LA DORSALE APPENNINICA
LA DORSALE APPENNINICA IN MOUNTAIN BIKE
Nasce un Progetto
“Chiudo la libreria”: questo è stato il messaggio che mi è apparso sul cellulare. Un messaggio essenziale, conciso. Un messaggio che non avrei mai voluto ricevere, ma che era nell’aria. Me l’aspettavo da un momento all’altro, immagino subito chi sia l’autore. Carmelo era venuto a Roseto dieci anni prima, cercando un rifugio sulla costa come tanti suoi concittadini fuggiti da L’Aquila in seguito al devastante terremoto. Aveva un’avviata libreria in quella città d’arte, di storia e di cultura, con la presenza di alcune facoltà universitarie che attiravano studenti da tutta Italia. Anche lui aveva scelto per la sua rinascita una delle città della costa facili da raggiungere dal tormentato capoluogo. Roseto degli Abruzzi è, però, una cittadina a prevalente vocazione turistica, con un'economia stagionale e non poteva garantire un mercato sufficiente per tutte le librerie esistenti.
Mi propongo di andare a trovarlo, non solo per salutarlo, ma anche per dare un segno concreto di solidarietà con gli ultimi acquisti e per ringraziarlo dei tanti consigli che mi aveva sempre suggerito nella scelta dei libri. Carmelo ha passione, professionalità e preparazione letteraria, è un vero libraio. Volevo manifestargli i miei più sinceri auguri. Entro nella libreria “Ubik” e gli comunico la mia intenzione di acquistare alcuni libri classici, quei libri che si acquistano, di solito, solo in particolari circostanze. In questo ambito, purtroppo, non ho trovato una grande scelta ma, come spesso era già successo, Carmelo si presenta con un libro in mano: “prendi questo, credo che ti possa interessare”. Un titolo intrigante: “Appenninia, viaggio nella terra di domani” (Finelli R., 2014). Incuriosito lo metto insieme agli altri che avevo già preso. Anche quella volta aveva colto nel segno! Arrivo a casa e me lo bevo in due giorni. Trecento pagine tutte d’un fiato. Il suo autore, Riccardo Finelli, è un gironalista scrittore che vive sulle colline tra Modena e Bologna, con una certa vena poetica che manifesta in pieno nel suo racconto lungo il crinale dell’Appennino, dalla Liguria fino all’Aspromonte. Un “andamento lento”, su due ruote, fatto in sella a una vespa cinquanta che ricorda il Nanni Moretti di “Caro diario”. Anch’io sono appassionato di viaggi lenti, ma preferisco il sellino di una bicicletta.
La montagna ha sempre suscitato in me un interesse particolare. Ho conosciuto l’Appennino fin da bambino, quando con la famiglia l’attraversavo quasi ogni estate nell’immediato dopoguerra. Dapprima con il treno, poi con la nostra piccola - ma grande - fiat 500, lungo la Val Tiberina e la Valnerina, da Roma per tornare a Cingoli il “balcone delle Marche”. Ho cominciato a frequentare le montagne da ragazzo e poi ho proseguito in età adulta. Ricordo la scoperta del Terminillo, la “montagna di Roma”, con le prime esperienze sciistiche. Indimenticabili le escursioni sui monti Prenestini e le prime pedalate sui Colli Albani.... Ma quello che è stato sempre il mio ideale era ed è il Gran Sasso d’Italia. Non che abbia disdegnato le Alpi, perché le montagne sono tutte affascinanti, ma le Alpi sono …...troppo. L’Appennino, come dice Finelli “è montagna operaia”. È più autentico rispetto alle Alpi, snaturate dal turismo di massa. Non amo gli eccessi, preferisco le cose semplici, “essere meno” dice un vecchio detto orientale, “perché il meno è di più”.
Ho sempre avuto un sogno, uno di quei sogni nel cassetto che ogni tanto apri e ti ricordi che devi ancora realizzare, ma se non ti affretti rischi che svaniscano per sempre. La lettura del libro di Finelli mi ha prepotentemente riportato alla memoria quel desiderio recondito: percorrere il crinale dell’Appennino in bicicletta.
