivo dei benedettini e dei francescani? Un mondo più giusto, maggiore equità sociale; volevano annullare le differenze ripartendo le risorse, in un'ottica di uguaglianza e parità anche tra i sessi. Un pensiero fortemente moderno.
Naturalmente nel pensiero di Francesco si può notare anche molta contraddizione soprattutto nella rinuncia alla cura del corpo, abbandonandolo alle sofferenze e alla malattia. Nel suo splendido “Canto delle Creature” lodando tutti i beni concessi dal Signore dimentica (ingenuamente?) proprio di lodarlo per il dono del proprio corpo che rimane pur sempre la peculiarità di ogni essere umano. Una incoerenza con le sue “laudi” che propongono, invece, la gioia per tutte le creature, non considerando che la massima gioia possa venire dalla salute e dalla letizia della persona.
Con semplicità e ingenuità Francesco ha potuto affermare che l’aria, l’acqua e ogni altro bene materiale concesso da Dio avrebbe dovuto essere a disposizione di tutti coloro che ne volevano goderne. Quella semplicità e ingenuità che qualche secolo più tardi è mancata agli utopisti rivoluzionari che volevano applicare gli stessi principi nella vita sociale ed economica. La “fraternità” di Francesco si è sviluppata e ha avuto diverse manifestazioni e applicazioni nel campo civile. Una specie di “comunismo” ante litteram che non è servito a far da scuola ai rivoluzionari del XX secolo. Nella vita del convento i francescani hanno separato la proprietà dei beni dal loro utilizzo, rinunciando ad ogni forma di possesso rispettando, però, la massima condivisione tra i confratelli. Una pura formalità che è anche sostanza: il convento resta di proprietà della Diocesi vescovile, ma ai frati ne viene concesso l’uso secondo le loro necessità. Una soluzione che nel mondo della politica civile non ha funzionato, ma che potrebbe trovare una giusta soluzione se si trovasse la capacità di seguire l’esempio di Francesco che ha sempre praticato l’arte del dialogo, dell’esempio, della tolleranza e della diplomazia, per consentire la convivenza tra esseri di diverso pensiero. In fondo dovrebbe essere proprio questo il principio al quale dovrebbe basarsi la politica e l’organizzazione degli Stati.
Di fronte al pensiero francescano c’è poco da capire, esso viene sviluppato nella massima semplicità fino a rasentare l'ingenuità. La fraternità si può realizzare perché sorretta dalla fede e la fede richiede abbandono totale. Inoltre sarebbe incoerente giudicare Francesco d’Assisi con gli occhi di oggi. Il sacro ha bisogno di silenzio e io dovrei essere il primo a tacere sul sacro, ma non posso esimermi di credere nella possibilità di una futura società basata sull'eguaglianza. Per tale motivo il pensiero francescano, con tutti i suoi limiti e contraddizioni, resta sempre un esempio da seguire.
Nei miei riferimenti sulla vita di Francesco d’Assisi si deve dire che le date degli avvenimenti sono approssimative. Non c’è nessuna certezza a cominciare dalla data di nascita (1181 o 1182) come per tutti i fatti storici avvenuti prima dell’invenzione della stampa che, per convenzione, si fissa nel 1455 con la pubblicazione della cosiddetta Bibbia di Gutenberg. Prima di allora gli eventi venivano tramandati oralmente. Pochi e costosi erano i documenti scritti, redatti completamente a mano. Non esistevano registri pubblici che certificavano i fatti. Anche per alcuni grandi episodi storici si hanno dubbi su ciò che è stato raccontato e ancor di più si può dire sulla biografia dei personaggi famosi e meno famosi. Fare riferimento alle date nella storia è importante, ma bisogna essere consapevoli che non sono sempre precise. Per rendersi conto di ciò che è accaduto si è sempre costretti a fare le opportune verifiche, confrontando i diversi avvenimenti di un determinato periodo. Nella intensa vita di pellegrino di Francesco anche la cronologia degli eventi è stata formulata in maniera difforme. L’inizio della vita di penitenza viene fissata da qualcuno a Rivotorto, mentre altri raccontano che Francesco riunì i suoi primi seguaci alla Porziuncola. Sono particolari insignificanti che non modificano l’importanza del francescanesimo. Francesco è stato un rivoluzionario che ha predicato la pace, come Gadhi, Martin Luther King e molti altri.
Mi scuso con i miei tanti amici cattolici se nelle figure dei due santi italiani più rappresentativi ho sottolineato soprattutto gli aspetti sociali e civili, trascurando gli aspetti contemplativi e religiosi, ma, come affermato da E. Gibbon, il cristianesimo ha avuto “una certa influenza” nell’evoluzione della nostra storia e della società moderna e, fra le diverse incongruità del cattolicesimo, Benedetto e Francesco rappresentano due splendidi esempi.