Mettermi in cammino mi è sempre piaciuto e la geografia, che mi ha spesso aiutato a viaggiare con la fantasia, ha avuto un ruolo importante fin da quando, seduto tra i banchi di scuola, giocavo con i miei compagni a rintracciare le località sulle mappe affisse alle pareti della classe. Ero attratto dalle carte geografiche e pian piano sono diventato appassionato collezionista di cartine topografiche e stradali, locandine turistiche e documenti di viaggio di ogni tipo.
Per noi scolari della terza elementare di allora, alla base dello studio dell’Italia geografica c’è sempre stata, la filastrocca “ma,co,gra,pen,a,le,re,ca,giu”. Una cantilena che la maestra ci suggeriva per ricordare facilmente la suddivisione dell’arco alpino: il punto che segna il termine delle Alpi Marittime è il Passo di Cadibona. Dove terminano le Alpi iniziano gli Appennini. Il Passo di Cadibona, chiamato anche Bocchetta d’Altare (a pochi chilometri da Savona) era, pertanto, uno dei riferimenti più importanti.
Riccardo Finelli, però, non inizia il suo racconto di viaggio dal Passo di Cadibona ma dal Passo del Giovi, circa 150 km dopo. Lo scrittore si sorprende della mancanza sul Giovi di simboli che testimonino l’interesse della località. Non trova, infatti, “neanche una targhetta, di quelle che non si negano neppure al più classico dei passaggi garibaldini per questa o quella casa, per un piccolo borgo o una città di provincia. Non c’è una virgola, nulla, che dia segno dell’importanza del luogo”. Finelli appartiene senz’altro a quella generazione, successiva alla mia, dove lo studio del territorio era andato scemando, anche perché nel frattempo sono arrivati strumenti informatici che consentivano di trovare più facilmente località e percorsi, rendendo inutili le reminiscenze scolastiche. Insomma, per un certo periodo la geografia aveva perso la sua importanza. Il Passo di Cadibona non era più un toponimo da studiare, era sfuggito perfino a Finelli, ma possiamo perdonarlo, perché il suo libro è uno dei più belli e completi che abbia letto sull’Appennino.
La lettura di quel libro ha aperto il cassetto dei miei sogni e ho cominciato a trasformare il desiderio in un vero progetto. Con quel libro in mano e con l’ausilio di “google maps” ho intrapreso una lunga e minuziosa ricerca per tracciare l’itinerario da fare in bici, unendo con un filo sottile il Passo di Cadibona alla cima più alta della penisola. Era mia intenzione organizzare un percorso lungo il crinale dal Passo di Cadibona all’Abruzzo: 1.300 chilometri su e giù per l'Appennino. Non ho seguito rigorosamente la descrizione fatta da Finelli, anche perché lo scrittore ha trascurato, tra l’altro, proprio il “mio” Gran Sasso. Ho costruito l’itinerario sulla base delle sue indicazioni,ma ho apportato alcune varianti inserendo diverse località per me più significative.
Mentre concepivo il lungo tragitto mi rendevo sempre più conto dell’impegno e delle difficoltà. In un primo tempo avevo pensato di utilizzare anch’io uno scooter, ma non sarebbe stata la stessa cosa, non avrei realizzato il mio sogno nel cassetto. Ho pensato anche che sarebbe stata utile la presenza di qualcuno che volesse condividere con me il cammino, ma non è facile trovare chi abbia nello stesso tempo almeno due requisiti: la passione per la bici e il tempo disponibile. Senza rinunciare all’idea di una compagnia ho trovato una soluzione che mi consentisse, nel peggiore dei casi, di effettuare l’impresa in solitaria: ho pensato che una buona mountain bike “elettrica” avrebbe risolto molti dei miei problemi. Per questa soluzione sono stato agevolato da una felice sorpresa fattami da amici con i quali collaboro da alcuni anni nella gestione contabile della loro azienda. La pasticceria Bonci, produttrice del famoso “Panbriacone”, mi ha voluto regalare un’ottima “Husqvarna” Cross Tourer con la quale realizzare la mia “pazza idea”.
Appena le norme restrittive del coronavirus me lo hanno permesso sono andato a Montevarchi, nel Valdarno, per uno dei tanti incontri di lavoro con i miei amici, ma soprattutto per prendere l’agognata “Husqvarna”. Ero ansioso di verificare al più presto, con prove pratiche e adeguati allenamenti, la possibilità di concretizzare questo mio sogno senza ulteriori rinvii. La mia conoscenza della bici elettrica era limitata, ma le poche volte che l’ho utilizzata ho potuto apprezzarne i vantaggi, affrontando anche percorsi che sarebbero impossibili con una mountain bike “muscolare”.
Inizialmente la partenza era prevista per il mese di giugno, ma la pandemia mi ha costretto a un rinvio. Ero molto fiducioso, ma se volevo partire entro il mese di settembre mi restavano tre mesi di duro allenamento, non dovevo perdere tempo. Oltre ad un’opportuna preparazione con la nuova e-bike dovevo perfezionare tutta l’organizzazione nei minimi dettagli, senza trascurare nulla. Solo chi ha realizzato viaggi “lenti”, in bici o a piedi, sa che la ricerca degli alloggi, oltre alle difficoltà tecniche, alla lunghezza delle tappe, ai tempi di percorrenza e all’ingombro dei bagagli, sono tra gli aspetti più importanti che si devono definire. Dovevo soprattutto fare una buona preparazione psico-fisica. Era fondamentale sia la preparazione fisica che un adeguato allenamento mentale. In alcuni frangenti è più importante avere una buona mente che buone gambe.
Nel programmare il mio itinerario non avevo previsto nessun aiuto logistico per affrontare il percorso e anche per questo si è verificato un evento inaspettato: Gilda, dopo aver cercato di dissuadermi in tutti i modi, preoccupata per la mia ostinazione, ma anche incuriosita dal mio progetto mi annuncia: “se vai da solo, io ti accompagno con l’auto”. Improvvisamente tutto sembrava essere diventato più facile, con un’auto “ammiraglia” al seguito i rischi connessi a eventuali imprevisti si riducevano al minimo. Il fenomeno che più mi preoccupava era il maltempo, che in montagna può essere improvviso e violento.
Tra le condizioni poste da Gilda, però, c’era anche una visita cardiologica preventiva. Sono dovuto venire a patti con Gilda e con il cardiologo. Dalla visita non è emerso nulla di patologico però, secondo il medico, l’età c’è e non si può nascondere. Mi ha quindi consigliato di ridurre la lunghezza del percorso.
Avrei voluto partire dall’inizio degli Appennini, cioè dal Passo di Cadibona, ma mi è sembrato di buon senso seguire il consiglio del dott. Poggi. Non avevo intenzione di battere nessun record, né di fare un'impresa. Ho ridotto il percorso a circa 670 km, partendo dal Mugello, in Toscana, fino al Gran Sasso. Le 13 tappe previste si sono ridotte a 9. Si dice “tutti i mali non vengono per nuocere”. Rinunciare alla partenza dal Passo di Cadibona mi è costato molto, ma la riduzione del percorso mi ha consentito di procedere con più calma, apprezzare meglio il percorso e fare qualche conoscenza.
Tuttavia il “viaggio lento”, al contrario di quanto possa sembrare, non favorisce il contatto con le persone, né consente di soffermarsi troppo sulle bellezze che s'incontrano. Viaggiare in bici è bello, ma ha anche il rovescio della medaglia: non ci si può permettere di fare soste prolungate perché non è facile recuperare eventuali ritardi. Non è possibile o, comunque, sarebbe molto disagevole arrivare a destino molto tardi, soprattutto con il calar della sera.
Qualcuno mi ha chiesto perché mi intestardissi in questa impresa un po’ azzardata (alla tua …età?). Qualche altro ha cercato di provocarmi dicendo: "percorrerlo in auto sarebbe la stessa cosa!" Le ragioni di fare questo viaggio in bici sono tante ma, a parte la mia passione e la mia ambizione, la risposta può essere trovata nelle parole che già cento anni fa scriveva Alfredo Oriani: “La bicicletta siamo noi che vinciamo il tempo e lo spazio, siamo soli senza nemmeno il contatto con la terra. Quella poesia istintiva di una improvvisazione spensierata, mentre una forza orgogliosa ci gonfia il cuore nel sentirci così liberi” (Oriani A., "La Bicicletta", 1902).
Partire in un momento così difficile, con il virus ancora in circolazione (anche se attenuato) poteva sembrare azzardato, tuttavia il percorso da me scelto si trova lontano dalle grandi vie di comunicazione, in zone non solo periferiche ma del tutto isolate. Insomma con la mascherina a portata di mano la sicurezza era assicurata. E' stato un rimettersi in cammino alla scoperta di paesaggi incontaminati, lontano dagli assembramenti delle città turistiche e delle spiagge, anche per apprezzare la dimensione del silenzio.
Per uno come me, nato in un antico borgo appenninico, cresciuto in una grande città e approdato poi sulle sponde dell’Adriatico, è un ritorno alle origini. Oltre ai ricordi giovanili c’è l'amore per la bici, quasi un'ossessione, che vorrei coltivare ancora per un po’ di tempo. Non sarà, però, una pura prestazione atletica, che non si addice alla mia età e nemmeno alla mia natura di sportivo disincantato. La scelta della bici è solo un modo diverso di viaggiare, una vacanza non consumata, ma vissuta con spirito sportivo.
Nel praticare l’attività sportiva la competizione è sempre stata soprattutto con me stesso e con i miei limiti. Sono uno sportivo disilluso, fortemente critico con il mondo dello sport e con la tifoseria. Non ho mai curato la competizione sportiva perché nella vita è necessario fare delle scelte e l’impegno nel lavoro non si concilia con l’impegno sportivo. Inoltre, anche se sono uno sportivo, non ho mai nutrito particolari simpatie per i campioni. Certamente ho ammirato le maestrie di famosi atleti come Rivera e Mazzola, ma ho sempre pensato che senza Lodetti e Bedin, considerati i manovali del calcio che arretravano, correvano e “portavano palla”, i due grandi rivali non avrebbero potuto segnare la storia del calcio italiano.
Non condivido nemmeno la competizione nell'ambito civile o professionale. Sul lavoro e nelle professioni ritengo che i migliori risultati arrivino con l'impegno e le capacità personali. La competizione, inoltre, viene spesso confusa con la competenza ed erroneamente si crede che la competenza venga esaltata nella competizione. La mia contrarietà verso la “competizione” e verso i “leader” potrebbe ricordare la favola della “Volpe e dell’uva”. Se, però, approfondiamo un po’ il concetto vediamo che la competitività che pervade le società moderne (cosiddette "evolute") può promuove la “crescita” ma, insieme alla crescita economica e al benessere materiale, provocano malattie psicosomatiche e favoriscono il consumo di psicofarmaci (fino ad arrivare al doping nello sport). Il bene-essere materiale non rappresenta il benessere reale, perché viene a mancare la componente spirituale. La competizione prevede sempre un confronto dove sono favoriti il più forte o il più furbo e, comunque, prevale chi ha una posizione privilegiata. Mi viene, pertanto, spontaneo essere solidale con i più deboli e con i perdenti.
Dare importanza alla competizione e allo spettacolo nell’ambito sportivo, secondo me, equivale alla teoria economica della “crescita infinita” in un mondo “finito”. Entrambi i sistemi (competizione e crescita) non portano a “stare-bene”, perché si basano sull’aumento della produzione (di beni e servizi) per aumentare i consumi (di ricchezza e di successo). A questo proposito mi viene di fare riferimento a quanto scritto da Vito Mancuso sul primato dell’etica rispetto alla forza auspicando l'avvento di “una nuova epoca assiale”. Mancuso sottolinea, infatti, la necessità di un “primato dell’etica rispetto alla politica e all’economia, del bene rispetto alla forza, della giustizia rispetto al potere. Intendo una rifondazione di tale contenuto, oggi sempre più minacciato perché le coscienze sono attratte dalla ricchezza, dal potere e dalla forza molto più che dall’etica, dal bene e dalla giustizia”. (V. Mancuso, “I quattro Maestri” Garzanti 2020) Una “rifondazione” che potrebbe valere anche per il mondo dello sport che gli consenta di ritrovare i valori che la mercificazione dilagante ha fatto perdere all’impegno sportivo e, sempre con le parole di Mancuso, si può dire: “Forse è stato sempre così, ma un tempo si cercava almeno di giustificare in termini etici e ideali il proprio comportamento, mentre oggi sta crollando anche l’esigenza formale della giustificazione etica e giuridica della forza”.
Il filosofo Xunzi (310-215 a.C.) seguace di Confucio diceva "l'uomo non può esistere senza gioia". Il gioco ha una grande importanza perché procura gioia; qualunque gioco è lecito anche se io preferisco giocare in maniera dinamica e privilegio il movimento e l’aria aperta. Sono d’accordo con il mio amico Paolo Crepaz: “l’uomo deve poter continuare a giocare se vuole sopravvivere” (Crepaz P., Homo ludens: tutti in gioco", 2015). E’ per questo che io concepisco l’attività sportiva solo se implica un impegno sociale insieme ad un interesse culturale, storico e paesaggistico e, soprattutto, se resta un gioco.
Apprezzo l’attività sportiva all’aria aperta perché è creativa come il paesaggio che la circonda. Non riesco più ad interessarmi con passione agli avvenimenti sportivi, sono diventato addirittura indifferente alle sorti della nostra nazionale di calcio. Il motivo principale è, senz’altro, dovuto alla mercificazione dello sport e all’utilizzo distorto che ne fa la politica.
Sono molto in conflitto con me stesso nel mettere in discussione il ruolo educativo dello sport, soprattutto nei confronti dei giovani. Ritengo che il modo attuale di concepire lo sport abbia molte controindicazioni e offra esempi poco edificanti. Come la Bellezza, lo Sport avrebbe dovuto salvare il mondo, invece ne è diventato lo specchio fedele delle sue carenze e delle sue incongruenze.
Franco Arminio dice: “Non è la crescita la nostra salvezza. La nostra crescita è la poesia” (Arminio F., "Comizio a Cairano", dal blog Paesologia, 2009). Io aggiungerei che troveremo la salvezza desiderando anche la bellezza. E’ stato detto “La bellezza salverà l’umanità” (Dostoecskyij F., "L'Idiota" 1901), ma ciò sarà vero solo se l’umanità riuscirà a salvare la bellezza.
Nel preferire l'attività motoria all’aria aperta, il paesaggio ricopre un ruolo fondamentale. Il paesaggio interno della nostra penisola è un patrimonio in gran parte sconosciuto e trascurato e una sua maggiore conoscenza potrebbe favorirne la tutela e la conservazione naturale.
La paesologia è un termine inventato da Franco Arminio. E’ la narrazione dei centri minori e dei loro abitanti, è il racconto del piccolo, è la poetica del paesaggio. E’ l’arte dell’essenziale, è la ricerca della bellezza naturale. La paesologia canta la semplicità e l’umiltà del “villano”, ma è anche la rivincita verso il caos della metropoli. E’ vero che il futuro è della tecnologia e dell’innovazione, ciò a tutto vantaggio della città. Il paese invece è legato alle tradizioni e alla manualità. Si dice che oltre il 90% della popolazione mondiale vivrà nelle grandi megalopoli. Le città garantiscono più tecnologia, più informatica, più servizi, più divertimento e, in ultima analisi più lavoro, cioè più economia, ma non siamo fatti per vivere in una metropoli, ci stiamo solo “adattando” perché la vita in città è più comoda. Se perdiamo il contatto con i nostri paesi, però, rischiamo di perdere la nostra umanità, anzi direi che perdiamo la nostra identità. Lo “skyline” di una metropoli sarà anche interessante, ma non avrà mai la poesia di un panorama di montagna o di una spiaggia al tramonto.
Dopo le Vie Francigene e il giro dell’Abruzzo in bici, quest’anno voglio cimentarmi in un altro viaggio lento, come piace a me: giocando e cercando stimoli nuovi, all’insegna della libertà e della speranza. Tutto il percorso lungo la “dorsale appenninica”, infatti, rappresenta il viaggio della speranza: la speranza di vedere un giorno rifiorire il nostro Appennino. Inoltre, come diceva Alfredo Oriani “Il piacere della bicicletta è quello stesso della libertà” (Oriani A., Ibidem) La libertà che fa volare con il pensiero, fino all’utopia.
In questo progetto il riferimento al paesaggio è predominante, ma ho voluto dare importanza agli aspetti storici dell’Appennino e dei popoli italici che lo hanno abitato. Storia comune per tutte le genti di montagna alla mercé, per tanti secoli, di ogni tipo di privazioni, oltre che di prepotenze e soprusi. I vecchi borghi arroccati sono stati per molti secoli l’unico baluardo per le popolazioni rurali, lontano dalle paludi della costa e dalle continue incursioni dei saraceni, lontano dalle strade del fondovalle percorse dagli eserciti e dalle scorribande dei briganti. Vita dura per i montanari che, pur dovendo pagare l’obolo al "principe" anche per un ciocco di legno raccolto nel bosco, non avevano diritto a nessuna protezione. Una storia di sacrifici e dolori che continua ancora oggi con lo spopolamento dovuto alla crisi economica e all’incubo dei terremoti.
L’Appennino è stato anche lo scenario che ha visto la “Resistenza” contro il nazi-fascismo. Ho letto molto sul periodo, sulle gesta e sui luoghi della "Resistenza", sono curioso di vedere di persona alcune di quelle località che ho conosciuto sui libri. Il percorso che ho scelto, infatti, ricalca in gran parte la “Linea Gotica” dell’ultima guerra mondiale dove i nazisti cercarono, dall’autunno del 1944 al settembre del ‘45, di bloccare l’avanzata degli alleati a fianco dei quali operavano i partigiani abruzzesi della “Brigata Maiella” che per il loro eroismo meritarono di sfilare per primi alla liberazione di Bologna. Sono nato ai tempi della Resistenza. Sotto le mie finestre marciavano le truppe naziste, pochi mesi dopo a Cingoli entravano gli abruzzesi della Maiella. Per me la Resistenza è un simbolo importante.
La parte finale del percorso, invece, si svolgerà all’interno del cosiddetto “cratere” del terremoto.
Interi paesi distrutti e abbandonati, ma che devono assolutamente rinascere perché sono la nostra speranza. La speranza di tutti noi, non solo dei montanari che sono dovuti fuggire. Un viaggio che sa di antico, ma che spera nel futuro.
Negli ultimi anni del secolo scorso un limitato boom economico aveva sfiorato le frazioni montane della penisola, c’è stato il fiorire dell’artigianato locale e del commercio, ma soprattutto c’è stato lo sviluppo del turismo. Un turismo familiare, un turismo minore tipico di queste zone e di queste popolazioni che è stato penalizzato dal consumismo ed è fuori dalla portata dei “tour operator”. Ci si è illusi di poter replicare il successo delle località alpine, promuovendo il turismo invernale anche nell'appennino, ma il cambiamento climatico ha definitivamente ridimensionato ogni aspirazione e ogni speranza. Nevica sempre meno e i numerosi impianti di risalita sono ormai ridotti a ruderi arrugginiti e, più che strutture turistiche, assomigliano a vecchia archeologia industriale. Trovare oggi un alloggio nei paesi della montagna appenninica non è facile, molte strutture hanno chiuso definitivamente. Non c’è più richiesta di vacanza nelle vecchie “località climatiche” tanto decantate dalle cartoline della seconda metà del secolo scorso.
Oltre al turismo (mai decollato) sui monti dell’Appennino e tra le valli c’era anche un'economia fatta di piccole attività familiari che si adattavano all’ambiente e che mantenevano viva una società strettamente legata alla sua terra e alle montagne. I terremoti hanno dato il colpo di grazia a questa economia fatta di stenti. A causa dello spopolamento il paesaggio si è inselvatichito. Il bosco ha ripreso il suo territorio. Sembrano luoghi inoperosi, però il selvatico permette alla natura di riprodursi, di essere viva. Mi ritornano in mente le montagne spoglie e aride che vedevo da bambino e i diversi piani di piantumazione dei governi italiani del dopoguerra, che in gran parte hanno favorito il rimboschimento. Penso anche ai tanti incendi dolosi dei nostri tempi. Mi chiedo: perché non amare i nostri territori? Riappropriarsi di questi ambienti potrebbe essere la salvezza dell’Appennino e la salvezza dagli psicofarmaci.
Nonostante l’attuale decadenza sono d’accordo con Finelli quando sostiene che la spina dorsale dell’Italia avrà un futuro e avrà ancora una sua importanza economica e sociale. Ciò potrà avvenire se ci sarà una rapida ed efficace ricostruzione post-terremoto a cui deve affiancarsi un piano di investimenti tecnologici a partire dalla tanto sospirata “banda larga”, consentendo di annullare le distanze delle campagne e dei borghi di montagna. E', però, necessario abbandonare definitivamente l'utopia degli investimenti industriali indiscriminati e le cosiddette “cattedrali nel deserto”.
Oggi in dieci giorni si può girare il mondo. Ma a che serve scoprire il mondo se non conosciamo il nostro territorio, se trascuriamo le nostre montagne e le nostre tradizioni?
Devo ringraziare Gilda per aver deciso di accompagnarmi, ma io penso di ricompensarla facendole scoprire un’Italia nascosta, un’Italia minore che non avrebbe niente da invidiare alle più famose località turistiche: l’Italia delle tradizioni che rischiano di scomparire, la periferia di una nazione che contiene più di quanto si creda. L’Italia dei carbonari e dei minatori. L’Italia degli eremiti e dei partigiani. L’Italia dei contadini e degli operai, i pochi rimasti accomunati dall’attaccamento alla loro terra. Gente di montagna abituata al sacrificio, che ha contribuito a costruire un paese con il lavoro e la passione per la natura e per la propria libertà.
Oltre a Gilda ha raccolto il mio appello anche Marco, il mio amico aquilano, che all’ultimo momento mi ha annunciato di aver trovato alcuni giorni per accompagnarmi in bici. E’ stato il terzo evento inaspettato. L’arrivo di un compagno di viaggio mi è di conforto, soprattutto la presenza di Marco con il quale mi lega una lunga e profonda amicizia.
Ecco! Per vedere da vicino questi fenomeni e per poterli raccontare anche con l’ausilio della mia macchina fotografica, confidando nella collaborazione di Gilda e di Marco, non ho rinunciato a quella che, solo apparentemente, poteva essere una follia.
Abbiamo percorso la dorsale appenninica attraverso le strade che raggiungono i passi più elevati e significativi; dalla Toscana fino all’Abruzzo, sfiorando la Romagna, l’Umbria, le Marche ed il Lazio.
Nove sono state le tappe in bici per circa 670 chilometri. Importante è stata la presenza di mia moglie con l’auto, la sua assistenza è stata opportuna e gradita.
Lungo l’intero percorso abbiamo incrociato per 14 volte il “Sentiero Italia” del CAI e abbiamo incontrato alcuni tratti del cammino di Dante che andava a “provare si come sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale” (Dante, Paradiso, Canto XVII). Diversi sono stati, inoltre, gli itinerari e le località che ci hanno ricordato eventi storici per lo più dimenticati e sconosciuti anche agli abitanti del luogo.
Un percorso di strade secondarie lungo il crinale che necessariamente scavalca valichi di montagna per un totale di circa 650 chilometri, di cui 300 di salita. Ad ogni salita, però, segue sempre una discesa. La fatica delle salite fa apprezzare ancora di più la leggerezza e il fascino delle discese.
Chi si ferma è perduto e io credo fermamente che “se siamo stanchi è perché abbiamo smesso di camminare”. Per questo, finché le mie forze e la mia volontà me lo permetteranno, io voglio continuare a camminare.
Naturalmente è rimasta sempre l’intenzione di percorrere il tratto iniziale dell’Appennino: dal Passo di Cadibona a Firenzuola, che spero di poter compiere appena possibile.
Abbiamo fatto un viaggio fantastico, spero di averlo raccontato al meglio, anche con la mia poca ..fantasia.